Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 25 agosto 2022

I DE MARTINO DELLA GALLINI (1995)

 

INTERPRETAZIONI DEMARTINIANE

Clara Gallini (1931-2017) insigne antropologa italiana, formatasi con Ernesto de Martino, viene intervistata da Federico De Melis nel 1995 per Il Manifesto. Nessuno può considerarsi "vestale" di un pensiero così complesso come quello dell'etnologo partenopeo, tra l'altro stimolato da diverse sensibilità culturali (storicismo crociano, esistenzialismo, marxismo, l'incrocio tra ontologia e antropologia). Non esiste un'"ortodossia" demartiniana, ma c'è semmai la necessità di renderlo attuale nell'interpretazione del presente e della sua possibile trasformazione e non un ‘balocco accademico’. Leggendo l'intervista, appare chiaro che anche le interpretazioni della Gallini (esempio piuttosto noto le due introduzioni scritte per l'edizione 1977 de "La fine del mondo" e del 2002 sempre per Einaudi) sono diverse relativamente alle varie fasi di studio e ricerca attraversate. - fe.d.

 

dall’Archivio storico de Il Manifesto, 24.05.1995 a firma Federico De Melis 

 

https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1995008606

 

I DE MARTINO DELLA GALLINI (1995)

Ernesto de Martino, un padre rimosso 

La sinistra doveva riflettere sulla sua moderna lezione, invece che inseguire le mode come Lévi-Strauss 

FEDERICO DE MELIS intervista Clara Gallini

S IAMO VENUTI a trovare l'antropologa Clara Gallini, nella sua casa all'Esquilino, per parlare con lei di Ernesto de Martino, della fecondità della sua lezione, dimenticata o travisata o addirittura banalizzata. E' così? le chiediamo mentre cerca di distrarre i suoi amati gatti con buoni argomenti alimentari. "Sì - esordisce sullo sfondo di una corrusca e secca tela seicentesca, dove un san Giovanni dà la comunione a Maria - possiamo dirlo: la sinistra non ha colto, con lui, l'occasione di un serio, profondo ripensamento metodologico, ed ha finito per buttarsi tra le braccia di mode culturali del momento, venute dall'esterno: come Lévi-Strauss negli anni sessanta, ora gli interpretativisti... Diceva de Martino: se non ti crei le tue memorie, il passato torna come cattivo passato. E d'altra parte insegnava che la fedeltà alla propria cultura è possibile solo attraverso il confronto, il rapporto con l'altro. Non s'è voluto capire". L'occasione di questo incontro è a suo modo eccezionale: l'inizio della pubblicazione in edizione critica, da parte di una piccola casa editrice leccese di nome Argo, di una serie di opere, edite e inedite, di Ernesto de Martino. Le prime due, di imminente pubblicazione, sono: Storia e Metastoria. I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di Marcello Massenzio, e Note di campo. La 'spedizione etnologica' in Lucania (1952), a cura della stessa Clara Gallini.

Cominciamo dal travisamento del pensiero demartiniano.

Come ogni pensiero forte, esso si presta al saccheggio ideologico. Nonostante la sua indubbia tenuta sul piano filologico, è possibile cavarne parti funzionali a una prospettiva ideologica o politica del momento, rendendolo inerte. Esso è invece un pensiero teso all'unità delle diverse tematiche che esplora. Lo schematico ripensamento che se ne è fatto negli anni settanta tuttora nuoce a de Martino: il quale ne è uscito come un meridionalista che teorizza una rigida dialettica e alterità tra culture egemoniche e culture subalterne. Questo approccio ideologizzante e riduzionistico ha finito per travisare il significato profondo dell'opera demartiniana: nella quale è vero che si riflette la gramsciana dialettica tra alto e basso, e in essa l'articolarsi delle culture in termini di potere - prospettiva di cui, detto per inciso, rifiuto l'attuale cancellazione -, ma questa dialettica si realizza attraverso sfumature, articolazioni, ibridazioni che ne mutano sostanzialmente la natura e ne fanno la grande modernità.

In che senso ne fanno la modernità?

Premessa l'idea, contestabile, di de Martino secondo cui le madonnine che piangono dovrebbero scomparire, e se non succede è perché la ragione occidentale non è abbastanza forte e unificante, non è questo che gli interessa in particolare. Nella sua trilogia del sud - Morte e pianto ritualeSud e magiaLa terra del rimorso - egli studia degli "istituti culturali", degli insiemi di quelle che oggi chiameremmo "pratiche simboliche", nelle comunità tradizionali, evidenziandone gli infiniti raccordi con la cultura cosiddetta alta, e le compromissioni, e le ibridazioni: per cui tra magia e religione ci sono infinite possibilità di passaggio. Un esempio: durante il medioevo il modello elaborato dal cristianesimo per contenere la morte non è sufficiente, per cui deve integrare elementi pagani: ecco allora, nelle sacre rappresentazioni, la madonna in veste di lamentatrice.

Un tessuto magico

Un altro esempio è la jettatura: per de Martino essa nasce all'interno di ceti intellettuali, che tentano una mediazione tra approccio razionalistico e approccio magico-simbolico. Queste forme intermedie costituiscono una trama, un tessuto così forte, da rendere del tutto infondata l'idea della magia come esperienza isolata, separata, rispetto alla religione cattolica. A seconda dei momenti, delle necessità, tra le quali vanno comprese le "strategie" della chiesa, si creano queste forme instabili e complesse che si legano le une alle altre in una catena infinita. E' su questa base che de Martino poneva critiche a Gramsci: per lui la cultura popolare non è un amalgama indigesto e residuale ma si collega con quel che le sta sopra. Niente di più distante da de Martino, dunque, del discorso pasoliniano sull'omologazione culturale.

E questa prospettiva demartiniana quali orizzonti apre sull'oggi?

Oggi, per altre strade, nell'antropologia si va affacciando l'interesse per i processi di cosiddetto meticciato culturale. Venendo meno l'idea gramsciana - che non aveva de Martino - di un forte nucleo culturale egemonico e di culture altre fortemente chiuse in se stesse, si è molto attenti alla costruzione di nuovi sensi che i soggetti danno alle cose utilizzando equalmente il bagaglio tradizionale e quello della modernità. Il "meticciato culturale" presuppone l'attività del soggetto dominato, il quale, dice de Martino, risponde alle sollecitazioni dall'alto con gli strumenti suoi propri, trasformandole. Bisogna avere sempre presente questo elemento, per scongiurare la falsa immagine dell'imperialismo culturale che arriva e tutto cancella. Nondimeno de Martino pensa che un certo mondo deve finire: il mondo della magia, in quanto realtà dell'angoscia e della dipendenza.

E' falsa dunque, per de Martino, l'idea delle culture tradizionali che "resistono" o che "scompaiono".

E' totalmente falsa. Eppure si è voluto vedere in lui il teorico delle culture di "contestazione". Con de Martino siamo agli antipodi del culto assai pericoloso di un certo filone indigenista che vuole le culture "altre" stoicamente resistenti alla modernità. Insieme alla resistenza nelle culture tradizionali c'è fluidità, abbandono, compromesso: ciò che fa la vita quotidiana di tutti.

E qual è di conseguenza la sua posizione nei confronti del "relativismo culturale", l'idea che ciascuna cultura debba essere compresa e giudicata attraverso i suoi propri metri, oggi rilanciato dal 'politically correct'?

Già alla fine degli anni quaranta de Martino era assolutamente contrario al relativismo culturale, che poi si sarebbe imposto come moda intellettuale. Egli lo riteneva un frutto del tardo capitalismo, laddove assolutizza ciascuna cultura, chiudendola al confronto con le altre.

Un'altra immagine di de Martino è lo studioso scisso tra richiami irrazionalisti e adesione al marxismo.

Quest'immagine ha elementi di realtà non confutabili, anche se bisogna un poco correggerla, tuttavia senza tante speranze di risolverla. Non c'è tanto un'antinomia tra marxismo e irrazionalismo, quanto un'antinomia, che si propone come viva contraddizione, tra ragione e irrazionalismo. De Martino non risparmiava critiche alla "svalutazione" del mondo magico operata dal marxismo. E d'altro canto nella Fine del mondo non indugia a inserire il marxismo tra le "apocalissi culturali", sottolineandone la carica utopistica. Già alla fine degli anni quaranta postulava una relativa autonomia del simbolico e del culturale, con critiche precise al rapporto meccanico che il marxismo allora dominante stabiliva tra struttura e sovrastruttura.

S'è rilevato tuttavia che in de Martino queste critiche di metodo non erano del tutto consequenziali sul piano politico.

Però sono le critiche che alla lunga avrebbero determinato la sua rottura col partito comunista, il cui atteggiamento va a sua volta visto con più ponderazione. Dai taccuini della prima ricerca sul campo in Lucania, che oggi pubblichiamo, sono uscite, da questo punto di vista, cose estremamente interessanti: come il fatto che essa fu in buona parte finanziata dal Pci e dalla Cgil. Nello stesso anno in cui Togliatti si scagliava contro gli intellettuali che scrivevano poesie sull'amore pederastico "attivo o passivo", o contro i rischi di irrazionalismo connessi alle ricerche sulla stregoneria, sia Alicata che Di Vittorio mostravano una diversa apertura. Anche il Pci, dunque, non va visto come un corpo monolitico, era attraversato da una certa dialettica interna. Il punto di crisi era laddove de Martino puntava a sovrapporre a una visione politica in senso stretto una visione culturale: e oggi vediamo quanto fosse lungimirante.

Affrontiamo ora l'altro corno del problema: l'irrazionalismo. Nel 1991 Pietro Angelini ha curato per Bollati Boringhieri l'epistolario tra Ernesto de Martino e Cesare Pavese intorno alla "Collana viola" di Einaudi, con cui subito dopo la guerra si volevano portare da noi i grandi testi dell'antropologia e mitologia europee, tra cui non mancavano "classici" dell'irrazionalismo, da Kerényi ad Eliade. Tra i due curatori v'è una specie di tira e molla, con Pavese immerso senza remore nella magia e de Martino più attento ai suoi interessi di studioso, e in una certa misura interprete, per altro, delle esigenze "didattiche" della casa editrice, fortemente influenzata dal Pci: il quale era preoccupato dall'introduzione in Italia, dopo l'ecatombe nazista, di opere in cui vedeva la "distruzione della ragione". Con una parte di sé de Martino sembra condividere, però, il culto di Pavese.

De Martino ebbe una grande attenzione, che sfociava nell'attrazione, per alcune correnti irrazionaliste del pensiero europeo. Non ne rimase inviaschiato, ma semplicemente le usò. Criticava fortemente nei pensatori irrazionalisti - a cominciare da Rudoplh Otto - la propensione a considerare il simbolico come una fenomenologia del sacro, a sua volta considerato come una categoria ontologica, autosufficiente, esterna alla storia. E' una posizione che si ravvisa tuttora, per esempio in Italia nelle speculazioni di Elemire Zolla. Per de Martino tuttavia questi pensatori portavano il nuovo, attraverso cui riformulare in modo originale le proprie categorie.

E parlo soprattutto delle categorie teoriche. E' molto sintomatica, in questo senso, la sua disattenzione verso i funzionalisti inglesi, che risolvono nella relazione sociale la dimensione del simbolico, per cui, brutalmente, se credi nella stregoneria è perché hai dei cattivi rapporti con la suocera. Questa disattenzione costò a de Martino non poche critiche. Anch'io ne ero perplessa ma più vado avanti negli anni più ne capisco le ragioni profonde. Certo, de Martino teneva fuori, così, un problema di ampia portata come quello dell'articolarsi complesso del rapporto tra soggetto e sue rappresentazioni. Ma la sua scelta - che era di affinare la conoscenza dei meccanismi del simbolico - lo conduceva altrove.

Infine, come leggere oggi 'La fine del mondo', opera ultima pubblicata postuma nel '77 dove, come lei scrisse nell'introduzione, "oramai Gramsci cede il posto ad Heidegger"? Il problema di de Martino è a questo punto l'"esserci", al di qua di ogni specifica sociale o culturale. E' qualcosa di totalmente alieno, come è stato scritto, dal de Martino precedente?

C'è sia continuità sia rottura. Quando scrissi l'introduzione a La fine del mondo avevo non poche resistenze, teoriche e politiche, nel constatarne l'assenza della dialettica gramsciana egemonia-subalternità, cioè di una prospettiva di classe, a favore della centralità del dualismo crisi-reintegrazione rispetto a un universo sociale o culturale indicato come "mondo". Non si può dire peraltro che quest'opera spunti come un fungo. C'è una continuità di pensiero in relazione soprattutto al Mondo magico, che aveva visto la luce nel '48: a sostanziarla è il preminente interesse verso la dimensione epistemologica. Le modalità attraverso cui si forma il pensiero simbolico, e va fortemente a collidere, come riteneva de Martino, col cosiddetto pensiero razionale, oggi suscitano peraltro uno stimolante ripensamento della sua opera in campo antropologico, filosofico e storico, che rapporta de Martino ad alcune grandi correnti del pensiero europeo, come ha messo bene in luce Marcello Massenzio. Nella Fine del mondo de Martino prova, poi, a misurare la tematica del simbolico con la varietà del reale e con la dimensione del potere, non sempre riuscendo persuasivo. Il suo era il tentativo di ricostruire un'organicità che va dal vitale all'economico, dal simbolico al razionale, sia sul piano d'una riflessione astratta sia su quello della verifica concreta: un tentativo titanico, prometeico, tutto suo nel bene e nel male. Però sarebbe stato molto più facile ripensare le nostre categorie, le nostre bandiere, se più per tempo si fosse assunta l'importanza, che de Martino ravvisa prima di tutti e già nel Mondo magico, del piano simbolico in quanto piano della realtà.





Clara Gallini (1931-2017), Ernesto de Martino (1908-1965)

Subaltern studies Italia




sabato 20 agosto 2022

Caulonia e l'#insorgenza meridionale

 

L’orientamento della mobilitazione dell’élite tendeva a essere più legalista e costituzionalista, mentre la  mobilitazione dei subalterni era relativamente più violenta. La prima era, nell’insieme, più cauta e controllata, la seconda più spontanea. Nel periodo coloniale la forma più generale della mobilitazione popolare era quella delle sollevazioni contadine: e, d’altro canto, anche nelle molte occasioni storiche in cui sono state coinvolte grandi masse di lavoratori e di membri della piccola borghesia nelle aree urbane, la forma di mobilitazione derivava direttamente dal paradigma della rivolta contadina.

Ranajit Guha in Guha e Spivak, Subaltern studies - Modernità e (post)colonialismo, (a cura di Sandro Mezzadra) ombre corte, 2002, pag.36

 

Guha, Subaltern Studies Italia, Ammendolia, Musolino, Villari

 

  • Aspro Montano (3)
  • Repressione a Caulonia
  • Coloni e colonizzazione mafiosa
  • Rosario Villari: esperienza aspro montana nel 1949

 

ASPRO MONTANO (3.)

Un’indagine storico-politica che intende mettere in evidenza il protagonismo di massa dei contadini del Mezzogiorno d’Italia all’indomani dello sbarco alleato nel periodo 1943-1945. Un movimento di insorgenze prevalentemente bracciantili che riannodava i fili della lotta per le terre incolte o malcoltivate stroncate dal fascismo, espressione armata di regime del dominio dei grandi agrari assenteisti e del latifondo fondiario. Il culmine della nuova stagione di lotte del ruralismo meridionale si avrà nel 1949, ma aveva ripreso nuovamente vigore nel 1945, prima della liberazione del Nord Italia. La Repubblica “rossa” di Caulonia, ai piedi dell’Aspromonte, animata da Pasquale Cavallaro, lo dimostra. La repressione poliziesca e giudiziaria frustrò le speranze di riscatto delle ‘plebi rustiche’, espressione coniata da Ernesto de Martino che ne studiò successivamente le conformazioni culturali. Quanto di quella frustrazione sociale è alla base della trasformazione della questione meridionale, analizzata da Antonio Gramsci e dal meridionalismo storico, anche di matrice liberale, in ‘questione criminale’? La quaestio era stata d’altra parte impostata così dalla pseudoscienza di Cesare Lombroso alla fine del XIX secolo in termini di tare genetiche. Conferme venivano dalle ricostruzioni storiografiche che vedevano la mafia alleata degli angloamericani nello sbarco in Sicilia del 1943, della consegna delle armi a raggruppamenti inquinati dalle organizzazioni malavitose, l’accusa, mossa allo stesso Cavallaro, di essere contiguo a quella che veniva definita ‘l’onorata società’. Almeno fino alla mattanza di Portella delle Ginestre del 1 maggio 1947. I partiti e le organizzazioni della sinistra storica, il PCI, il PSI, le Camere del lavoro che riprendevano il lavoro di organizzazione e ‘coscientizzazione’ del moto della rivolta per la terra, sostennero le ‘insorgenze’ e il diffuso malcontento con la parola d’ordine della ‘terra ai contadini’, ma con il limite delle tattiche politiche per il condizionamento sui governi di matrice unitaria e sullo scenario dell’occupazione delle truppe angloamericane. 

 

 

REPRESSIONE A CAULONIA

 

“Partiti da Salerno, pieni (a parole) di buoni propositi e di fiere dichiarazioni, non potrete arrivare ad altro che a Caulonia.”, Palmiro Togliatti, l’Unità, 20 marzo 1945.

Oggi, con tutta la serenità d’animo possibile ad oltre mezzo secolo di distanza, possiamo affermare che i ribelli di Caulonia chiedevano, “sopra ogni altra cosa” la punizione dei fascisti? Non v’è alcun dubbio che, se il detonatore dell’esplosione fu la miseria, così come affermava E. Musolino, l’obiettivo della rivoluzione fu la riforma agraria, che significava diritto al lavoro e quindi libertà dal bisogno, e proprio attraverso la proprietà delle terre, speravano di riscattarsi da lungo servaggio e conquistare la dignità di uomini.

Ilario Ammendolia, Occupazione delle terre in Calabria - 1945-1949, (Proletari senza rivoluzione), Gangemi, 1990, pp. 9-10. 

 

 

“Oltre duecento persone furono arrestate e percosse a sangue e poi messe sotto processo, che venne celebrato alla Corte di assise di Locri. + Pasquale Cavallaro fu condannato non solo come promotore della sommossa in forza del telegramma, + ma anche come mandante in assassinio nella persona del parroco Amato, del quale reato era certamente innocente. Infatti, la Corte d’appello di Catanzaro, con sentenza del 17 gennaio 1958, in riforma di quella della Corte d’assise di Locri, condannò il Cavallaro alla pena di anni 18 per concorso nell’omicidio. Tale pena fu ridotta ad anni sei per il disposto dell’art.9 del Decreto L. del 22.4.1946 n.41. (..) Così si chiuse la storia della famosa repubblica di Caulonia, il cui epilogo servì a far conoscere quali erano le condizioni di vita delle nostre popolazioni, portate ad agire caoticamente, talvolta, per motivi estranei ai loro veri interessi di classe, ma in realtà sospinte dalle secolari sofferenze di una vita grama e arretrata.”, Eugenio Musolino, all’epoca dei fatti segretario provinciale della federazione PCI di Reggio Calabria, in AA.VV., La Repubblica rossa di Caulonia - Una rivoluzione tradita?, Casa del libro di Reggio Calabria, 1977, pp.139-149. Contiene l’intervista di Sharo Gambino a Pasquale Cavallaro, apparsa a puntate su Calabria Oggi nei numeri che vanno dal 4 novembre al 30 dicembre 1976. Tale intervista, assieme al dibattito ad essa seguito sulle pagine del periodico, è stata successivamente pubblicata nel volume in questione di cui sono autori Pasquino Crupi, Sharo Gambi­no, Enzo Misefari ed Eugenio Musolino.

 

+

·         Il 5 aprile 1945, ad un mese dalla rivolta, Cavallaro aveva inviato un telegramma al prefetto Priolo, minacciando un’altra sommossa.

·         Il processo per la rivolta di Caulonia si aprì a Locri il 23 giugno 1947 contro ben 365 imputati. Con la sentenza emessa il 23 agosto 1947 furono tutti amnistiati, tranne Ilario Bava e Giuseppe Manno, accusati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio del parroco, nonchè Pasquale Cavallaro, indicato come mandante senza alcuna prova e contro i quali si stabilì la prosecuzione del procedimento.

 

Le vicende della spartizione delle terre demaniali, risoltasi in un ulteriore arricchimento dei proprietari terrieri, e quella dell’affrancazione degli usi civili attraverso la quale si tolsero alle popolazioni i loro antichi diritti senza alcun apprezzabile compenso, o, ancora peggio, quella della liquidazione dell’asse ecclesiastico; che volle dire la scandalosa dilapidazione di un ingentissimo patrimonio collettivo a vantaggio di pochi privilegiati. (Emilio Sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione, Einaudi, 1948, cit. da Pasquino Crupi, in op.cit. La Repubblica rossa di Caulonia, pag. 141. 

 

COLONI E COLONIZZAZIONE MAFIOSA

di Eugenio Musolino

”Borghesia mafiosa” è espressione che è entrata anche nel lessico della battaglia politica: con essa si intende, seguendo la traccia dell’analisi di Mario Casaburi, il processo che ha portato la deprivazione materiale e culturale di settori della popolazione meridionale ad “incistare” il sistema, nello specifico il sistema capitalistico, contravvenendo alle sue ‘regole’ con modalità illegali criminali, sebbene funzionale ad esso. La questione sociale diventa così questione criminale da affidare agli apparati repressivi di uno Stato fortemente attraversato, sistematicamente appunto, dalla fronda malavitosa da sè prodotta e che da subalterna diventa egemone e parte della classe dominante.

- Per denigrare la Repubblica di Caulonia guidata da Pasquale Cavallaro nel marzo 1945, furono utilizzate categorie come ‘collusione mafiosa’ o ’inquinamento malavitoso’ per depotenziarne la potenzialità sovversiva. Così la analizza Eugenio Musolino, all'epoca dei fatti segretario provinciale del PCI di Reggio Calabria. Egli ne scrive nel 1977.

- di Mario Casaburi cfr. Borghesia mafiosa. La 'ndrangheta dalle origini ai giorni nostri, Dedalo, 2010

Cavallaro, dunque, caduto il fascismo, incitò, con l'appoggio della mafia locale capeggiata da un certo Cirillo, i contadini a ribellarsi contro le poche famiglie padronali che detenevamo il primato. La condizione dei contadini rasentava la schiavitù. Non esistevano patti colonici giuridicamente costituiti, vigeva soltanto l'uso consuetudinario di un rapporto che il proprietario stabiliva e che il colono doveva accettare se voleva vivere e avere un tetto sia pure assai misero. Si è già detto che al colono era destinato il quinto o il sesto del prodotto, delle regalie che egli doveva al padrone in occasione delle feste natalizie e pasquali e nella ricorrenza del suo onomastico. Il padrone, inoltre, esigeva il servizio domestico da parte della moglie del colono, servizio che doveva essere gratuito. Il controllo della condizione colonica veniva esercitato da un fiduciario del padrone, chiamato fattore, una mansione questa che corrispondeva a quella di campiere in Sicilia. Questi, nell'opera di mediazione, aggiungeva il suo personale sfruttamento, intascando anch'egli regalie, spesso dalle due parti. Il fenomeno della mafia in Sicilia e in Calabria fu anche opera di questi fattori. Il codice civile limitava a qualche articolo il dispotismo padronale, ma quale colono avrebbe avuto il coraggio di ricorrere alla giustizia per avere ragione sul padrone, per le ingiustizie subite? Ciò avrebbe causato la sua espulsione dal fondo, con la conseguenza di non trovare altra colonia. I padroni erano solidali tra loro e non intendevano accogliere nelle loro proprietà contadini ribelli. Ora la questione dell'usurpazione del demanio veniva a immiserire la condizione dei contadini che dalle terre comunali traevano non pochi vantaggi: legno, frutta, pascoli, eccetera.  Cavallaro, dunque, voleva legare il suo nome a un'opera di giustizia resa al popolo e con i suoi figli si preparava all'azione. Si era rifornito di armi reperite  dai soldati in ritirata e sottratte anche ai fascisti del luogo. Tutto questo non poteva non preoccupare autorità e prefetto.

da Eugenio Musolino, Una rivolta escamisada, sta in Crupi, Gambino,Misefari, Musolino - La Repubblica rossa di Caulonia - op.cit., pp.122-124.

 

 

ROSARIO VILLARI - ESPERIENZA ASPRO MONTANA nel 1949

il racconto autobiografico del grande storico de “Il Sud nella storia d’Italia”

 

In gran parte delle regioni meridionali la base su cui si è costituito il movimento comunista è stata la solidarietà nei confronti delle masse contadine, il superamento di antiche barriere che isolavano i contadini e contribuivano a mantenerli in condizione di estrema povertà e di totale soggezione. (..) Nell’inverno del 1949 si svilupparono in Calabria grandi movimenti contadini. La provincia di Reggio era in grande agitazione soprattutto nel versante tirrenico, dove si concentrarono quasi tutti i dirigenti provinciali del partito e dove furono contemporaneamente convogliate quasi tutte le forze di polizia disponibili nella provincia. Ma mentre nella Piana di Gioia Tauro erano in corso aspre lotte e si veniva dispiegando in tutta la sua ampiezza un forte movimento di braccianti e di contadini poveri, qualche segno di fermento cominciò a manifestarsi anche nel versante jonico. Il comitato regionale - di cui era segretario Mario Alicata - decise di intervenire anche in questa parte della provincia, dove tuttavia l’estrema polverizzazione sociale delle categorie contadine e l’assenza di una fascia consistente di bracciantato rendevano difficile lo sviluppo di un movimento di lotta. Vi era anche l’esigenza di alleggerire la pressione che le forze di polizia esercitavano sui braccianti della Piana di Gioia Tauro. Si decise quindi di inviare alcuni compagni anche nel versante jonico della provincia ed io fui assegnato alla zona di Caulonia. Ero giovanissimo e del tutto inesperto dei problemi delle campagne; avevo una visione generica e libresca della riforma agraria, senza concreti agganci con la situazione reale della provincia; e non avevo la più pallida idea del modo in cui si potessero mobilitare e mettere in movimento categorie contadine diverse da quelle dei braccianti poveri, i piccoli coloni, i piccolissimi proprietari ecc. Ero quindi molto a disagio mentre mi accingevo a partire per la missione che mi era stata affidata. Musolino si rese conto delle mie preoccupazioni e, pur in quel momento di tensione, trovò il tempo per chiamarmi a sè e darmi le necessarie spiegazioni che invano avevo chiesto ad altri compagni. Mi disse che in quella zona la questione su cui si poteva fare leva per far partecipare le varie categorie contadine alla più generale mobilitazione per la riforma agraria era quella dell’applicazione della legge sulle bonifiche, la questione dei terreni che erano stati riconquistati alla coltura attraverso le opere di sistemazione dei bacini torrentizi e che dovevano essere affidati ai contadini. Fu una indicazione preziosa, che si rivelò corrispondente alle esigenze dei contadini della zona di Caulonia; convinti della giustezza di questa rivendicazione, essi trovarono la forza per uscire dalla prostrazione e dall’ avvilimento in cui erano caduti dopo la repressione seguita alla rivolta del 1945.

tratto dalla Prefazione di Rosario Villari a Eugenio Musolino, Quarant’anni di lotte in Calabria, Teti, 1977, pp.5-6. 


Precedenti: 

Aspro Montano (1) http://ferdinandodubla.blogspot.com/2022/06/aspro-montano-la-breve-vita-della.html

Aspro Montano (2) http://ferdinandodubla.blogspot.com/2022/06/aspro-montano-caulonia-la-repubblica.html


http://lavoropolitico.it/meridiano_sud.htm




foto di Mario Carbone, 1960

                                                            Pasquale Cavallaro

 [Caulonia (Reggio Calabria), 21 aprile 1891 – Gerace (Reggio Calabria), 17 luglio 1973]







giovedì 11 agosto 2022

MARIO LA CAVA E ROCCO SCOTELLARO: l'incontro e l'ispirazione

 

L'INCONTRO

Vidi Rocco Scotellaro la prima volta l'11 novembre 1953, anzi il 12 perchè la mezzanotte era suonata, ed egli era seduto un pò di fianco accanto alla porta d'ingresso, davanti alle tavole scintillanti dell'Albergo delle Palme a Palermo, affollate per il pranzo di gala offerto in onore dei vincitori di vari premi letterari. Rocco Scotellaro era uno di questi e in quel momento ascoltava l'orazione di plauso dell'On.Castiglia. C'era stato Guglielmo Petroni che era riuscito a strappare per lui 50.000 lire di premio per una raccolta inedita di poesie, e Rocco Scotellaro era arrivato all'improvviso per ritirarle. Ascoltava con calma l'oratore che parlava. L'unico era lui in abito grigio, mentre gli altri tutti indossavano l'abito nero. Ma Rocco Scotellaro non era imbarazzato. Mi stupì la freschezza giovanile del suo volto, quasi di adolescente , che io non sospettavo. Era biondo di colorito, con delle lentiggini sparse sulla pelle, robusto nella taglia e piuttosto basso di statura , come sono spesso i lucani, almeno da come appariva nel posto dove era seduto.



Mario La Cava su Scotellaro

scritto il 6 gennaio 1954

Rocco Scotellaro con l’accento dei lucani che hanno un giorno parlato il dialetto del loro paese, era pronto, vivace e sicuro. Quella sua prontezza e sicurezza, che derivava in lui dalla forza del carattere io l’avevo notata frequente nei lucani che avevo conosciuto. Gli parlai con molto calore di un viaggio che avevo fatto in Lucania, parlai di tante cose. Poi egli offrì tutto il suo appoggio per una migliore conoscenza di quella regione, qualora fossi ritornato, e mi chiese se gli potessi fare conoscere qualche contadino intelligente del mio paese per interrogarlo, avendo da fare un’inchiesta. (..) Gli dissi che mi sarei fermato la notte a Messina e che perciò il viaggio fino al mio paese non lo avremmo potuto fare insieme. Io già lo chiamavo “Rocco”, solo col nome. Egli mi rispose che si sarebbe fermato a Reggio, donde poi insieme avremmo proseguito il viaggio. (..) Era la sera del 16 novembre (1953, ndr). L’indomani lo attesi invano a Reggio, all’ora stabilita: e ritornai, solo a casa. (..) Lo pensai più volte nei giorni seguenti e per quel contrattempo non sapevo spiegarmi la ragione. La sua immagine si ripresentava sempre alla memoria ed era così viva e solida. “Chi sa se verrà più” mi dicevo. E invece mi arrivò una lettera dell’amico Manlio Rossi-Doria che con acerbo rimpianto mi comunicava, che Rocco era morto il 15 del mese (di dicembre, ndr) per un colpo al cuore, impreveduto e imprevedibile. Io proprio il 15, ricevendo la lettera di lui, mi rallegravo di aver avuto sue buone notizie; ed egli invece moriva!

Mario La Cava, Viaggio in Lucania, Rubettino, 2019, pp. 49-53 (ed.or. L’Arco, 1980)



L'ISPIRAZIONE

scritto il 24 gennaio 1956

E che cos’è questo popolo di contadini meridionali, misero nelle sue realizzazioni pratiche, ma non nelle aspirazioni ideali, già maturo nella sua coscienza civile, se pure impedito per varie ragioni di farsi valere, se non la simbolica uva puttanella, che lo Scotellaro aveva imparato a conoscere nella vigna di suo padre? Ugualmente piccolo il suo contributo, ma ugualmente utile nella fermentazione delle idee collettive, che la nazione e il mondo oggi preparano nel travaglio della storia. Scotellaro ha creduto in esso, dando l’apporto completo del suo pensiero e della sua azione: in questo senso esemplare per gli italiani, come giustamente osserva Carlo Levi nella sua lucida prefazione: e pertanto, nella compiutezza classica del suo carattere particolarmente suggestivo al momento della sua resa poetica. (..) L’uva puttanella supera l’apporto popolare delle immagini in una espressione originale di corale poesia, intensa e appassionata. Fermentano in essa con suggestivo vigore la dolcezza agreste della vita, la nostalgia del passato doloroso, il dramma delle lotte quotidiane, la pietà che addolcisce il cuore, e il sentimento civico che spinge all’azione. Non estetismo, dunque, ma partecipazione seria ai problemi della vita: tanto da giustificare in pieno, indipendentemente dalle esagerazioni polemiche, il consenso del pubblico per quanto rimane di Rocco Scotellaro, il rimpianto per la sua perdita dolorosa, il fascinoso vagheggiamento per la bellezza incompiuta della sua opera giovanile.

Ivi, stralci dalle pp. 58,59,60



Rocco Scotellaro (1923-1953) e Mario La Cava (1908-1988)






giovedì 4 agosto 2022

#MarioLaCava #Novecento #MeridianoSud

 

1. da I fatti di Casignana

2. L'amica - romanzo postumo del grande scrittore calabrese

 

Dalle terre incolte si sarebbe passati a quelle che col loro sudore avevano fecondato. “Vedete quanti alberi? Vedete quante pietre raccolte nelle macerie? Quante stradelle calpestate dai vostri piedi nei lunghi cammini. Quanto sole vi siete preso o freddo o pioggia nei vostri lavori? Chi vi ricompenserà? Nessuno. Sarete voi a strappare il nefasto potere; e lo gestirete nell’interesse di tutti quelli che producono e lavorano! -

- L’animo suo era combattivo per la speranza che aveva di cambiare le cose del mondo. In guerra aveva acquistato coscienza che niente poteva essere peggiore di quel sistema che aveva dato quei risultati. E qual era il sistema di vita che bisognava abolire? Quello in cui vi erano da una parte i padroni e dall’altra gli schiavi. Gli schiavi facevano la guerra per conto dei padroni e credevano che la facessero per sè. Sempre era stato così. Ma la rivoluzione russa aveva provato che le sorti potevano invertirsi. Gli schiavi erano diventati padroni. E quelli che erano padroni, che cosa erano diventati? Nulla, erano diventati i rottami di un mondo scomparso. -

 

L'IDEA

- Certi mali non potevano essere sanati che da un nuovo ordinamento del mondo. La conquista delle terre in favore di chi intendeva lavorarle, il mutuo aiuto tra i contadini, l'abbassamento del potere padronale erano i primi passi nel cammino che la società avrebbe seguito per rendersi sempre più giusta e umana: e questo, Casignana aveva incominciato a farlo, con ardimento. -

 

SENZA RISCATTO

- Tutto era stato perduto, e perduto per sempre. Le speranze erano cadute, non restava che l'odio impotente. (..) I pastori lo avevano sempre detto: e quanto avevano detto era tornato in faccia ai contadini che avevano creduto di potere a loro arbitrio mutare la legge eterna delle cose, che riservava ai padroni il comando, e ai servi l'ubbidienza. (..) Non c'era altra lotta che quella dell'uomo isolato contro il suo destino.(..)

 

LA SPERANZA

Quello che non si fosse fatto oggi, sarebbe stato compiuto domani. L'azione infruttuosa di oggi, sarebbe maturata vittoriosamente domani nella coscienza degli individui e dei popoli.

 

Mario La Cava, (1)

I fatti di Casignana, Rubbettino, 2018, pag.46,52,98,195,197,199,201 [1.ed.1974, Einaudi, (Premio Sila sezione narrativa 1975)] "uno dei libri più belli e significativi sulle lotte contadine nel Meridione", Roberto Casalini su 'Fronte popolare' del 23 febbraio 1975.

I titoli dei passi scelti sono di Subaltern studies Italia.

In foto, composizione Subaltern studies Italia ‘Novecento.Meridiano Sud’, scatti di Mario Carbone - Lucania,1960

 

(1) Mario La Cava (Bovalino, 1908-1988), narratore e saggista. Tra le sue opere ricordiamo: Caratteri (1939; n. ed. 1953), Colloqui con Antonuzza (1954), Le memorie del vecchio maresciallo (1958), Mimì Cafiero (1959; n. ed. Rubbettino-Ilisso 2016), Vita di Stefano (1962; n. ed. Rubbettino-Ilisso 2006), Una storia d’amore (1973). Per Rubbettino sono inoltre usciti, postumi, I racconti di Bovalino (2008), il carteggio con Leonardo Sciascia, Lettere dal centro del mondo, 1951-1988 (2012) e la riedizione de I fatti di Casignana (2018).

L’autobiografia in video di #MarioLaCava sul canale Subaltern Studies Italia https://youtu.be/RiIRzKeIWZg


L’AMICA” di MARIO LA CAVA, romanzo postumo del grande scrittore calabrese / #MarioLaCava

- In un paesino della Calabria degli anni Trenta, la giovane Giuditta sposa – nonostante l’opposizione del padre, emigrato in Argentina in cerca di fortuna – lo spiantato Pietrino, che spera di potersi sottrarre al lavoro grazie ai servigi resi alle autorità del regime fascista. Dopo tre figli in omaggio alla patria, la quotidianità dei due sposi viene sconvolta dall’arrivo di una coppia del Nord Italia, l’antifascista convinto Milone e la moglie Olga. Inizia allora un gioco di tentazioni e vendette, di prevaricazioni che scatena voci e malizie nella piccola comunità. La situazione precipita quando l’Italia entra in guerra: è la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Con ritmo serrato tipico della prosa lacaviana, i personaggi si delineano in tutta la loro complessità attraverso il prepotente fascino della seduzione, il folle potere dell’illusione, i drammatici conflitti sociali ed esistenziali. “L’amica” è uno spaccato della decadenza morale in epoca fascista, un intreccio di sincerità e di bieco cinismo, l’affresco di un Paese costretto a voltare pagina all’improvviso.

/Scheda del libro editato da Castelvecchi, agosto 2022, dello scrittore ’subalternist’ Mario La Cava di Bovalino/

 

seguite #SubalternStudiesItalia per seguire l’itinerario antologico di un intellettuale tra i più significativi del Mezzogiorno d’Italia e tematiche care a #MeridianoSUD e agli studi subalterni.

servizio canale video Subaltern Studies Italia - L’altro corriere TV https://youtu.be/tTLtN2ZefXM






lunedì 1 agosto 2022

ERNESTO DE MARTINO, CESARE PAVESE E LA "COLLANA VIOLA"

 

  • La scheda di Pavese
  • L'impostazione di De Martino
  • L'etnologo e il poeta

 

- Tra entusiasmo e cautela

LA CORRISPONDENZA della COLLANA VIOLA

 

LA SCHEDA di PAVESE

 In quei giorni usciva l’Antologia Einaudi 1948, un volume tra la strenna e il catalogo storico, curata personalmente da Pavese. A lui va ascritta la “scheda” di presentazione della collana viola.

“La collezione di studi religiosi etnologici e psicologici, la cosiddetta collana viola, è la più giovane del nostro catalogo e forse quella di cui più si sentiva il bisogno in Italia. Mentre in Inghilterra, in Francia, in Germania, in America da quasi un secolo la storia, la sociologia e la psicologia vanno rinnovandosi attraverso l’appassionato interesse per le società primitive e selvagge, per i loro culti, le loro istituzioni e tecniche, da noi ben poco s’era fatto per informare di questi conati di un nuovo e bizzarro umanesimo il pubblico colto. Le discussioni e i problemi sollevati dalle ricerche di Edward B. Tylor, James Frazer, Andrew Lang, Emile Durkheim, Leo Frobenius, Lucien Lévy-Bruhl, Walter Otto e tanti altri, nemmeno ci giungevano se non come pallida eco, e comunque non trovavano un ambiente adatto a quella rielaborazione e acclimatazione che costituiscono il naturale processo di ricambio di ogni cultura vitale. Un pioniere in questo campo fu, coi suoi studi sul Naturalismo e Storicismo nell’etnologia, Ernesto de Martino, nel cui nome abbiamo voluto iniziare la collezione. (…)


 

L’IMPOSTAZIONE di DE MARTINO

 La materia stessa della collezione viola costituisce un terreno assai fertile per la germinazione di motivi razzistici, esoterici, decadenti, torbidamente romantici, e nel complesso reazionari. (..) Il mio punto di vista è che le opere di questi reazionari - le più significative - debbono essere tradotte e fatte conoscere al nostro pubblico, ma a patto che siano precedute da una introduzione orientatrice che, segnalando i pericoli, operi nel nostro ambiente culturale come una sorta di vaccino definitivo. E’ il punto di vista di Bianchi Bandinelli nella sua eccellente prefazione al Frobenius. Devi aggiungere che in Italia la materia culturale che forma oggetto della collezione ha una assai modesta tradizione scientifica, e a noi tocca in certo modo la responsabilità di formarne una, il che significa per noi un accresciuto obbligo di vigilanza, di controllo e di cautela.

da de Martino a Pavese, dattiloscritto non datato (pres. 9/10 ottobre 1949)

da Cesare Pavese Ernesto De Martino, La collana viola, Lettere 1945-1950 (a cura di Pietro Angelini), Bollati Boringhieri, 1991, pag. 122-123 (nota) e pag.152. 

 

L’etnologo e il poeta

 

Povero Cesare / la mia amicizia gli fiorì dopo morto / modesta viola sulla tomba. / Così restò a me / il gusto amaro / di una pietà troppo tarda / ed il rimorso / di una disattenzione impietosa/ finché/ povero Cesare / fu nel bisogno.

Cesare Pavese e i due volti del Piemonte, Santo Stefano Belbo e Torino, la campagna ancestrale e la città aperta al mondo moderno. Per me: le Province del Regno e Napoli, anzi, nella stessa Napoli, la ragione illuministica e la jettatura, Vico e il culto dell’Avvocata, Don Benedetto e S.Gennaro. Un incontro di noi due, il piemontese e il napoletano, il poeta e l’etnologo, nella apparente casualità di una iniziativa editoriale: un incontro le cui ragioni inizialmente sfuggirono a me molto più che a lui, e che solo dopo la sua morte cominciarono a proporsi in me, dapprima come vago ritornante ricordo, e quasi come oscuro debito contratto con lui. Giunse poi il giorno - durante le ferie di agosto del 1962, in un villaggio di pescatori della “Terra del Rimorso” - giunse il giorno in cui rimeditando sul tema della “fine del mondo” e tracciando i primi contorni di un’opera storico-culturale che intendevo scrivere sull’argomento - quel ricordo vago e ritornante prese a crescere in me, e il debito a precisarsi nel modo col quale doveva essere pagato. Scrissi così questi versi, quasi “prologo in cielo” di un rapporto con lui che stava per essere affidato alla “terrena ragione” e alle sorvegliate analisi della ricerca storica. Ernesto de Martino /

dall’ Archivio Vittoria De Palma, il “prologo in cielo” in cui è inserito questo scritto è datato 1962, riprodotto in

- Cesare Pavese - Ernesto De Martino, La collana viola, Lettere 1945-1950, a cura di Pietro Angelini, Bollati Boringhieri, 1991, pp.191-192.

Cesare Pavese era morto suicida il 27 agosto 1950.