Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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domenica 31 gennaio 2021

La prassi


MARX in DAD

LA PRASSI


“La coincidenza nel variare dell'ambiente e dell'attività umana può solo essere concepita e compresa razionalmente come prassi rivoluzionaria.” Tesi su Feuerbach, (III), 1845.

è uno dei momenti della concezione dialettica marxiana, che non lo avvicina a Hegel più di quanto l’idea sia vicina alla realtà. Se l’ideale è reale, infatti, è perché la “prassi” della trasformazione è rottura rivoluzionaria di un processo di continuo cambiamento e mutazione, cioè mediazione derivante da una negazione della negazione. Engels piu’ tardi vorrà estendere dalla storia alla natura la dialettica della prassi, sottolineando il rapporto circolare, dunque olistico, fra natura-storia-cultura. Gramsci chiamera’ il marxismo della dialettica rivoluzionaria, “filosofia della praxis”. L’”altro sguardo” di de Martino, affatto estraneo alla prassi liberatrice, catarsi e riscatto dai poteri magici scavati nella psiche collettiva dal simbolismo apotropaico della relazione dominanti-subalterni e dall’io che rischia di perdersi nel terrore della propria finitudine.

Le Tesi su Feuerbach di Marx (1845) segnano così una rottura epocale nella storia, non epistemologica (Althusser): la filosofia si è limitata per ora a interpretare il mondo, ora si tratta di trasformarlo. ~ fe.d.







giovedì 28 gennaio 2021

LA PEDAGOGIA DELLA PRAXIS e la dialettica educatore/educando

 

Ogni discorso pedagogico che si ispiri al marxismo parte da un assunto: la dialettica educatore/educando e la trasformabilità dell’essere umano.

Nelle Tesi su Feuerbach, infatti, Marx appunta che «la dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso deve essere educato. Essa è costretta quindi a separare la società in due parti, delle quali l’una è sollevata al di sopra di essa» (III), marzo 1945. 
Ogni prassi è nella storia, in quanto tutto ciò che è nella natura è nella storia. L’astrattismo metafisico, rendendo assoluta e permanente la natura umana, rende anche impossibile l’educabilità nella storia, ad opera degli stessi esseri umani. 
Dunque, l’educatore è soggetto/oggetto, “le circostanze” ‘plasmano’ gli umani così come gli umani cercano di ‘plasmare‘ l’ambiente attraverso il lavoro e trasmettere conoscenze attraverso l’educazione. L’educando così diventa a sua volta da oggetto, soggetto, ma solo nel suo rapporto dialettico con la storia. E' la pedagogia della praxis.   ~ fe.d.

giovedì 28 gennaio p.v. la diretta del Dipartimento Scuola e Università del PCI tratterà di “Pedagogia rivoluzionaria: introduzione a Makarenko”, la straordinaria esperienza del pedagogista sovietico che cambiò per sempre la metodologia dell’educazione, funzionale ad una società impegnata nella transizione rivoluzionaria. L’attualità del suo insegnamento.
Con Luca Cangemi e Ferdinando Dubla, sulla pagina FB del PCI, ore 20.30 





Cristina Carpinelli L’attualità dell’insegnamento di Anton Semenovič Makarenko
Gramsci Oggi, n° 4-5, 2010

“Bisogna, quindi, indirizzare la gioventù verso il bene comune che solo può dare significato alla vita, e che è raggiungibile con l’eliminazione dello sfruttamento, dell’egoismo e dell’avidità, con la pratica costante dentro il collettivo di valori e principi come il coraggio, l’altruismo, l’onestà, la disciplina e la libertà. Questi due ultimi termini sono, per il pedagogo sovietico, “opposti dialetticamente uniti, di cui l’uno non può sussistere senza l’altro”. La libertà sostanziale e non formale non è assenza di legami, è una categoria sociale, una parte del vantaggio comune, la risultante di un comportamento sociale. Mentre la disciplina esercitata come strumento di coercizione non può sfociare in autodisciplina cosciente. Il rischio è di ricadere nell’autoritarismo feudale patriarcale, di cui il socialismo auspica la definitiva cancellazione. Bisogna, invece, “rispettare la personalità del fanciullo e nel contempo non fargli mancare la necessaria guida”. Certo, Makarenko si deve misurare con la vena libertaria profondamente radicata in particolare nel mondo contadino russo e nell’idealizzazione del suo valore intrinsecamente comunitario. Durante gli anni della sua prima formazione da pedagogista, egli s’imbatterà, innanzi tutto, nell’esperienza della scuola di Jasnaja Poljana fondata da Lev Tolstoj. Indirizzata prevalentemente ai figli dei contadini, tale scuola s’ispira all’Émile ou de l’éducation di Rousseau, vale a dire all’utopia di una formazione di matrice libertaria, in cui l’insegnamento è svolto senza modalità autoritarie e repressive. Tra il 1904 e il 1908 Makarenko parteciperà sia al dibattito della neonata associazione degli insegnanti che s’ispirano al socialismo sia a quello di coloro che ruotano attorno alla rivista Libera educazione, d’impostazione tolstojana. E ciò che ogni volta lo colpisce come futuro educatore è il tema del conflitto tra tenuta della regola e rispetto della libertà di ogni ragazzo.”



(A.S.Makarenko, 1888/1939)



lunedì 25 gennaio 2021

La poesia di Rocco Scotellaro (di Alessandra Reccia)


Un eccellente scritto (2011) di Alessandra Reccia in cui emerge la figura del poeta della "civiltà contadina" come intellettuale organico alla sua classe, le connotazioni storico-antropologiche che sempre accompagnano il suo impegno emancipativo e di liberazione, e dunque per questo rivoluzionario e al contempo radicato nella cultura di cui la sua poesia è espressione, e la storia delle interpretazioni critiche (Vittorini, Pavese, Muscetta, Alicata, Panzieri, Levi, Fortini, Pasolini) che seguirono alla sua prematura morte (1953) e alla progressiva diffusione delle sue opere. - fe.d.

"Con questa certezza caparbia, più che ingenua, questo giovane «gracile com’era, e con quel suo volto roseo e lentigginoso» avrebbe sfidato il mondo. E ogni giorno lo sfidava misurandosi con la miseria, l’ignoranza, l’arroganza, che non erano per lui forze oscure ma semplicemente un risultato storico. Solo questa chiarezza gli consentiva di recuperare gli elementi di forza, i vantaggi di quel mondo contadino che doveva essere superato e dal quale però non voleva prescindere."

Da L’ospite ingrato, rivista on line del Centro studi Franco Fortini, 8 marzo 2011

Rocco Scotellaro e la cultura dell’uva puttanella è un importante saggio di Carlo Muscetta, scritto per «Società» nel 1954, in occasione della pubblicazione per Mondadori delle poesie di È fatto giorno. Da pochi mesi il saggio è stato ripubblicato in un’elegante edizione da Il Girasole di Catania insieme al carteggio inedito tra il critico, allora occupato alla sede romana dell’Einaudi, e il giovane poeta.1

La corrispondenza, datata tra il maggio del 1946 e il febbraio del 1952, ha per argomento la vicenda della pubblicazione della raccolta poetica, a quel tempo in discussione presso la casa editrice torinese, dove trovò l’opposizione soprattutto di Vittorini, che riteneva spesso banali i versi del poeta lucano. In generale la redazione torinese temeva di sopravvalutare questo autore, la cui attenzione consideravano momentanea perché legata alla contingenza politica. Così all’inizio anche Pavese, generalmente in disaccordo con Vittorini, diede il suo parere negativo. In generale restavano in redazione i dubbi su un’opera frammentaria e di sapore populista. Rispetto a questo giudizio e soprattutto per È fatto giorno Muscetta, i cui rapporti con Torino non erano sempre sereni, poté poco.2 Le missive ora pubblicate certo testimoniano dell’impegno profuso per il giovane amico, verso il quale Muscetta nutriva la più profonda stima. Tuttavia quei versi non lo convincevano del tutto.

Era stato Carlo Levi a consacrare Scotellaro poeta contadino. La definizione non era piaciuta a molti degli intellettuali più tenacemente legati al partito Comunista. Le motivazioni politiche addotte erano molteplici e tuttavia possono essere sintetizzate nell’accusa di un meridionalismo sentimentalistico e riformista, che aveva le sue radici nella sinistra liberale e nel Partito d’Azione. Le amicizie di Scotellaro con Levi e, soprattutto, con Rossi Doria contribuirono non poco alla formulazione di questo giudizio che poi fu alla base della steriotipizzazione di Scotellaro. Il mito del sindaco poeta, criticato da taluni ad esaltato da altri, ha finito con il tempo per sovrastare la sua poesia, fino a ridurla a una genuina ma sorpassata esperienza letteraria, ad un’idea ingenua del rapporto tra poesia e politica, ad un’esperienza limitata ad un periodo storico che si descrive come caratterizzato da illusioni e nefaste ideologie.

Proprio quella stereotipizzazione induce oggi Maurizio Cucchi, che introduce l’edizione completa delle poesie di Scotellaro pubblicate da Mondadori nel 2004 a cura di Franco Vitelli, a liberare il poeta dalla gabbia nella quale il suo personaggio lo aveva intrappolato, ovvero separandolo dall’intellettuale e dal politico.

Cucchi, che parla giustamente di un poeta in «strettissimo rapporto con la sua terra e la realtà storica del suo tempo»;3 è tra i pochissimi in Italia interessato ad una possibile eredità poetica del lucano, descritto come il più significativo neorealista, ma già ultimo della sua generazione e capace di prospettare soluzioni musicali e linguistiche assolutamente originali. A questo giudizio sembra però doveroso aggiungere che Scotellaro fece della contingenza sociale nella quale visse non soltanto un pretesto poetico, come a volte sembra trasparire dal discorso di Cucchi, ma l’istanza stessa della sua poesia e del modo di essere poeta.
Si ha l’impressione che per assurdo l’unico modo di restituire Scotellaro alla contemporaneità sia quello di recuperarlo alla storia. Non va dimenticato che egli considerò tutta la sua attività poetica, letteraria e sociologica in rapporto a quella politica. In questo senso fu un intellettuale di sinistra, di quelli che comprendendo di vivere in un periodo di forti mutamenti economici e politici mettevano la loro cultura al servizio della trasformazione sociale.

Il saggio di Muscetta, pur venendo da così lontano, ci invita a riflettere sul senso e il valore di una poesia che pretendeva d’essere qualcosa di più di un lamento dell’anima, di un inerme strumento di consolazione e si candidava per essere riconosciuta come poesia rivoluzionaria. Non si tratta di opporre le ragioni, per altro non sempre condivise, di un saggio degli anni Cinquanta con quelle attuali, che pure nascono dalla necessità di recuperare un poeta che rischia di essere totalmente dimenticato. Ma semplicemente di mettere in tensione quelle con queste.

Nell’immediato dopoguerra la rivoluzione non era solo un sogno o una speranza di pochi illusi, ma una reale prospettiva per l’Italia. Nelle città industriali del nord come nelle campagne meridionali, chi credeva al progetto politico contribuiva come poteva o sapeva alla sua realizzazione. Anche la poesia doveva fare la sua parte.

Carlo Levi esaltò senza mezzi termini Scotellaro «poeta della libertà contadina»;4 parlando addirittura di Sempre nuova è l’alba come di una vera e propria «marsigliese». Tuttavia la poesia di denuncia, la protesta contadina consegnata in versi non sarebbe mai diventata per Muscetta una poesia rivoluzionaria. Pur riconoscendo Scotellaro poeta di talento e d’ingegno, poiché «ambiva alle forme più alte della poesia contemporanea per un contenuto che gli sembrava tragicamente degno», riteneva che un’incompetenza o un’incertezza ideologica gli impedissero di compiere il salto. I protagonisti dei suoi versi, dal padre agli emigranti, dai briganti ai contadini in lotta, per Muscetta erano solo parzialmente recuperati alla storia, al compito storico che la contemporaneità gli affidava, e restavano in buona parte nel mito, contribuendo ad alimentare un certo sentimentalismo, su cui si basava un certo meridionalismo paternalistico e compassionevole. Alla fine «le immagini leviane del brigantaggio che vengono a tentare la fantasia anarchica del mondo contadino sono respinte e insieme accarezzate».

Insomma, nonostante la stima e la forte amicizia che, come attesta il carteggio, lo legavano a Scotellaro, Muscetta è tutto proteso nel suo saggio a delineare «il limite del fiato poetico di Rocco».5

L’articolo di Muscetta e quello di Alicata,6 uscito solo un mese prima su «Cronache meridionali», diedero l’avvio ad un aspro dibattito sulla figura di Scotellaro, che si incentrò soprattutto sulla funzione della sua opera nell’ambito della cultura della sinistra italiana, in particolar modo meridionale. In realtà l’input era stato dato da un intervento di Salinari che individuò come uno dei Tre errori a Viareggio, la consegna del premio a È fatto giorno.7

L’argomento politico che sosteneva la discussione era quello del rapporto tra le lotte contadine e quelle operaie, a quel tempo attive nelle città industrializzate del nord. Le polemiche che in quei mesi accompagnarono la pubblicazione delle opere di Scotellaro, tutte postume, furono determinanti per l’organizzazione del convegno di Matera del febbraio del 1955, voluto da Raniero Panzieri, allora responsabile della cultura del Psi, da poco arrivato dalla Sicilia, dove aveva partecipato alle lotte contadine.

Il convegno mise in evidenza il carattere politico della discussione su questo autore. Panzieri, infatti, propose alla sinistra italiana, lì convenuta su suo invito, di riattivare una riflessione sul meridionalismo e sul ruolo delle forze sociali contadine rispetto a quelle operaie. Non si trattava di mettere in discussione «la funzione decisiva» che nella lotta doveva avere la classe operaia, ma riprendere il problema dell’unità politica delle masse in Italia, posto politicamente dall’antifascismo e dalla Liberazione. La cosiddetta questione meridionale, individuata da Gramsci come una particolarità tutta italiana dovuta allo sviluppo storico-politico della giovane nazione, si riproponeva nei movimenti di occupazione delle terre, mentre già le forze reazionarie democristiane ne organizzavano una risoluzione. Del problema pratico e teorico che si poneva alla sinistra in quel momento storico Panzieri tentò di fare di Scotellaro un personaggio chiave.8 Questa proposta però non fu accolta e del convegno non furono mai prodotti gli atti. Ne resta comunque traccia in un numero di «Mondo Operaio», la cui redazione chiese a molti dei partecipanti resoconti ed impressioni sulla giornata materana.

Ciò che colpì l’attenzione degli intellettuali intervenuti fu senza dubbio la presenza cospicua e attenta dei contadini, venuti in città quel 6 febbraio del 1955 a ricordare il compagno da poco scomparso. A loro il giovane sindaco aveva dedicato tutta la sua attività politica e sindacale, fin dal 1943.

Tra gli interventi più toccanti e applauditi di quella giornata ci fu sicuramente quello di Fortini le cui parole rivolte ai contadini in sala vennero più volte ripetute dagli altri partecipanti.

La tesi di Fortini9 non era nella sostanza diversa da quella di Muscetta. L’accordo di fondo era certamente su una questione estetica e politica. Per Fortini un eccesso di lirismo, un accentuato sentimento paternalistico vietava una matura evoluzione, condizione per ogni passaggio rivoluzionario, dal piano soggettivistico dell’angoscia e della tenerezza a quello politico dell’istanza collettiva, del «noi». Nel resoconto per «Mondo Operaio», ricordando la vergogna dell’intellettuale di fronte ai contadini intervenuti, Fortini sospetta che la poesia, in particolare quella di Scotellaro, alleviando con le sue armonie i dolori di quegli uomini, finisse di fatto per attutire la rabbia e la lotta, trasformandosi da strumento di emancipazione in un cappio. «L’attività politica è l’unica forma reale di cultura dei contadini di laggiù».

In sintesi, la poesia di Scotellaro gli era sembrata un cedimento al dolore del mondo e Scotellaro restava, come già per Muscetta, un poeta dell’idillio e questo nonostante lo sforzo di fare dei suoi versi un momento decisivo della coscienza contadina.

Entrambi i critici individuano una discrepanza tra l’aspetto lirico-soggettivo di questa poesia e la sua pretesa sociale. Anche la lingua, la cui originalità, secondo Muscetta, è legata ai contesti tematici proposti e che si spinge fino «alle parole che più sanno di dialetto, alle clausole stornellanti con piglio d’improvvisata popolare», si fa incerta perché affiancata da un linguaggio di maniera, ostentato «per ambizione di uno stile più colto e prezioso». La consapevolezza che «quella vita intorno a lui esigeva parole nuove»10 non arrivò, per un’incertezza ideologica e un’immaturità legata anche alla giovane età del poeta, ai risultati che pure prometteva. Questo nonostante Scotellaro avesse fatto un passaggio in tale direzione proprio grazie al suo ingresso attivo nella vita politica del Mezzogiorno.

A ciò giunse, anche se per vie diverse, Fortini il quale riteneva che un poeta, quando prende coscienza del rapporto tra le contraddizioni sue e quelle di un’intera epoca, ha davanti a sé due strade. La prima è quella di sostituire immediatamente l’«io» lirico con il «noi» inserendo nei testi nuovi contenuti a carattere sociale. Si tratta di un percorso senza futuro, che induce il poeta, prima o poi, a tornare indietro, abbandonando la pretesa di immedesimazione collettiva e investendo nuovamente sull’ io, attribuendogli questa volta la responsabilità di significare «paradossalmente e negativamente tutto un immenso cerchio di non-io e di altro». La situazione lirica si presenta così come un luogo risolutivo delle tensioni dell’io nel mondo, ma allo stesso tempo luogo ideale in contrapposizione al reale. In questo senso l’attività poetica resta scissa da quella politica, che torna ad essere il luogo specialistico deputato alla prassi. La discrasia tra il desiderio di conciliazione e la lentezza dei mutamenti possibili nella realtà è fonte di angoscia. Ma comunque per Fortini, al contrario invece che per Muscetta, «può farsi poesia dello squilibrio tragico fra la persuasione e la speranza da una parte e la paura delle cose stesse che si sperano, la coscienza di essere inferiori alla storia e alle nostre medesime promesse». Inseriti in questo filone Blok e Pasternak, Fortini individua in esso la strada tentata da Scotellaro.

L’altra possibilità invece è quella dell’oggettivazione della contraddizione che liricamente si percepisce sul piano soggettivo. Questo allontanamento da sé del dolore del mondo ha trovato per Fortini la sua forma ideale nel romanzo o nel dramma, ma anche nell’inno, nell’ode o nell’epigramma, in quelle situazioni poetiche, cioè, in cui le contraddizioni tornano alla forma lirica liberate «dal primo pianto esistenziale». Era questa la dimensione con la quale Scotellaro non era riuscito a misurarsi.11

Mettendo in tensione la proposta di lettura di Cucchi con quelle di Muscetta e Fortini, sembra utile tornare a riflettere sul rapporto che in questi versi si instaura tra il momento propriamente lirico e quello invece politico nella poesia di Scotellaro.

In questi versi, ci sembra, la dimensione idillica, che pure è predominante, non è mai un rifugio o scopo del canto. D’altra parte è indubbio che essa rimandi ad un desiderio di armonia. Questo, però, è piuttosto dettato da una stanchezza, che il poeta vorrebbe scrollarsi di dosso magicamente, come invocando gli spiriti benigni. «Non gridatemi più dentro/ non soffiatemi in cuore/ i vostri fiati caldi, contadini // Beviamoci insieme una tazza colma di vino» (Sempre nuova è l’alba).

Il richiamo all’immediatezza, alla convivialità, frequente nei suoi versi,12 è un desiderio momentaneo. Scotellaro, che come giustamente sottolinea Cucchi è «estraneo ad ogni forma di vana lamentazione», non è nemmeno al contrario poeta dell’ubriacatura, del carpe diem, così come si compiacevano di pensare tanto Fortini che Muscetta, seppure con argomenti molto diversi tra loro. Semmai, l’umano desiderio di leggerezza, il saper approfittare dell’attimo fuggevole sono da lui indicate come quelle cose che tengono legati gli uomini alle proprie catene. I fuochi il giorno del santo patrono, il vino la sera di ritorno dai campi, il canto che automatizza i gesti e allevia la fatica fisica è ciò che rende sopportabile, e dunque perpetua, la propria condizione di sfruttati.

Hanno pittato la luna
sui nostri muri scalcinati!
I padroni hanno dato da mangiare
quel giorno si era tutti fratelli,
come nelle feste dei santi
abbiamo avuto il fuoco e la banda

(Pozzanghera il 18 aprile)

Su questo sfondo, si innalzano le teste dei briganti lasciate ai pali. Queste chiamano ad una nuova responsabilità che non è però la macchia, la rivolta fiera e anarchica dei mitici fuorilegge meridionali, ma è rischio, speranza, fratellanza.

I versi di Scotellaro erano fortemente legati alla loro realtà. Non avevano da parlare del movimento contadino quale poteva essere in teoria, ma dei limiti e delle possibilità che in pratica esprimeva. Alla rivolta del brigante, come alla tessera della Dc o alla scelta dell’emigrazione, Scotellaro aveva da opporre niente meno che il partito, l’organizzazione, il socialismo. Per questo nelle sue poesie non ci sono eroi, ma solo uomini che hanno paura di morire e nondimeno muoiono (Due eroi) che sanno che la rivoluzione non ammette pace, e tuttavia la cercano (Mio padreDi noi fissi). È la paura e l’attrazione per la perdita del proprio mondo (L’amica di cittàSalmo alla casa e all’emigranteDichiarazione d’amore ad una stranieraLo scoglio di positano e altre)13 perdita che resta necessaria in vista di quell’alba, che Scotellaro era sicuro di scorgere in tutto ciò che lo circondava. Così un giorno, nel carcere dove era stato ingiustamente rinchiuso, parlando animatamente delle sue posizioni politiche Scotellaro si convinse di aver avuto ragione contro il brigante Giappone che esponeva le sue teorie libertarie: «Riuscì a batterlo nella discussione generale perché il mondo nuovo che si sentiva nelle parole che mi veniva da dire era nel cuore di tutti, anche nel suo».14

Con questa certezza caparbia, più che ingenua, questo giovane «gracile com’era, e con quel suo volto roseo e lentigginoso» avrebbe sfidato il mondo. E ogni giorno lo sfidava misurandosi con la miseria, l’ignoranza, l’arroganza, che non erano per lui forze oscure ma semplicemente un risultato storico. Solo questa chiarezza gli consentiva di recuperare gli elementi di forza, i vantaggi di quel mondo contadino che doveva essere superato e dal quale però non voleva prescindere.

Ne prescinderà invece la modernizzazione operata dal capitale, mentre la Dc penserà a reprimere le forze sociali che dal dopoguerra si erano sprigionate in tutto il Sud Italia, rigettando nella rassegnazione un’intera generazione di contadini in lotta.

Scotellaro non fece a tempo a vedere il nuovo e moderno Sud, eppure già ne indovinava gli esiti sociali. In questo fu assolutamente inascoltato dalla sinistra. Non per nulla negli anni Settanta, rispetto a quel periodo, arriverà dalla Basilicata l’accusa di un «vuoto di impegno interpretativo che da allora fino ai tempi più recenti, la sinistra italiana ha la responsabilità di aver mantenuto sul Mezzogiorno».15

Scotellaro lasciò il suo paese nel 1950 per la città, prima Roma e poi Napoli, dopo quaranta giorni di reclusione, mosso dall’indigenza e dalla consapevolezza che fare il sindaco non poteva bastare più. Chiunque legga oggi la sua breve ed incompiuta autobiografia non può che meravigliarsi di come questo «Io» si vada costruendo sempre in rapporto e di riflesso agli altri. Persino il carcere non è raccontato come un evento traumatico della sua esistenza ma come un’esperienza privilegiata per la conoscenza dei rapporti sociali.16

Questo sforzo costante di pensare se stessi e il proprio disagio in relazione al mondo, e non in isolata opposizione ad esso, è una caratteristica della poesia di Scotellaro. Che i suoi versi avessero avuto un risvolto pratico lo dimostrarono infine i contadini quel 6 febbraio a Matera. Scotellaro non si era mai preoccupato «di parlare loro più lentamente», come invece si premurò di fare al convegno Pirelli, e nemmeno si era posto il problema di dover separare gli argomenti per i contadini da quelli per gli intellettuali, come sospettava Fortini che diceva, forse a se stesso, che «ai contadini si può parlare di tutto». Una prova ne viene ancora dal periodo del carcere quando, discutendo con gli altri detenuti, opponeva la sua verità alla loro. Non si sarebbe certo meravigliato, come invece tutti i suoi amici intellettuali, della serietà e del contegno dei contadini, della loro capacità di comprendere i versi. Raccontò uno di loro intervenuto al dibattito: «Ci leggeva le sue poesie, le componeva seduto accanto a noi sull’aia dove si trebbiava, accanto al fosso dove si zappava, seduto alla nostra mensa, e ci chiedeva: vi piace? A noi piacevano perché Rocco scriveva con parole nostre».

Non si pensi ad un ammiccamento poetico, la lingua di Scotellaro, come già poté notare Pasolini,17 non è mai banale o colloquiale, certamente essenziale piuttosto che mimetica. Valeva forse la pena che un Muscetta o un Fortini si domandassero cosa intendessero i contadini con «parole nostre». Politicamente, la loro partecipata presenza poneva in termini nuovi il problema individuato da Gramsci dell’avversità nel meridione tra gli intellettuali e classi lavoratrici. Vale indubbiamente la pena oggi accogliere l’invito di Cucchi a restituire una fisionomia autonoma a questo poeta «appassionato e fedele» esaltando la ruvidezza di certi suoi versi asciutti e spigolosi, ma anche, aggiungiamo, di riproporre con questi versi la possibilità di una poesia che pretenda per sé una funzione, un ruolo e un posto attivo nella storia degli uomini. Non allontanare dunque, ma semmai restituire il poeta «alla complessità della sua azione e del suo lavoro culturale».18

Note

1 C. Muscetta, Rocco Scotellaro e la cultura dell’uva puttanella. Con carteggio inedito, Catania, Il Girasole, 2010. Da qui citeremo il saggio di Muscetta, da ora Rocco Scotellaro.

2 All’Einaudi sarebbe saltata, nel 1954, anche la pubblicazione de L’uva puttanella. In questa occasione fu Muscetta stesso ad esprimere le sue perplessità, più che sull’opera sulla curatela di Levi. Cfr. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 670 e 684-85.

3 M. Cucchi (a cura di), Poesia. Antologia, Milano, Mondadori, p. 238. Ringrazio Claudia Crocco per avermi segnalato le presenze di Scotellaro nell’antologie poetiche degli ultimi anni. Cfr. anche G. Majorino, Poesia e realtà 1945-2000, Milano, Marco Tropea editore, 2000.

4 Dalla lapide messa per volontà di Levi sul muro della casa del poeta a Tricarico, che recita: «A Rocco Scotellaro / Sindaco socialista di Tricarico / Poeta / Della libertà contadina».

5 Le citazioni di Muscetta sono tratte da Rocco Scotellaro, cit., rispettivamente alle pp. 19, 21 e 22.

6 In realtà nel settembre del 1954 uscirono due interventi di Alicata su Scotellaro. Il primo in «Il Contemporaneo», 4 settembre 1954, dal titolo Contadini del sud e l’altro, Il meridionalismo non si può fermare ad Eboli, in «Cronache Meridionali», settembre, 1954. Quest’ultimo pubblicato successivamente in L. Mancino (a cura di), Omaggio a Scotellaro, Manduria, Lacaita, 1974, pp. 134-163.

7 C. Salinari, Tre errori a Viareggio, in «Il Contemporaneo», 28 agosto 1954. Poi in Omaggio a Scotellaro, cit., pp. 697-98.

8 Lo scopo e il giudizio di Panzieri sulla giornata sono dichiarati in un editoriale di «Mondo Operaio» (Il convegno di Matera su Rocco Scotellaro, 19 febbraio 1955) firmato a nome della Redazione con il titolo Il meridionalismo di Scotellaro e poi pubblicato nella raccolta a cura di S. Merli, Raniero Panzieri, L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944-1956, con il titolo Cultura e contadini del sud, pp. 156-161. Un affettuoso ringraziamento a Luca Baranelli per avermi introdotto alla lettura di Panzieri.

9 L’intervento di Fortini fu accompagnato da una lettura di poesie di Scotellaro. Nonostante gli incoraggiamenti, Fortini non volle mai dare alle stampe il suo contributo che fu pubblicato con la scelta antologica senza il suo consenso negli anni Settanta dalla Basilicata Editrice. Ne risultò un intelligente libretto che ancora oggi costituisce un’interessante antologia di Scotellaro. Di rilievo è l’Introduzione al libro a cura della Redazione di «Basilicata». F. Fortini, La poesia di Scotellaro, Roma-Matera, Basilicata editrice, 1974.

10 Le citazioni di Muscetta sono in Rocco Scotellaro, cit. alle pp. 19 e 21.

11 Cfr. F. Fortini, La poesia di Scotellaro, cit., pp. 53-59.

12 Vedi ad esempio (dalla raccolta di Vitelli) Morra, p. 194, Verde giovinezza, p. 90, Sempre nuova è l’alba, p. 67, La pioggia, p. 66, Cena, p. 28.

13 Rispetto a questo motivo sembra centrale in tutta la poesia di Scotellaro il tema della straniera. Fortini che lo considerava un prodotto originale del lucano tuttavia lo leggeva come un invito del poeta «all’immobilità» del suo mondo. Eppure sembra che la straniera rappresenti l’attrazione verso l’esterno, il desiderio di fuga da un lato e il richiamo alla responsabilità della terra, dall’altro. In questo senso il tema della straniera fa coppia con quello dell’emigrante, che ne rappresenta il termine antitetico.

14 R. Scotellaro, L’uva puttanella e Contadini del Sud, Laterza, Bari, 1964, p. 73.

15 Introduzione a cura della Redazione «Basilicata», in F. Fortini, La poesia di Scotellaro, cit., p. VII.

16 «Essi non ci hanno soltanto messi in galera per scacciarci dalle strade, ma così ottengono che ci avvezziamo all’umile ordine interno e che ricreano tra noi la gerarchia dei servizi, la necessità di una legge». R. Scotellaro, L’uva puttanella, cit., p. 80.

17 P.P. Pasolini,Passione e ideologia (1948-1958), Torino, Einaudi, 1985, p. 300.

18 Questa e le altre citazioni di Cucchi, quando non diversamente indicato, da M. Cucchi, Introduzione, in R. Scotellaro, Tutte le poesie, cit., pp. V-IX.

Rocco Scotellaro (1923/1953)


giovedì 21 gennaio 2021

PER IL GRAMSCIANO 'INTELLETTUALE COLLETTIVO'

 

estratto

per Cumpanis 100° del PCI – 2021  

https://www.academia.edu/46928267/Per_il_gramsciano_intellettuale_collettivo_100_del_PCI

Il partito dei comunisti: formazione dei quadri, linea di massa e radicamento popolare    

(ferdinando dubla)

  • Il tema centrale della formazione dei quadri: scuola di partito e/o partito come scuola
  • Nel PCI uscito dalla clandestinità, la politica di massa del 'partito nuovo' e la linea della 'democrazia progressiva' , secondo Pietro Secchia, doveva riuscire a coniugare la quantità con la qualità.  Tant'è che lo stesso Togliatti dovette sottolineare poi, nella Conferenza d'organizzazione di Firenze del 1947, l'aspetto rilevante che aveva la politica di formazione dei quadri  nel momento stesso di un'accentuata necessità di consolidare una struttura di massa ( allora il PCI, con Secchia a capo del settore organizzazione, raggiunse e negli anni seguenti addirittura aumentò, la quota di due milioni di iscritti). Insomma, proprio perché il radicamento popolare si faceva più forte, bisognava curare l'aspetto qualitativo della militanza e potenziare la coscienza di classe. 

    Un partito comunista di massa, secondo Secchia, non può non essere un partito di quadri e di massa. Per diventare un partito di quadri e di massa, bisogna costruire un partito di quadri con una linea di massa, che non rinunci per l’arte politica ad un’intenzionalità pedagogica e dunque miri coscientemente a costruire un’egemonia nella società,  ciò che permette il radicamento del partito di classe nel popolo. Questa filosofia dell’organizzazione è essa stessa una concezione politica, che si risolve poi in una determinata pratica militante.

    -cfr. P. Secchia, I quadri e le masse (1947/49), Laboratorio Politico, 1996, ora disponibile in Academia.edu - https://independent.academia.edu/FerdinandoDubla

    C’è chi imputa a questa analisi l’insufficiente ‘modernizzazione’ del PCI, un circolo vizioso tra richiesta centralistica di iniziativa e di obbedienza insieme: insomma, una ‘doppiezza nella doppiezza’. E invece la sfida per un Partito comunista è proprio quella di non venir meno alla coesione interna sui fini e tratti identitari, pur nell’incessante capacità creativa dei suoi quadri di saper rispondere adeguatamente alle fasi storico-politiche. E per questa capacità creativa, è necessario che il partito sia intellettuale collettivo, nella ricerca aperta e incessante dei suoi militanti e intellettuali 'organici' alla classe, nella discussione continua, ma infine nell'azione politica deliberata collettivamente.

    - Il PCI, gradualmente, negli anni 1954/56 e successivi, prenderà un’altra strada. Proprio quello che è stato indicato con il processo di modernizzazione, pur in maniera non lineare e in modo contraddittorio (vedi la vicenda dello Statuto dell’VIII Congresso) del Partito Comunista, ne mina le fondamenta e subordina l’intera struttura organizzativa a una linea politica finalizzata integralmente al gioco imposto dal quadro politico complessivo. In breve, se l’opera e la riflessione politica di Secchia erano mirate a dare gambe a una strategia supportata da valori, idee e princìpi del marxismo, in particolare attraverso i contributi di Lenin e Gramsci (di cui in quegli stessi anni si pubblicavano dall'editore Einaudi i Quaderni, curati dal dirigente comunista Felice Platone, - unitamente alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai famigliari - in sei volumi, ordinati per argomenti omogenei)  con un’ottica di lavoro di massa capillare e pianificato di cui la tattica era un aspetto rilevantissimo ma coerente con quegli assunti, il PCI di Togliatti dopo il Congresso del 1951 tenderà a rendere centrale il momento tattico come preminente rispetto alle finalità strategiche e detterà modalità e tempi dell’aggiornamento e revisione dei princìpi, caratteristica progressiva nella vicenda del PCI post-togliattiano (pur con fasi diverse e con modalità affatto univoche e lineari) in particolare la perdita di una cosciente intenzionalità pedagogica per costruire l’egemonia delle classi subalterne e un’aderenza a logiche politiche deprivate di finalità strategiche. Un mutamento però che non avverrà nell’arco di un tempo breve: e le maggiori resistenze gli si porranno proprio dall’impianto e dalla struttura organizzativa, la cui “decostruzione” avrà bisogno di tempi differiti.

     

    • La dialettica dell'intenzionalità pedagogica e il 'general intellect'
    Abbiamo bisogno di un partito comunista giovane, in quantità e qualità:  giovane e moderno in tutti i sensi.  Ma proprio per questo, ancora più ancorato alla memoria storica, come veicolo continuo e prezioso di bilancio delle esperienze del movimento operaio, nazionale e internazionale, e dei comunisti in particolare.

    - Il partito come strumento di emancipazione costante della rappresentatività di classe, un partito che si modifica interpretando correttamente la realtà e le sue incessanti trasformazioni, ma che non perde mai la bussola dei suoi principi fondanti (in un corretto rapporto tattica/strategia),  perché, oltre la sua ragion d'essere, la sua identità, così perderebbe sia il ruolo di scuola formativa, nel senso pedagogico gramsciano dell’autoistruzione dell’’intellettuale collettivo’ [nel partito si organizzano le lotte, ci si confronta, si impara insieme e si cresce insieme - così oggi va interpretata e vissuta anche la categoria leninista di avanguardia cosciente] sia il fascino dei suoi ideali di superamento dello 'stato delle cose esistente', e cioè della barbarie capitalista. 
    Se noi dunque non curiamo l'aspetto della formazione degli stessi militanti, se non miriamo al rafforzamento della memoria storica che ci ha generato e può farci sviluppare nel futuro prossimo, se noi non rendiamo lo strumento-partito anche una delle agenzie di formazione (delle giovani generazioni, soprattutto) che, in modo aggregante e nella forma del laboratorio di ricerca continua ('intellettuale collettivo' è concetto che rimanda alla potenza dell'ideologia come materialità)  sia fonte preziosa ed inesauribile di sviluppo dello spirito critico nei confronti di tutte le agenzie di formazione falsamente pluralistiche della società in cui dominano gli oligopoli mass-mediologici pubblici e privati,  e conseguentemente  sviluppi   anticorpi che non ci isolino dalla società, anzi,  entrino in sintonia con le condizioni materiali di vita quotidiana di larghe, larghissime masse popolari,  ebbene, noi rischiamo di perdere le sfide presenti e future.
    Oltre la coesione, il partito comunista deve avere l’autodisciplina come fine dell’unità della classe.
    E nella migliore tradizione comunista, i quadri principalmente si autoformano nelle vertenzialità diffuse, nelle battaglie concrete per difendere e sostenere i bisogni delle masse, oltre che, naturalmente, con lo studio sistematico di  un bagaglio storico/culturale che sia in grado di trasmettere la memoria, la faccia vivere e palpitare nel presente, la renda attuale permettendole di respirare l'aria della contemporaneità: abbattere i deteriori sensi comuni che la borghesia, come classe dominante, rende dominanti nel corpo sociale, elaborare analisi destrutturanti del senso comune e metterle in relazione con l'esperienza concreta tra la comunità dei comunisti, comunità 'fraterna' per antonomasia, dove il comunismo è anche uno stile di vita.
    L’intenzionalità pedagogica è rivolta dunque all’interno del partito stesso, ma il partito esso stesso diventa strumento di emancipazione all’esterno, per costruire gramscianamente l’egemonia, innanzitutto sul piano dello smascheramento analitico delle false apparenze e illusioni dell’ideologia e della prassi concreta con cui si sostanzia il dominio economico, politico, culturale, delle classi dominanti. La selezione dei quadri è al contempo frutto e risultato della lotta di classe, ma è anche funzionale all’organizzazione della stessa su larga scala, in un processo dialettico che rende l‘alfabetizzazione politica lo strumento culturale più efficace per interpretare la realtà e dunque modificarla strutturalmente, in profondità, nelle ‘trame minute’ del conflitto sociale.
    E' l'unica traduzione possibile, in termini politici (e gramsciani) della contraddizione tra l'appropriazione privata del 'general intellect' e l'individuo sociale che costruisce il socialismo con l'appropriazione collettiva dei mezzi e degli strumenti di quella intelligenza, che Marx ha individuato nei 'Grundrisse' (cfr. K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, 1857-1858, 2 voll., trad. di Enzo Grillo, Firenze, La nuova Italia, 1968-1970, ora anche nella traduzione dell'ed. Pgreco, 2012).
    - Il cimento dell’oggi è duro, ma ci siano da sprone le asprezze  e le tragiche sofferenze di chi, prima e meglio di noi, per questo nome e per l’ideale del socialismo, ha patito discriminazioni, emarginazioni, torture, sino al sacrificio della vita, come nella Resistenza antifascista.
    Concetto Marchesi, sull’Unità del 20 gennaio 1952:
    “Un saggio ministro diceva a un giovane incrudelito imperatore romano: ‘Per quanti avversari tu possa uccidere, non ucciderai mai il tuo successore’. Questo impazzito imperialismo capitalistico, per quanti strumenti di rovina possa accumulare nei cantieri della morte, non distruggerà mai il suo successore, che oggi ha un nome solo: socialismo.”
    Non ci sarà mai socialismo senza un grande partito comunista.

     

    fe.d.

     

    • nota

     - Tra gli interventi sul ruolo educatore del partito sulla falsariga gramsciana cfr. M. Spinella, Scuole e corsi di partito: sviluppo e prospettive, in «Rinascita», 1952, n. 11, pp. 632-634; Id., La scuola centrale di partito, in «Rinascita», 1948, n. 8, pp. 324,325; Id., Il problema dei quadri nei ‘Quaderni del carcere’, in «Rinascita», 1953, n. 3, pp. 162-166; P. Secchia, L’arte dell’organizzazione, in «Rinascita», 1945, n. 12, pp. 267-269, Id., Palmiro Togliatti organizzatore, in «Rinascita», 1948, n. 8, pp. 285-288.

    - Il 'frammento sulle macchine' degli appunti per “Il Capitale” di Marx, noti come Grundrisse (Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, composti tra il 1857 e il 1858) ha avuto diverse interpretazioni (ermeneutiche) in chiave di riattualizzazione, che, come nel caso di Antonio Negri (già a partire da “Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse”, Feltrinelli, Milano 1979) lo hanno pregiudizialmente collocato nel versante cripto-critico del marxismo, tra ribellismo indistinto, slancio utopico e pensiero oscuro. In realtà quel frammento contiene due categorie importantissime per l’analisi delle strutturali contraddizioni del sistema capitalista: il “general intellect” e l’individuo sociale. Se il complessivo sapere dell’intelligenza sociale (non solo i mezzi di produzione, ma la conoscenza ad essi connessi, la cultura, l’arte e la scienza, capitale fisso dell’intera umanità) non viene condiviso, l’appropriazione privata del “general intellect” colliderà con le esigenze e i bisogni di natura sociale di tutti gli individui.

    E’ una fondamentale contraddizione di sistema, strutturale e sovrastrutturale. Coniugata con l’elaborazione dell’”intellettuale  collettivo” nella riflessione di Gramsci, essa squaderna tutta la sua attualità oggi, nell’era pandemica, dove la proprietà privata della scienza e della tecnica, nei sistemi capitalistici, si scontra con il benessere sociale.



    Antonio Gramsci (1891/1937)

    il simbolo del PCd'I (1921)

    il simbolo del PCI come disegnato da R.Guttuso nel 1953


    domenica 17 gennaio 2021

    21 GENNAIO 1921/2021 NUMERO SPECIALE DI CUMPANIS

     A 100 anni dalla nascita del PCd’I

    21 GENNAIO 1921/2021

    NUMERO SPECIALE DI CUMPANIS
    direttore: Fosco Giannini

    PER UN’INTRODUZIONE ALLO SPECIALE
    LA REDAZIONE

    Secchia, il PCI e il carattere della Resistenza italiana

    Per il gramsciano “Intellettuale collettivo”
    DI FERDINANDO DUBLA