Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 27 settembre 2018

Sovranismo popolare e autodeterminazione dei popoli


SOVRANISMO POPOLARE E AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI
all’interno di una visione INTERNAZIONALISTA, sono da sempre stati valori cardine della sinistra.Oggi il “politicamente corretto” e l’apparato mediatico in crisi di consenso, vuole omologarli al NAZIONALISMO e alle sue conseguenze (come la xenofobia e il razzismo), che, da destra, ne sono l’antitesi. Una seria disamina, non solo di igiene linguistica, ma politica, è necessaria. D’altra parte, gli ideali del socialismo si sviluppano con la necessità di organizzare la socialità. Socialità è sovranità e autodeterminazione, e la Costituzione italiana, nel suo primo articolo, ne fa l’architrave di una democrazia popolare.
Sociologicamente, la socialità dell’essere umano è intesa in due modi: la socialità come destinazione propria dell’esistenza umana; la socialità come appartenenza a un contesto sociale determinato. 
(ferdinando dubla) 

La cura del linguaggio 3. Sovranità, sovranismo e sciocchezze

di Dante Barontini

26229724 576241919385192 4756770682638861436 n 1Un fantasma si aggira per l’Europa. Il fantasma del sovranismo
Ci perdonerete la parafrasi dell’immortale incipit di Marx, ma poche parole recenti hanno avuto successo quanto questa, anche se praticamente nessuno sa darne una definizione univoca, linguisticamente fondata. Eppure se chiedete a chiunque chi siano i “sovranisti” tutti ve ne indicheranno uno. Probabilmente molto diverso da altri che condividono l’identico stigma. “Quelli lì, insomma, no?”.
Proviamo a fare quel che ogni “bravo giornalista” fa quando si trova davanti a un termine ambiguo: consulta il dizionario. Siccome cerchiamo l’eccellenza – o l’incerta certezza di non scrivere fesserie – siamo andati a vedere sul dizionario più prestigioso, quello Treccani, per trovare una definizione scientifica..
Ma anche la mitica enciclopedia italiana, su questa parola, alza bandiera bianca. Citiamo:
sovranismo s. m. Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione.
«Dove il necessario affievolimento di sovranità degli Stati a favore di un ordinamento sovrastatuale non tocca minimamente l’unità politica degli Stati-nazione. Solo da noi si riesce a sposare un “sovranismo” anti-europeo con una devolution anti-nazionale». (Andrea Manzella, Repubblica, 13 novembre 2002, p. 1, Prima Pagina)
«Brexit è la vittoria non del popolo, ma del populismo. […] È la rivincita, in tutto il Regno Unito, di coloro che non hanno mai sopportato che gli Obama, Hollande, Merkel e altri esprimessero la propria opinione su quello che essi si accingevano a decidere. È la vittoria, in altri termini, del “sovranismo” più stantio e del nazionalismo più stupido. È la vittoria dell’Inghilterra ammuffita sull’Inghilterra aperta al mondo e all’ascolto del suo glorioso passato». (Bernard Henry Levy, Corriere della sera.it, 27 giugno 2016, Politica, traduzione di Daniela Maggioni)
[tit.] «Altro che sovranismo e populismo, il 2017 / può essere l’anno dell’Europa / Le istituzioni europee rimangono solide nonostante gli attacchi. Incluso il fondo salva / stati con 500 miliardi di munizioni». (Foglio.it, 14 febbraio 2017, Economia)
«Un paesaggio democratico che credevamo conquistato per sempre, a garanzia di noi stessi e degli altri. Ma ecco che il sovranismo cambia la geografia emotiva e riduce l’orizzonte internazionalista in cui si muoveva la sinistra». (Ezio Mauro, Repubblica.it, 15 febbraio 2017, Politica).
Si deve notare che si citano quattro fonti dell’establishment giornalistico (due da Repubblica, una dal Corriere e una dal Foglio, giornale del “centrodestra pensante”, a lungo diretto da Giuliano Ferrara e di proprietà berlusconiana). Silenzio, invece, da parte dei filosofi della politica o dei politologi di un certo livello, che sembrano attendere che il polverone si posi per tratteggiare più chiaramente l’oggetto misterioso.
La Treccani prova a sintetizzare:
posizione politica propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione”.
Messa così, lo diciamo sinceramente, tanto valeva continuare ad usare la categoria più antica e scientifica: nazionalismo.
Se infatti si deve indicare una posizione politica che cerca di sottrarsi alla globalizzazione dell’economia e/o alle politiche sovrannazionali di concertazione (elaborate dentro istituzioni con quel compito, dall’Unione Europea al G7, dal Wto al Fmi, ecc) in riferimento a un determinato territorio unito da lingua e tradizioni culturali omogenee, governato da uno Stato di qualsiasi natura e orientamento, stiamo parlando di nazionalismo. Puro e semplice. Più o meno ammodernato negli ultimi due secoli, ma niente affatto originale…
D’altro canto veniamo da almeno tre secoli in cui la conquista o riconquista della sovranità nazionale conculcata da uno o più Stati stranieri è un valore positivo, che il diritto internazionale e la filosofia politica hanno sintetizzato in diritto all’autodeterminazione dei popoli. Naturalmente questa aspirazione alla libertà e autonomia decisionale di ciascun popolo può essere politicamente declinata in molti modi, e il Novecento ci ha consegnato un’ampia gamma di movimenti di liberazione nazionale progressisti, comunisti, rivoluzionari (Vietnam, Cuba, Mozambico, Angola, Kurdistan, Algeria, ecc), ed anche movimenti analoghi molto di destra (le repubbliche ex sovietiche dell’Est europeo indulgono spesso alla rivalutazione del passato nazista, come in Ucraina e nei paesi baltici).
Ma chi usa il termine sovranismo come definizione spregiativa non ha affatto in mente questa dimensione storica dell’indipendentismo nazionale (che nell’Europa continentale ha avuto importanti momenti di lotta nei Paesi Baschi, in Irlanda, in Catalogna), bensì – e molto più modestamente – qualunque tipo di opposizione allo sviluppo dell’Unione Europea come concentrazione di poteri esplicitamente sottratti agli Stati nazionali che la compongono. Non a caso il termine non viene usato fuori dal perimetro europeo, né per indicare movimenti indipendentisti extraeuropei. Che anzi vengono supportati entusiasticamente se diretti contro Stati considerati nemici dell’Occidente (Russia e Cina, fondamentalmente), fino a fiancheggiare movimenti terroristici capaci di rivoltarsi contro i propri supporter, quando questo appoggio viene meno (Al Qaeda, Isis).
Una prima valutazione si può dunque fare: sovranismo è una definizione a geometria variabile – come “terrorismo”, per cui neppure l’Onu è mai riuscito a trovare una definizione universalmente condivisa – adottata per mettere in cattiva luce chi contesta uno specifico potere “quasi statuale” chiamato Unione Europea. Una definizione, insomma, contingente, elastica, strumentale e priva di struttura solida. Passata la moda, finirà nel dimenticatoio, come “un attimino”…
L’establishment “culturale” l’ha forgiata e imposta come stigma usando come esempio negativo prevalentemente la destra politica nei vari paesi (Le Pen, Orbàn, Salvini, Meloni, Afd tedesca, ecc), ma viene abitualmente usata anche per chi si oppone alla Ue da sinistra (Mélénchon e la France Insoumise, il movimento Aufstehen appena nato in Germania, Eurostop qui in Italia e dunque in parte anche Potere al Popolo, Stefano Fassina e i suoi pochi amici, gli indipendentisti catalani, ecc). Come un coltellino svizzero, ha cento usi possibili. Tutti estremamente utili per chi controlla il manico…
Ma cerchiamo di approfondire il fondamento concettuale di questo termine, così da svelarne l’intento in modo chiaro. Dice sempre la Treccani:
Derivato dall’agg. sovrano con l’aggiunta del suffisso -ismo, sul modello del fr. Souverainisme.
E dà la seguente, classica, definizione di sovrano:
Riferito a un potere o un’autorità, che non ha altro potere o autorità da cui dipenda nell’ordinamento politico-giuridico di cui fa parte.
In altri termini, è sovrano chi prende decisioni senza dipendere da nessun altro potere, che non ha nessuno al di sopra di sé. Gli unici vincoli possibili per questo potere decisionale sono i trattati internazionali (con altri poteri altrettanto sovrani) e il consenso o l’arrendevolezza della popolazione sottoposta alle sue decisioni.
I concetti di sovrano e di sovranità (potere originario e indipendente da ogni altro potere) hanno avuto con la modernità un cambiamento radicale, perché si è passati da una attribuzione di potere di origine semi-divina (“dio me l’ha data e guai a chi me la tocca”) ad altre assai più terrene. Anche le monarchie sono sopravvissute solo “costituzionalizzandosi”, ossia accettando che il proprio potere fosse sottoposto a vincoli superiori, come un Parlamento eletto da una platea variabile, a seconda dei paesi e dell’evoluzione storica. E infine le democrazie – anche quelle socialiste – hanno attribuito la sovranità al popolo, non più a un “prediletto da dio” né a una singola classe sociale di “eletti” (oligarchia). Chi volesse approfondire di più può consultare una bibliografia praticamente sconfinata, con variazioni sul tema che vanno dalle estreme destre dittatoriali alle estreme sinistre comuniste, e perfino agli anarchici.
Ma se la sovranità è semplicemente il potere di decidere su un certo ambito (territoriale e di popolazione), ne discende che non si può abolire o combattere la sovranità in quanto tale (neanche gli anarchici lo teorizzano, in fondo), ma solo discutere e combattere per definire chi decide. Ovvero su quale sia il detentore collettivo di questo potere concretamente insopprimibile. Si può insomma combattere contro il sovrano di turno, non contro il sovranismo, perché un centro decisionale ci sarà in ogni caso.
In una democrazia in senso lato questo potere sovrano appartiene al popolo, come recita anche l’articolo 1 della Costituzione nata dalla Resistenza. Ma forse anche la nostra Costituzione potrebbe esser definita sovranista, secondo qualche testa fine…
La questione a questo punto dovrebbe esser chiara: le cessioni di sovranità operate dai singoli Stati nazionali aderenti all’Unione Europea – soprattutto in materia economica, commerciale e monetaria – si traducono in decisioni prese in questo ambito e vincolanti per tutti i paesi membri. Sulla democraticità di queste decisioni si può naturalmente eccepire, e anche radicalmente. Le istituzioni di Bruxelles affermano che la loro investitura democratica deriva da trattati liberamente sottoscritti da governi liberamente eletti a suffragio universale. Ma è evidente che questa “democraticità derivata”, di secondo grado, si presta a critiche devastanti.
La prima, e principale, è che le decisioni prese in quelle istituzioni – perlomeno quelle che cambiano radicalmente l’architettura dei poteri, diciamo quelle “costituenti” un nuovo ordine – dovrebbero esser validate non solo da un Parlamento europeo (peraltro privo di potere legislativo autonomo), ma dal voto referendario popolare.
Cosa che, quando è avvenuta – in Francia e Olanda nel 2005, per esempio – ha fatto registrare una clamorosa bocciatura. Cui non è però seguita alcuna modifica o autocritica istituzionale; semplicemente non si sono più svolti altri referendum su questioni così importanti. Cancellare l’opinione dei popoli è più semplice che convincerli, pare…
Abbiamo dunque questa inedita situazione storica: la sovranitàceduta o sottratta con la forza economica ai singoli Stati (il caso della Grecia è stato paradigmatico), ovvero ai relativi popoli, si concentrain centri decisionali non elettivi, parlamento di Strasburgo a parte (con i limiti che abbiamo detto).
Il soggetto della sovranità è qui, insomma, una oligarchia tecno-burocratica, quasi una nuova “classe di prescelti” con criteri non democratici, che prende decisioni che riguardano oltre mezzo miliardo di esseri umani senza mai passare dalla verifica elettorale.
Comunque la si pensi, insomma, discutere di “sovranismo” in queste condizioni è un modo di confondere le acque: a rigor di logica la “posizione politica che attribuisce la sovranità all’Unione Europea” non è meno sovranista di quella che la rivendica per gli Stati nazionali. Semplicemente è una posizione che attribuisce la sovranità europea a un soggetto diverso dal popolo europeo.
A questo punto, però, la contrapposizione diventerebbe un’altra: quella tra sovranità oligarchica e sovranità popolare. E gli “antisovranisti” si troverebbe allo scoperto.
Proporre infatti, all’inizio del terzo millennio, un ritorno al “patriziato oligarchico” pre-medioevale, non sarebbe molto vendibile, sul piano del marketing delle idee politiche. Non è carino dire a mezzo miliardo di persone, peraltro dotate di un alto livello medio di alfabetizzazione e scolarizzazione, che la loro opinione non conterà mai più nulla. A meno che non approvino le decisioni prese da altri (è quel che accade al Parlamento di Strasburgo).
Abbiamo poi, nella realtà dei rapporto economici e politici, un altro e ben più potente potere decisionale, che sovrasta assolutamente quello dei singoli Stati nazionali (tutti) e persino quello dell’Unione Europea: i mercati.
Si tratta di un potere formalmente indefinito, privo di una identità riconoscibile e di un indirizzo geografico, privo persino di vere istituzioni in grado di concentrare davvero le decisioni in una sola fonte. Ma attentissimo a determinare un corso degli eventi economico-politici – come le scelte di politica economica e monetaria di ogni istituzione pubblica, sia nazionale, che sovranazionale – che sia adatto al proprio incontrastato sviluppo/arricchimento.
Il carattere indefinito del “potere dei mercati” – del capitalismo contemporaneo, insomma – ha favorito anche ricostruzioni mitologiche e complottistiche, narrazioni di comodo con cui riassumere e dare un volto a un’entità impersonale: il Bilderberg, la Trilateral, Davos, “i poteri forti”, ecc. Stiamo parlando di istituzioni reali, a volte semplici think tank, eltre volte “salotti buoni internazionali” in cui i manager che contano si annusano e si danno grandi pacche sulle spalle, ma raramente partoriscono “decisioni”. Orientamenti, sì, e anche abbastanza univoci; ma “decisioni” no, perché quei capitalisti d’alto bordo gestiscono società gigantesche in concorrenza tra loro (in parte o in tutto). Dunque hanno nemici comuni e interessi specifici diversi.
Ciò non toglie che, quando un governo adotta decisioni che minacciano anche marginalmente il loro business, i mercati si mettono in moto come se ci fosse un comando strategico, colpendo in modo durissimo i “reprobi” che osano tanto.
Abbiamo ormai un frasario foltissimo di espressioni giornalistiche che riassumono questo ruolo dei mercatiche vanno dal “creare un ambiente favorevole agli investimenti stranieri” al “bisogna tagliare il debito, ossia la spesa pubblica, altrimenti i mercati si innervosiscono”.
Per quanto informale, insomma, il potere dei mercati costituisce una vera e propria sovranità molto concreta che – questa sì – “non ha nessun altro potere al di sopra di sé”.
Siamo ormai alla fine del nostro viaggio. Abbiamo scoperto che ci sono diversi livelli di sovranità e anche diverse fonti di legittimazione.
C’è quella popolare, che storicamente può avere un ambito territoriale di applicazione anche assai variabile (nazionale o internazionale, in prospettiva storica anche mondiale), orientamenti politici anche opposti (socialismo, democrazia liberale, fascismo).
C’è quella sovranazionale a dimensione quasi continentale, che viene incarnata tipicamente da trattati e istituzioni dell’Unione Europea.
C’è quella dei mercati, che non ha confini precisi, è tendenzialmente globale pur essendo orientata da interessi di piccolissimi gruppi (gli azionisti di controllo).
Queste ultime due vanno a braccetto in modo esplicito, addirittura rivendicato, imponendo scelte economiche e politiche senza che i popoli (singoli o in coalizione) possano interferire.
Nei fatti, al dunque, abbiamo due soli tipi di sovranità possibile: quella popolare e quella dei mercati. Il nazionalismo è un’altra cosa, abbastanza fuori dal tempo come possibile politica economica ,ma totalmente alla moda come narrazione semplificante i problemi esplosi in dieci anni di crisi.
Definire sovranismo ogni posizione politica che tende a contrastare – sul serio o per calcolo elettorale – il potere assoluto dei mercati e del loro quasi Stato sovranazionale europeo è una scelta coerente con la delegittimazione “morale” delle opposizioni popolari.
Diciamolo chiaramente: soltanto di quelle popolari. La volontà di creare consfusione tra “destra” e “sinistra” è assolutamente intenzionale, anzi: funzionale, di stampo orwelliano.
Se passa nel senso comune l’idea che sia “di destra” e “pericolosa” la voglia dei cittadini di poter contare, il desiderio di un popolo di poter decidere liberamente sulle proprie condizioni di vita… insomma che non sia “democratico” il fatto che un popolo sia sovrano, per i mercati il gioco è fatto. Le loro decisioni saranno sempre e assolutamente le migliori, “tecniche” e inappellabili, nel migliore dei mondi possibili, nonostante la devastazione che ogni loro scelta comporta. E l’Unione Europea resterà il loro migliore strumento, addirittura travestita da “baluardo liberale” contro le destre fascistoidi che quella stessa politica ha riportato in vita.
Balle.
Perché le destre europee – da Salvini a Orbàn passando per Le Pen – non sono affatto “euroscettiche” e non mirano a “disfare l’Unione”. Se ascoltate o leggete con attenzione i loro proclami in vista delle elezioni continentali del prossimo anno, stanno già pensando a come usare la loro possibile egemonia a Strasburgo per cambiare ben pochi trattati europei. Quelli sull’immigrazione, naturalmente, e forse qualcosa a difesa di singoli settori produttivi nazionali a rischio. Ma per l’essenziale, questa Unione Europea – feroce con i popoli, sdraiata a tappetino con i mercati – ai fascisti va benissimo.
Mentre per la sovranità dei mercati non c’è incubo più grande della più radicale forma di sovranità popolare: il comunismo.

lunedì 17 settembre 2018

Taranto - Ilva, l'unico a vincere è il mercato, l'acciaio, esce sconfitta la politica locale e nazionale


Written by  Giancarlo Girardi


L’affaire Ilva – Continuiamo a pubblicare interventi, stavolta è Giancarlo Girardi, un ex lavoratore del siderurgico per trenta anni, nell'area a caldo, di cui 22 azienda di stato e 8 con Riva. Impegnato oggi sindacalmente nello SPI CGIL e politicamente nel PCI. 
"Plebiscito con i SI a Genova e Taranto". La stampa locale e nazionale concorda, ma dalla vicenda Ilva esce vincitore soltanto il mercato, come lo fu nel 1995 con Emilio Riva, ma ora nella figura del principale suo protagonista nel mondo dell'acciaio. Il ricatto occupazionale ancora una volta è stato lo strumento vincente. Esce sconfitta la politica nazionale e locale, incapace ieri ed oggi di dare una soluzione agli interessi del Paese e della città di Taranto regalando, ancora una volta, non nazionalizzandola, la fabbrica. Oggi i suoi profitti continueranno ad essere privati mentre i danni per cittadini e lavoratori continueranno ad essere pubblici. Escono sconfitti i sindacati, tutti, incapaci negli ultimi venticinque anni di cambiare dall'interno della fabbrica i problemi dell'ambiente, della sicurezza dei lavoratori e di conseguenza quella dei cittadini. La Taranto migliore ne esce con grande dignità ma non sconfitta come qualcuno ritiene. Dieci anni fa essa vinse contro i suoi peggiori nemici: la rassegnazione e l'indifferenza di che la governava. Sino al dicembre 2012 grandi manifestazioni la attraversarono ridandole quella volontà di cambiamento che le amministrazioni pubbliche sino allora non seppero darle. La magistratura fece il suo dovere colpendo un sistema di potere locale e nazionale su cui si reggeva la gestione della famiglia Riva. Tante leggi hanno garantito una immunità penale che oggi, nei fatti , viene riproposta. Drammatico e tragico, per le future morti sul lavoro, resta il futuro della fabbrica ed incerto quello della città con i decessi e malattie ambientali. Quanti di quei SI di oggi sfilarono in 8000 al soldo di RIVA, nel 2012, contro la magistratura rea di aver applicato la Costituzione italiana? Ora tocca a loro, i lavoratori. Recuperino la dignità perduta nel passato, tornino, oggi più che mai, “classe”. Diano il benvenuto ad Acelor con uno sciopero che riparti dalla sicurezza sui luoghi del lavoro in fabbrica, sciogliendo dall'interno quelle “catene” della salute e dell'ambiente che legano il loro futuro e quella della città tutta. La responsabilità totale è ora loro.


lunedì 10 settembre 2018

Patria e Costituzione: un’iniziativa da non perdere di vista


Sabato 8 settembre scorso si è svolto a Roma (dalle 10 e 30 alle 17,00) l’incontro “Patria e Costituzione” indetto da Stefano Fassina, avente l’obiettivo prioritario di costituire l’omonima associazione. Dopo l’introduzione dello stesso Fassina, ci sono state 5 relazioni (D’Attorre, Santomassimo, Giacché, D’Antoni, Preterossi) e una serie di interventi già annunciati sul manifesto di lancio dell’iniziativa. Il Pci non ha fatto parte del gruppo promotore ma è stato presente con due membri della segreteria nazionale (il sottoscritto e il compagno Francesco Della Croce). Quest’ultimo ha chiesto e ottenuto di intervenire. La sala della protomoteca del Campidoglio era piena, molti i giovani; importante, in particolare, la lettera di saluto inviata da Sahra Wagenknecht, dirigente della Linke fortemente critica con l’attuale direzione del suo partito e oggi presidente dell’associazione Aufstehen/Rialziamoci (con cui il Pci ha fissato un incontro in Germania per il prossimo ottobre). A occhio, erano assenti il Prc (a parte D. Moro) e Potere al Popolo. Di quest’ultima assenza non c’è da stupirsi, vista l’ironia con cui Salvatore Prinzi, uno dei maîtres à penser di Pap, ha accolto su Facebook l’uso del termine “patria”: come spesso accade sui social, l’ironia è poi diventata scherno e disprezzo nei commenti successivi, al punto che una delle rare voci sensate ha dovuto far presente “Scusate, ma non è la Costituzione che parla di patria.. e la Resistenza non era patriottica?”. Purtroppo, una voce nel deserto di Potere al popolo. Del resto, superficialità semplificante e fuga dalla realtà non sono un’eccezione a sinistra, se anche su Left si rende incredibilmente conto di questo incontro nei termini di “rossobrunismo” e “tardo-stalinismo”.
Ma torniamo al merito di un’iniziativa che è, a mio parere, da seguire nei suoi sviluppi, provando a valorizzare la sintonia riscontrata con molte delle cose dette. Qui di seguito, penso sia utile sintetizzare alcuni contenuti rispetto a cui il minimo che si richieda è di prestarvi un’attenta riflessione. Stefano Fassina ha esordito constatando che alle nostre spalle c’è “un trentennio inglorioso”, chiusosi in modo fallimentare perché caratterizzato da una pesante “svalorizzazione del lavoro”. Davanti al ripiegare della globalizzazione capitalistica, oggi occorre “rideclinare il nesso nazionale/internazionale”. In Italia e fuori d’Italia, due essenziali esigenze sono state clamorosamente disattese: la richiesta di una protezione del mondo del lavoro, la richiesta di una comunità solidale. In questo senso, “patria” significa: “una comunità nazionale e un programma fondamentale” (socialista). Nella forma aggiornata al XXI° sec., occorre dunque “riattivare il quadro nazionale” e, con esso, la politica (a fronte di un sistema dell’euro che relega la politica al ruolo di ancella dei poteri forti). Fassina ha insistito su due temi. Sulla questione migrazione: “l’accoglienza non può essere l’unico principio guida”, occorre assicurare a chi arriva in loco e a chi in loco risiede una vita e un ambiente dignitoso (evitando, per tutti, condizioni di degrado e aumento dello sfruttamento), “occorre una regolazione dei flussi”. Sull’Europa: è illusorio pensare di poter riformare i Trattati Ue; per questo è sbagliata la parola d’ordine “più Europa”, e occorre puntare invece ad un’ “Unione intergovernativa di sovranità nazionali democratiche” (è la medesima formulazione proposta da Sahra Wagenknecht).
Dal canto suo, anche Alfredo D’Attorre non ha fatto ricorso a giri di parole: la parola “sinistra” non mobilita più nessuno. Occorre una svolta netta. Non ci si oppone a questo governo con formule ormai incomprensibili per molti. Oggi non c’è un’opposizione credibile: e “non ci si salva la coscienza sul molo di Catania o minacciando l’ampliarsi dello spread”. Dobbiamo dire chiaramente che non abbiamo niente a che fare con gli autori del disastro sin qui fatto. E bisogna tenere a mente che Von Hayek, uno dei campioni del liberismo, aveva capito che, in nome della libera concorrenza, occorre tagliare il ramo degli stati nazionali. Anche D’Attorre riprende il tema immigrazione: “dire che l’immigrazione è solo un problema di percezione è una follia, piaccia o non piaccia il problema c’è”; e occorre affrontarlo non lasciandolo alla spontaneità del giorno per giorno ma predisponendo proposte realistiche e concrete. Ma soprattutto bisogna reimpadronirsi dei temi che hanno caratterizzato la nostra storia, ad esempio ribadiamo con forza che i servizi pubblici essenziali non si privatizzano. E cogliamo al balzo il tema posto (ma non certo risolto) da questo governo: facciamo della questione Autostrade e del tema nazionalizzazioni un passaggio essenziale.
Chiudo questa mia rapida sintesi sottolineando un punto della relazione di Massimo D’Antoni. Il regime di libera circolazione dei capitali dà ai medesimi un grande potere e lega al carro dei loro interessi gli stati-nazione, indebolendo all’interno di questi ultimi la forza delle classi popolari. Qui sta la radice del “vincolo esterno”, l’origine del “disciplinamento” e della sottrazione di sovranità. Ricorda D’Antoni che tutto ciò è ben spiegato nell’autobiografia di Guido Carli. Il punto è: perché a tutto ciò ha aderito la sinistra? “C’è dunque da meravigliarsi se, davanti al “tradimento” della sinistra, gli italiani diventano euroscettici e votano per gli euroscettici?”.
Mi fermo qui. Potrei aggiungere molto altro, scegliendo tra i tanti spunti di una discussione interessante (ad esempio le argomentazioni di Vladimiro Giacchè, come sempre lucidissime, centrate sull’incompatibilità tra Trattati Ue e Costituzione italiana). Ma quanto detto è già sufficiente a dare il senso di un serio impegno di approfondimento destinato a proseguire on line su di un apposito sito di cui la nascente associazione si doterà.
Ovviamente sin qui non ho fatto menzione di una domanda tutta politica, che pure si intravede a mezz’aria. A Fassina occorrerebbe infatti chiedere: “Che conti col recente passato intendete fare? Su quali gambe politiche potrà camminare questa che avete definito una svolta netta?” Si vedrà. Intanto è bene valorizzare quello che questa giornata di riflessione ha già prodotto.
di Bruno Steri, Segreteria nazionale PCI

ILVA di Taranto: PCI e SI di terra jonica e la mistificazione dell’accordo governo- sindacati- Mittal


Ci hanno detto: voi siete di parte! Sì, siamo di Taranto. Ci avevano detto che la siderurgia è asset industriale strategico per un paese: infatti, invece di ri-pubblicizzarla, l’hanno venduta agli indiani. Ci avevano detto che la scommessa era coniugare lavoro, salute ed ambiente: hanno salvato neanche tutti i posti, disinteressandosi dell’indotto, facendovi rientrare l’art.18, che non è materia di contrattazione, ma diritto universale da ri-estendere a tutti. Hanno continuato a conservare l’immunita’ penale, evidentemente per continuare ad inquinare e a far ammalare impunemente cittadini ed operai. Si’, siamo di parte: siamo di Taranto. (fe.d.)


SULL’ILVA di TARANTO prese di posizione del PCI e di SI 
Dalla vicenda Ilva esce vincitore il mercato nella figura del principale suo protagonista nel mondo. Il ricatto occupazionale ancora una volta è stato lo strumento vincente. Esce sconfitta la politica nazionale e locale, incapace ieri ed oggi di dare una soluzione agli interessi del Paese e della città di Taranto regalando, ancora una volta, non nazionalizzandola come voleva il PCI, la fabbrica. Oggi i suoi profitti continueranno ad essere privati mentre i danni per cittadini e lavoratori continueranno ad essere pubblici. Solo la propiretà dello Stato avrebbe potuto garantire il controllo da parte dei cittadini e dei lavoratori sulle attività della fabbrica e sull’avanzamento dell’ambientalizzazione.
L’accordo raggiunto tra Arcelor-Mittal, Governo e Sindacati, purtroppo, va nella stessa direzione delle relazioni sindacali degli ultimi 25 anni e non è in grado di cambiare dall’interno della fabbrica i problemi dell’ambiente, della sicurezza dei lavoratori e di conseguenza quella dei cittadini, lascinado alla sola “proprietà” la libertà di decidere e di agire.
La città ne esce con grande rispettabilità. Dieci anni fa vinse contro i suoi peggiori nemici: la rassegnazione e l’indifferenza che la governava. Sino al dicembre 2012 grandi manifestazioni la attraversarono ridandole quella dignità che le amministrazioni pubbliche sino allora non seppero darle. La magistratura fece il suo dovere colpendo un sistema di potere locale e nazionale su cui si reggeva la gestione della famiglia Riva. Tante leggi hanno garantito una immunità penale oggi, nei fatti , riproposta. Drammatico e tragico resta il futuro di fabbrica e città con le immancabili morti sul lavoro e quelle ambientali. I lavoratori tornino, oggi più che mai, “classe” sciogliendo dall’interno le “catene” che legano il loro futuro e la città tutta.
Federazione del P.C.I. di Taranto
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ILVA : IL BLUFF È FINITO!
LA TRAIETTORIA DEL GOVERNO DI MAIO-SALVINI È RIMASTA FEDELE ALLA LINEA DETTATA DAI GOVERNI PD.
I lavoratori lasciati fuori da Mittal rimangono migliaia, secondo qualcuno dovremmo gioire perché da 3.500 passerebbero 3.300;
la cassa integrazione e le uscite volontarie con bonus di 100.000 euro lorde, rimangono esattamente come previsto dal Governo precedente;
il taglio dei salari e la cancellazione dei Diritti fino ad oggi maturati, per i lavoratori che passeranno alla nuova gestione, rimangono immutati;
il Piano ambientale viene mantenuto, senza introdurre la Valutazione del Rischio e dell’Impatto Sanitario nell’Autorizzazione AIA, cosa che esclude l’utilizzo di tecnologie produttive e fonti diverse dal carbone;
Di nazionalizzazione e di intervento pubblico per garantire lavoro e salute, neanche a parlarne. Sembra che l’unica cosa che non interessi al Governo del cambiamento sia cambiare le cose.
Sinistra Italiana, fed. Taranto