Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 23 giugno 2017

Makarenko e la pedagogia del collettivo

        
    
In questo contesto [gli anni dell'edificazione del socialismo, anni '20 e '30 in URSS, prima RFSS, ndr] ebbe una grande fortuna (a discapito delle idee di Vygotskij, che furono marginalizzate e combattute, per poi emergere solo in un periodo successivo) l’approccio pedagogico peculiare di Anton S. Makarenko (1888 –1939), dapprima legato alle medesime istanze di rinnovamento espresse, tra gli altri, anche da Lenin e Lunaciarskij, e quindi alla “pedologia”, e che poi mutò radicalmente negli anni Trenta con un deciso rifiuto di tale prospettive, pur cercando di mantenere stabile un legame tra l’esperienza rivoluzionaria dell’ottobre e alcune istanze delle “scuole nuove”, in un contesto di profondi cambiamenti sociali. Il pensiero pedagogico di Makarenko muove da basi sperimentali e ha un carattere tutt’altro che dogmatico (mancano principi pedagogici assoluti, e in particolare vi è nel pedagogista sovietico una critica serrata a tre grandi errori della teoria pedagogica, ovvero il “giudizio deduttivo”, il “feticismo etico” e “L’esaltazione di strumenti isolati”), poiché è stato elaborato all’interno di concrete esperienze educative, in particolare all’interno dell colonia Gorkij; e, soprattutto, si impernia attorno al “collettivo”, un vero e proprio organismo sociale che è mezzo e fine dell’educazione al contempo, e in cui ogni individuo assume compiti e responsabilità, in base a norme disciplinari di cui egli stesso è garante, e collegando il collettivo alla più vasta realtà sociale (in una certa fase della teorizzazione pedagogica e della prassi educativa di Makarenko infatti, è presente il ruolo fondamentale del lavoro produttivo e socialmente rilevante).

- La disciplina ricopre un ruolo rilevante all’interno del collettivo, che arriva per fasi ad una regolazione sempre più autonoma e socialmente connotata delle norme interne tanto ai collettivi “di base” (caratterizzati da rapporti più intimi e da collaborazione più assidua) quanto al complesso dei collettivi, che pur dando un’importanza determinante all’organizzazione sociale, attraverso la cosiddetta “azione pedagogica parallela” fa in modo che ogni studente abbia coscienza di essere un uomo “vivo” all’interno di un processo formativo, e non un semplice “fenomeno” pedagogico. Parallelamente alla disciplina, rilevanza è attribuita agli aspetti “sostanziali” di un’estetica militare che rafforzi l’identità e l’ordine del collettivo, oltre che la precisione e la “regolatezza”, che penetri anche nell’organizzazione dei collettivi e nel loro funzionamento.

                                       
                                               

sabato 17 giugno 2017

Per la lunga marcia della sinistra l’obiettivo oggi non è il governo


di Guido Liguori, per Il Manifesto, 17 giugno 2017

La sinistra come al solito è entrata in fibrillazione man mano prendeva corpo l’imminenza della scadenza elettorale. Se la speranza in una quota proporzionale offriva una occasione alle forze minori, lo sbarramento del 5% incuteva giustamente timore. Giustamente non perché non vi sia in Italia una sinistra ampiamente oltre tale quota. Ma perché come al solito si arriva alle scadenze elettorali senza avere alle spalle né un fermento sociale simile a quelli da cui sono nate le recenti esperienze greca e spagnola, né una comune radicalità di intenti paragonabile a quella di Melénchon o persino di Corbyn.

La sinistra italiana, un tempo guardata con invidia dalle sinistre di tutto il mondo, è ora il fanalino di coda, è «invertebrata», quasi non esiste. La preoccupazione diventava allora quella del superare il 5%. E così si parte dalla forma prima che dai contenuti. Dalle alleanze prima che dai programmi. Ed è quasi inevitabile, dopo aver dato a lungo prova di vocazione antiunitaria, dopo non aver saputo capitalizzare la vittoria del 4 dicembre, dopo aver praticato anni di politicismo senza presenza nei quartieri, nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle lotte.

Mettersi tutti insieme per saltare l’ostacolo del 5% è sembrata allora l’unica risorsa. Ma davvero è così? Senza un fine unificante, senza un programma condiviso? C’è chi vuole tornare al centrosinistra, e lo dice apertamente. C’è chi dice che il centrosinistra è ormai un residuo del passato, una prospettiva perdente. Non è una pura questione nominalistica: dietro quel nome, centrosinistra, per limitarci a come è stato declinato negli anni della cosiddetta “seconda repubblica”, vi è una immagine ben chiara delle compatibilità di sistema, del cosa si può fare e non fare, del rapporto (di alterità o di convergenza) rispetto a ceti, classi sociali, raggruppamenti politici e di potere.

Come faranno questi due schieramenti – pro-centrosinistra e anti-centrosinistra, ovvero pro-alleanza col Pd e anti-alleanza col Pd – a presentarsi insieme? Come chiederanno voti, con quale credibilità? Per poi scindersi subito dopo le elezioni, sinistra di governo e sinistra di opposizione? Si è sicuri che questa armata Brancaleone attirerebbe suffragi? Certo dai gruppi più militanti, ma tra gli elettori? I “grandi numeri” spesso seguono logiche diverse. Eppure questa volta – senza maggioritario – non dovrebbe esservi il richiamo del voto utile, o almeno non dovrebbe esservi nella misura del passato.

A mio avviso il ragionamento va capovolto. Oggi l’obiettivo della Sinistra non può essere il governo, non può e non deve esserlo. Dobbiamo uscire dalle ubriacature dei fumi del maggioritario respirati per vent’anni. Che governino, lor signori. La ricostruzione della nostra cultura e la inversione del “senso comune” che pervade la società, la costruzione di un nuovo senso comune di massa è lavoro non breve. Inutile raccontarci il contrario. È una “lunga marcia”, nella società e anche nelle istituzioni. Il parlamento serve, non solo come tribuna. Ma è appena un momento, una delle tante “trincee” di una lotta più complessiva. Dall’opposizione si può e si deve costruire un percorso che riaggreghi veramente, che unifichi i militanti dispersi, non perché si deve andare al voto e superare uno sbarramento. Ma perché si vuole costruire una forza di alternativa sistemica che dia risposte nuove (spesso opposte a quelle del centrosinistra) su punti fondamentali: redistribuire lavoro e reddito, rilanciare l’intervento pubblico, una imposizione fiscale fortemente progressiva, l’investimento nella scuola, nell’università e nella ricerca, il rafforzamento del Sistema sanitario nazionale, la lotta ai Trattati europei, la rinuncia alla guerre e agli armamenti, insomma l’applicazione e il rilancio della Costituzione del 1948, nata dalla Resistenza e imperniata sul suo art. 3.

Invece che da una unità last minute, ripartiamo da un programma radicale di cambiamento. Vediamo chi ci sta, iniziamo la nostra “lunga marcia” a partire dalle prossime elezioni, ma senza pensare che avere dieci o venti deputati sia dirimente. È più importante che una nuova “volontà collettiva” finalmente si manifesti e si organizzi, inizi a operare nei territori, dia vita a una organizzazione politica aperta e plurale, non identitaria ma che rispetti le diverse identità, che promuova gradatamente una sua nuova sintesi culturale unitaria, a partire dai nodi programmatici dirimenti, da una proposta chiara di alternativa sistemica. E che resti in campo in modo duraturo, senza cambiare nome, simbolo, alleanze e orientamenti di fondo ogni due anni o a ogni elezione. Solo così la Sinistra può diventare credibile.

           


lunedì 12 giugno 2017

Gli stenti del giovane GRAMSCI


Nel modo seguente Gramsci scriveva il 12 settembre del 1927 al fratello Carlo dal carcere di San Vittore in Milano (Nannaro di cui Gramsci scrive nella lettera è il fratello maggiore Gennaro):
 
Mi pare che siano quasi 22 anni da che io ho lasciato la famiglia; da 14 anni poi sono venuto a casa solo due volte, nel 20 e nel 24. Ora in tutto questo tempo non ho mai fatto il signore; tutt’altro; ho spesso attraversato dei periodi cattivissimi e ho anche fatto la fame nel senso più letterale della parola. A un certo punto questa cosa bisogna dirla, perché [...] si riesce a rassicurare. Probabilmente tu qualche volta mi hai un po’ invidiato perché mi è stato possibile studiare. Ma tu non sai certamente come io ho potuto studiare. Ti voglio solo ricordare ciò che mi è successo negli anni dal 1910 al 1912. Nel 10, poiché Nannaro era impiegato a Cagliari, andai a stare con lui. Ricevetti la prima mesata, poi non ricevetti più nulla: ero tutto a carico di Nannaro, che non guadagnava più di 100 lire al mese. Cambiammo di pensione. Io ebbi una stanzetta che aveva perduto tutta la calce per l’umidità e aveva solo un finestrino che dava in una specie di pozzo, più latrina che cortile. Mi accorsi subito che non si poteva andare avanti, per il malumore di Nannaro che se la prendeva sempre con me. Incominciai col non prendere più il poco caffè al mattino, poi rimandai il pranzo sempre più tardi e così risparmiavo la cena. Per 8 mesi circa mangiai così una sola volta al giorno e giunsi alla fine del 3° anno di liceo, in condizioni di denutrizione molto gravi. Solo alla fine dell’anno scolastico seppi che esisteva la borsa di studio del Collegio Carlo Alberto, ma nel concorso si doveva fare l’esame su tutte le materie dei tre anni di Liceo; dovevo perciò fare uno sforzo enorme nei tre mesi di vacanze. Solo zio Serafino si accorse delle deplorevoli condizioni di debolezza in cui mi trovavo, e mi invitò a stare con lui ad Oristano, come ripetitore di Delio. Vi rimasi 1 mese e mezzo e per poco non divenni pazzo. Non potevo studiare per il concorso, dato che Delio mi assorbiva completamente e la preoccupazione, unita alla debolezza, mi fulminava. Scappai di nascosto. Avevo solo un mese di tempo per studiare. Partii per Torino come se fossi in istato di sonnambulismo.Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza delle 100 lire avute da casa. C’era l’Esposizione e dovevo pagare 3 lire al giorno solo per la stanza. Mi fu rimborsato il viaggio in seconda, un’ottantina di lire ma non c’era da ballare perché gli esami duravano circa 15 giorni e solo per la stanza dovevo spendere una cinquantina di lire. Non so come ho fatto a dar gli esami, perché sono svenuto due o tre volte. Riuscii ma incominciarono i guai. Da casa tardarono circa due mesi a inviarmi le carte per l’iscrizione all’università, e siccome l’iscrizione era sospesa, erano sospese anche le 70 lire mensili della borsa. Mi salvò un bidello che mi trovò una pensione di 70 lire, dove mi fecero credito; io ero così avvilito che volevo farmi rimpatriare dalla questura. Così ricevevo 70 lire e spendevo 70 lire per una pensione molto misera. E passai l’inverno senza soprabito, con un abitino da mezza stagione buono per Cagliari. Verso il marzo 1912 ero ridotto tanto male che non parlai più per qualche mese: nel parlare sbagliavo le parole. Per di più abitavo proprio sulle rive della Dora, e la nebbia gelata mi distruggeva” [1].
 
1. A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio, Palermo, 2013, pp. 116-117.
 
estratto dall'articolo di Lelio La Porta, Gramsci- un autoritratto, 3/06/2017 in
 


mercoledì 7 giugno 2017

APPELLO ASSEMBLEA 18 GIUGNO

UNA SINISTRA DI POPOLO DAL POPOLO (in un'unica lista)

Una richiesta di unità perché la sinistra di classe libera dal PD abbia una sua rappresentanza politica alle prossime elezioni.
Il testo dell'appello è stato firmato da Anna Falcone e Tommaso Montanari e pubblicato da Il Manifesto del 6 giugno 2017. Annunciata la partecipazione, finora, del PCI, di Rifondazione Comunista, di Possibile, di Sinistra Italiana.
(fe.d.) 
di seguito il testo dell'appello:


<Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: la diseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.
La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.
Per far questo è necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare.
Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla.
Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che il punto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni al potere per completare il lavoro.
Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione.
Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione.
Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.
Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive.
Un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati.
Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma sia già scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nel più importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamo candidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché le candidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui gli schemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, e immutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale.
Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo.
Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo.>


lunedì 5 giugno 2017

LA POLITICA SCOLASTICA SOVIETICA DELL’EDIFICAZIONE SOCIALISTA



La scuola sovietica, sotto la spinta della “pedagogia della prassi” di carattere rivoluzionario, fu considerata, quasi universalmente, una delle conquiste più significative ed efficaci per la formazione delle giovani generazioni nello stato socialista. Attraverso dibattiti e sperimentazioni, l’estensione di massa della cultura e del sapere e la natura gratuita e obbligatoria della frequenza, il legame con il mondo del lavoro, della produzione, della scienza e della tecnica, si edificò una delle realizzazioni strutturali tra le più importanti della storia dell’educazione di tutti i tempi. (fe.d.)



LA POLITICA SCOLASTICA SOVIETICA DELL’EDIFICAZIONE SOCIALISTA
 da: Andrea Daziano, La scuola nell’Unione Sovietica, Feltrinelli, 1963, pp.13/18 [estratto]
Il 26 giugno 1918 fu istituito il Commissariato popolare dell'istruzione, il celebre Narkompròs “komissariat бит Образованию". Questi provvedimenti furono avversati dai rappresentanti della vecchia burocrazia scolastica e della maggior parte degli insegnanti dell'Unione panrussa degli insegnanti o Vus (All-русский союз учителей), dominata dei liberali e dei socialisti rivoluzionari. Ma già alla fine del 1917 si era costituita l'Unione degli insegnanti internazionalisti (Союз учителей-интернационалистов ), che raccoglieva gli insegnanti comunisti e che si andò rafforzando negli anni successivi. Uno degli atti più importanti di questo periodo è la pubblicazione, avvenuta il 16 ottobre 1918, del "Regolamento" che istituiva la scuola del lavoro (Школа работы), e che fu accompagnata dalla famosa "Dichiarazione sulla scuola unica di lavoro" (Deklaratsiya). La Школа работы era la realizzazione dei principi essenziali dell'intera tradizione socialista in campo scolastico: scuola unica, obbligatoria, gratuita, laica, e mista di ragazzi e ragazze. Nella Deklaratsiya si affermava infatti:

Tutto il sistema scolastico del giardino d'infanzia all'università costituisce un'unica scuola, una scuola continua. Questo significa che tutti i ragazzi devono entrare in un medesimo tipo di scuola, alla stessa età, e che tutti hanno il diritto di salire questa scala fino ai gradini più alti.[1]

Nel marzo 1919 l'VIII congresso definì il nuovo programma del partito che, in forma concisa, fissò i principi essenziali e il piano per l'edificazione della scuola socialista. Essi erano: istruzione generale e politecnica gratuita per i ragazzi di entrambi i sessi fino ai 17 anni; scuola unica mista, laica e di lavoro tesa a formare i membri della società comunista; diffusione dell'istruzione professionale tra le persone che avessero compiuto il 17°anno di età; possibilità di accedere agli istituti superiori per tutti e in particolare per i lavoratori.[2]
Il discorso, tenuto da Lenin il 2 ottobre 1920 al III Congresso del komsomòl, ribadì autorevolmente tale programma.
Pur attraverso alle difficoltà della guerra civile che si svolse dal 1918 al 1920 e ad ostacoli di ogni genere, fu avviato il cambiamento dei metodi di istruzione e di educazione, vennero riformati i piani e i programmi didattici, riveduti i testi. Fu introdotto l'autogoverno, si istituirono scuole per la preparazione dei lavoratori agli studi superiori, come le celebri facoltà operaie o Rabfak (право рабочих).
 Infatti nei confronti del corpo insegnante il nuovo regime operò da un lato una politica di recupero e dall'altro una riforma della preparazione professionale.

 Con la fine della guerra civile (1920), comincia il secondo periodo (1921-30) della scuola sovietica in cui si va affermando la scuola socialista e la pedagogia marxista-leninista, in opposizione a correnti correnti pseudo-socialiste, e si combatte la grande battaglia contro l'analfabetismo gettando le premesse per ottenere l'istruzione elementare generale obbligatoria.
Dal sistema d'istruzione generale va distinto il sistema di istruzione tecnico-professionale, nel cui ambito sorsero numerosi téchnikumy, scuole professionali e scuole di tirocinio di fabbrica-officina. Le quali ultime risultarono divise in due gruppi: scuole professionali vere e proprie a cui potevano accedere i licenziati della scuola primaria, e scuole tecniche (téchnikumy) destinate ai licenziati della scuola settennale, corrispondente alla scuola media inferiore. Nella Repubblica russa, a cominciare dal 1924, nelle classi VIII-IX fu introdotta la specializzazione professionale, nel senso che erano distinti indirizzi diversi (tecnico, economico-amministrativo, ecc.) che nel complesso conservarono però la fisionomia di scuole medie superiori generali. In Ucraina e Bielorussia, invece, alla scuola settennale seguiva immediatamente una scuola professionale dalla quale i licenziati potevano entrare nei téchnikumy; in altri termini non esisteva una scuola media generale superiore.

Queste trasformazioni della struttura del sistema scolastico sono connesse con le grandi discussioni che si fecero dal 1921 al 1930 sull'educazione al lavoro e sull'istruzione politecnica nella scuola. [..] Anche nell’istruzione politecnica non si ottennero risultati particolarmente brillanti per la mancanza delle necessarie attrezzature e perchè non furono chiariti a fondo i problemi riguardanti la politecnicizzazione. Significativi di questo convulso periodo della scuola sovietica furono i programmi preparati dal Narkompròs e diventati obbligatori nel 1923-24. Erano stati elaborati dal Consiglio scientifico di Stato (GUS) e si distinguevano per il fatto che in essi gli argomenti di studio non erano divisi per materia. Tutte le nozioni da insegnare erano viste in riferimento alla natura, al lavoro e alla società, per cui gli argomenti non erano divisi nei programmi in tre sezioni verticali, che formavano i cosiddetti complessi di studio. [...]

[..]
E’ di quest’epoca la diffusione della teoria della morte della scuola (теория школьной смерти). Mentre sopravvivevano i difensori del vecchio sistema d’insegnamento, nel 1928-29, una corrente, che subiva particolarmente l’influenza americana, tentò di introdurre il “metodo dei progetti” come fondamento della scuola, appoggiata dall’ Istituto per le ricerche sui metodi dell’attività scolastica, che ne era anzi la roccaforte. Questa corrente pedagogica partiva dal presupposto che nella società comunista la scuola come istituto didattico-educativo sarebbe scomparsa, e la formazione dei ragazzi sarebbe dovuta avvenire nello stesso svolgimento della vita, della pratica. All’insegnamento tradizionale si sarebbe sostituita così l’esecuzione da parte dei ragazzi di una serie di progetti, cioè di esercitazioni pratiche: si diffuse inoltre in metodo delle brigate-laborotorio e invalse la tendenza a sostituire i testi di tipo normale con pubblicazioni di carattere occasionale: “I libri per l’operaio”, “Testi minimi”, “Testi giornali”, ecc.
Sul piano teorico si tentò di sostituire la pedagogia con la “pedologia”, cioè con una considerazione scientifico-meccanicistica del ragazzo, imperniata sulla supposta legge per cui la personalità del ragazzo è determinata da fattori biologici e sociali: l’eredità biologica e l’azione di un ambiente sociale. Su questa base i “pedologi” ritenevano di poter determinare in modo scientifico le attitudini dei ragazzi. Mentre la scuola sovietica in netta espansione era dominata da queste contraddittorie tendenze, che la rendevano viva, ma ne riducevano l’efficienza didattica, era cominciata col primo piano quinquennale l’industrializzazione ed era stata realizzata la collettivizzazione dell’agricoltura. La necessità di preparare i quadri per la nuova economia, oltre che i difetti rivelatisi nei vari tentativi ed esperimenti scolastici condotti sino ad allora, imposero col 1931 un ritorno alla scuola di tipo tradizionale, volta cioè ad assicurare ai ragazzi una solida preparazione generale.
Dal 1931 al 1940 il CC del partito emanò una serie di Risoluzioni che trasformarono completamente l’attività della scuola e che rimasero i caposaldi del sistema scolastico sovietico fino alla riforma del 1958. Queste Risoluzioni, oltre a definire la struttura e l’attività della nuova scuola, dettarono le norme per i programmi, l’ordinamento interno, i manuali, ecc. Notevole la Risoluzione del 4 luglio 1936 “Sui travisamenti ‘pedologici’ nel sistema dei Narkomprosy*,” nella quale la “pedologia” venne dichiarata una pseudoscienza e si proponeva di metter fine alla sua dannosa esperienza col chiudere la facoltà e i gabinetti “pedologici”, reintegrando nei propri diritti la pedagogia e gli insegnanti.
Le Risoluzioni del CC degli anni Trenta resero la scuola sovietica molto più efficiente di prima ma al tempo stesso determinarono anche l’allentarsi dei legami fra scuola e vita: i problemi dell’istruzione politecnica furono accantonati, le ore di lavoro escluse dal piano didattico della scuola, chiuse le masterskie scolastiche (1937).

Questa era la situazione chiaramente avvertita dal XVII Congresso del partito quando, nel 1941, scoppiò la guerra. Con essa si aprì l’ultimo periodo della scuola sovietica. A tale periodo risalgono talune iniziative, che precorrevano certi aspetti della riforma(..), pur rivestendo carattere occasionale e restando per anni prive di sviluppi.
Con il gran numero di ragazzi dispersi ed evacuati, in conseguenza della guerra,portò all’istituzione di scuole-internato. […]
*Commissariati per l’istruzione popolare
---------

[…] Negli anni che precedettero la rivoluzione l’arretratezza e l’ignoranza erano estreme. La popolazione, analfabeta per il 75% circa; quasi i 4/5 dei ragazzi e degli adolescenti non frequentavano la scuola. In otto lustri questa situazione è stata rovesciata: il numero degli allievi nelle classi superiori della scuola media è aumentato di quasi 40 volte. La scuola sovietica ha promosso l’elevazione culturale delle decine di popoli dell’URSS, a ciascuno dei quali è stata assicurata la scuola nella lingua nazionale e l’accesso all’istruzione superiore. Nel periodo sovietico il numero degli allievi è aumentato di 50 volte in Kirghisia, di 84 volte nell’Uzbekistan, di 98 volte nel Tagikistan. Prima della Rivoluzione la popolazione del Kazachstan era analfabeta per il 98%; ogni 5 ragazzi kazachi di età scolare uno solo frequentava la scuola; le ragazze, poi, erano generalmente del tutto prive di istruzione. Oggi (1963, ndr) nel Kazachstan esistono 9915 scuole con 1.425.280 allievi, di cui 670.000 ragazze.
(Ricavo questi dati da: J.A. Kairov, O perestroike obscego srednego obrazovanija [Sulla riforma dell’istruzione media generale], in Novaja sistema narodnogo obrazovanija v SSSR  [Nuovo sistema d’istruzione pubblica nell’URSS], Izd-vo Akademii pedagoghiceskich Naùk, Mosca, 1960, pp.66.)
Queste repubbliche dell’Asia centrale, che all’epoca della Rivoluzione d’ottobre erano culturalmente al livello dell’Iran, dell’Afganistan, ecc., superano(..), in percentuali di studenti, paesi occidentali quali l’Inghilterra o la Germania occidentale.
Si può aggiungere che la scuola sovietica ha preparato un’enorme armata (огромная армия) di quasi 7 milioni di specialisti (36 volte più di quanti ne esistevano prima della Rivoluzione) di qualifica media o superiore.






[1] Razvitie sovétskoi skòly (kràtkii istoriceskii océrk) [Lo sviluppo della scuola sovietica (breve lineamento storico)], in Narodnoe obrazovanie v  SSSR [L'istruzione pubblica nel l'URSS], Izd-vo Akadémii Pedagoghiceskich Nauk, Mosca, 1957, 702 pp.


[2] Velikaja oktjabrskaja sotsialisticeskaja revoliutsija i narodnoe obrazovanie [La grande rivoluzione socialista di ottobre e l'istruzione pubblica], nell' op. cit. alla nota precedente, p.9.



 


venerdì 2 giugno 2017

L'UOMO NUOVO SUI BANCHI DI SCUOLA (Chiara Meta)


GRAMSCI E LA FORMAZIONE

La pedagogia di Gramsci, che si configura come filosofia umanistica dell'educazione, è parte integrante della prassi marxista. Negli stessi anni, in URSS, educatori e maestri, tra i quali la N.K.Krupskaja e A.S.Makarenko, cercavano, con l'impostazione e l'interpretazione del collettivo e dell'educazione sociale, una pedagogia della rivoluzione che piuttosto che puntare a una trasformazione antropologica, investisse sulla cultura e la scienza per l'"uomo nuovo" dello stato socialista.
In questo articolo Chiara Meta rende evidente l'estrema attualizzazione della riflessione gramsciana sulla scuola, snodo fondamentale di un possibile rinnovamento sociale, e il collegamento alla filosofia di Marx e alle più generali categorie di Gramsci di analisi politica. (fe.d.)

L’UOMO NUOVO SUI BANCHI DI SCUOLA
di  CHIARA META

dallo speciale de Il Manifesto ‘Il ritorno di Nino’ del 18 maggio 2017

Parlare del ruolo dell’educazione e della scuola oggi alla luce delle considerazioni pedagogiche di Gramsci rappresenta un angolo visuale fruttuoso per comprendere alcuni processi in atto nella società contemporanea, relativi alle forme di scomposizione dei percorsi formativi tradizionali. In particolare il “paradigma” della complessità come strumento analitico, nonché come dispositivo pedagogico, sembra definitivamente archiviato, perché ostacolo rispetto alla velocità che caratterizza i ritmi della comunicazione contemporanea e i tempi (presunti) della comprensione. Eppure una lunga tradizione del pensiero pedagogico ci insegna quanta fatica occorra “per imparare ad imparare”. In un passo del Quaderno 10 Gramsci afferma che “il rapporto pedagogico non può essere limitato ai rapporti specificatamente scolastici”, in quanto esso “esiste in tutta la società nel suo complesso e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra èlite e seguaci, tra dirigenti e diretti”.

ALLA BASE del pensiero pedagogico gramsciano vi è una presa di posizione netta contro le pedagogie della “spontaneità”. Ciò non di meno la posizione gramsciana si sgancia da una prospettiva di pedantesco pedagogismo, in quanto egli stesso evidenzia, il rapporto maestro-allievo non può non puntare sulla libertà di pensiero e di espressione del discente, poiché è l’unica forma di rapporto in grado di sollecitare una nuova figura di filosofo democratico, cioè del “filosofo convinto che la sua personalità
Non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale”.
Si tratta di un pensiero eminentemente “relazionale” che si manifesta in ogni ambito: da quello politico (il concetto di egemonia come costruzione del consenso) a quello pedagogico. Del resto una lunga tradizione (da Maria Montessori a Don Lorenzo Milani) parla di educazione alla libertà. Non si tratta di un invito alla pedagogia della spontaneità.  Sappiamo a quale dura disciplina di lavoro Don Milani sottoponesse i suoi allievi, ma comprendeva anche che senza l’interesse, la partecipazione, non si attiva nessun processo di apprendimento. E ancora prima che la psicologia cognitiva spiegasse l’ “intelligenza delle emozioni”, Montessori  e don Milani ci hanno spiegato che l’educazione  non è l’istruzione,  non è l’apprendimento passivo di nozioni e concetti, ma un processo psico-fisico di educazione alla libertà, intesa come responsabilità.

LA SCUOLA di oggi invece sempre più si configura come il luogo dell’apprendimento basato sull’applicazione di standard valutativi che si inscrivono in un generale processo di “tecnicizzazione” dell’apprendimento. Che ne rimane allora dell’apprendimento come dimensione esperienziale?  Solo tramite un processo di “reciprocità” si dà vero apprendimento. È una consapevolezza che ha una lunga storia, dalle Tesi su Feuerbach di Marx al neoidealismo di Gentile, il soggetto modifica l’oggetto e questo a sua volta retroagisce rimodificando il soggetto stesso. Si tratta di quel processo transitivo di natura e cultura, per dirla con John Dewey, che il razionalismo occidentale ha voluto dividere, costruendo, tramite una logica binaria, tutte le distinzioni-contrapposizioni: razionale/irrazionale, maschile/femminile, natura/cultura ecc.
Occorre invece puntare oggi più che mai a una nuova sintesi e compenetrazione dei saperi, a una ricomposizione delle scissioni. È proprio Gramsci che richiama l’onnilateranismo marxiano, non solo per citare la disarticolazione tra insegnamento teorico e pratico prolungata dalla riforma Gentile del 1923. Per Gramsci si trattava, misurandosi con quella riforma, di raccogliere una sfida che [si ponesse] all’altezza del nuovo tempo, caratterizzato dalla diffusione planetaria del modello di vita e di lavoro della nuova fabbrica fordista.

GUARDANDO a quel mutamento antropologico di massa, egli pensava a un nuovo umanesimo capace di confrontarsi come una fase storica dominata dalla tecnicizzazione delle funzioni intellettuali, e allo stesso tempo che fosse in grado di utilizzare quel mutamento in senso progressivo e democratico, ripensando su basi nuove formazione umanistica e formazione tecnica. Gramsci ha in mente una scuola del “lavoro” e non meramente di “avviamento al lavoro” che possa saldare insieme cognizione e applicazione,  il momento ideativo-elaborativo e il momento applicativo, poiché ogni apprendimento è un processo innanzitutto esperienziale.
A questa emblematica immagine egli affida, in una lettera indirizzata alla moglie Giulia del primo agosto del 1932, l’idea di un uomo nuovo che possa essere un moderno “Leonardo Da Vinci” divenuto uomo-massa o uomo collettivo pur mantenendo la sua forte personalità e originalità individuale”.

È un’eredità importante per una scuola capace di misurarsi con le sfide del nostro tempo.