Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 30 settembre 2020

CITAZIONI per L’ALTERNATIVA PEDAGOGICA di GRAMSCI


L’intenzionalità pedagogica è l’intenzionalita’ della coscienza e per la trasformazione rivoluzionaria del mondo c’è dunque la necessità della formazione di questa coscienza. Non è l’indottrinamento, tipico delle religioni e del senso comune veicolato dalle classi dominanti (dogmatismo) ma la consapevolezza critica l’obiettivo educativo primario. La riforma intellettuale e morale passa dalla scuola, come istituzione sovrastrutturale dell’egemonia. 


“L’alternativa pedagogica” è il titolo di una antologia di scritti sui principi educativi del filosofo e dirigente comunista Antonio Gramsci curata da Mario Alighiero Manacorda, storico della pedagogia e intellettuale marxista. Pubblicata dagli Editori Riuniti per la prima volta nel 1972, essa è stata riedita nel 2012 proprio per l’attualità che i principi pedagogici, le riflessioni sui metodi e la filosofia dell’educazione, in particolare nei “Quaderni dal carcere” e nelle lettere, dimostrano davanti a problematiche costanti che investono la contemporaneità: la scuola come istituzione sovrastrutturale per l’egemonia, l’organizzazione scolastica e della cultura per l’emancipazione delle classi subalterne, la disciplina cosciente dell’educando in funzione dello sviluppo della libera personalità creativa e dell’autonomia morale, conformismo, folclore e senso comune. Gramsci intreccia i temi della formazione a un umanesimo “integrale”, che, secondo Manacorda, delinea il profilo della nuova società socialista dell’”autogoverno dei produttori”, nella critica ai fondamenti dell’attivismo pedagogico e del neoidealismo italiano, confronto che diventa essenziale per comprendere anche le attuali dinamiche che oggi investono la battaglia politica per una strutturale e vera riforma della scuola, storico impegno politico-sociale del PCI e lontana dalle controriforme in atto ormai da troppo lungo tempo in Italia. (fe.d.)


L’interesse pedagogico per il pensiero di Gramsci ha conosciuto una svolta circa mezzo secolo fa. Difatti, nel Convegno di Studi gramsciani di Cagliari, del 1967, sono presenti due sezioni a tematizzazione pedagogica: Educazione e Scuola in Gramsci (con una relazione di Borghi e interventi di Bertoni Jovine, Lombardi, Masucco Costa, Dentice di Accadia); Il problema dell’educazione e l’organizzazione della cultura, con relazioni di Manacorda, Lombardi e Vasoli.

Inoltre, sempre nel 1967, per i tipi degli Editori Riuniti, esce una ponderosa antologia del pensiero di Gramsci intitolata La formazione dell’uomo. Si tratta di una capillare raccolta degli scritti gramsciani inerenti alle questioni formative e scolastiche, a partire da quelli giovanili fino alle Lettere e ai Quaderni. La raccolta è preceduta da un’ampia introduzione del curatore, Giovanni Urbani, intitolata Egemonia e pedagogia nel pensiero di A. Gramsci. (..) 

Sul nesso tra egemonia e educazione, tornerà cinque anni dopo Broccoli, mentre nel 1970 aveva visto la luce l’opera di Mario Alighiero Manacorda su Il principio educativo in Gramsci, la cui interpretazione ruotava però sul nesso tra americanismo e conformismo.


BROCCOLI, ANGELO, 1972, Antonio Gramsci e l’educazione come egemonia, La Nuova Italia, Firenze.

MANACORDA, MARIO ALIGHIERO, 1966, Marx e la pedagogia moderna, Editori Riuniti, Roma. 

ID., 1970, Il principio educativo in Gramsci, Armando, Roma.

 

Nella letteratura pedagogica su Gramsci, il tema industrialista, sviluppato innanzitutto (ma non solo) nelle problematiche pagine del Q. 22 e negli scritti dell’«Ordine Nuovo», ha avuto un’eco non indifferente. Già dalla fine degli anni ’60, prima che il Q. 22 diventasse oggetto di approfondimenti in altri ambiti disciplinari, Manacorda avanzava l’idea secondo cui se una pedagogia gramsciana esisteva, essa andava studiata a partire dalle note sull’americanismo-fordismo. Sicché, il principio educativo del «conformismo [...] dinamico» [Q. 12, p. 1537] e l’anti-spontaneismo gramsciano scaturirebbero dalle meditazioni industrialiste, da leggere «sub specie paedagogiae».

Sebbene in una missiva precedente l’istanza ginevrina fosse già stata bersaglio di una critica [L. 30/07/1929 a Julca], il pedagogista romano si concentra su una comunicazione epistolare del dicembre del ’29 e la considera paradigmatica dell’approdo al volontarismo. Lì Antonio rimprovera alla moglie e alla di lei famiglia una concezione pedagogica «metafisica», la quale presuppone «che nel bambino sia in potenza tutto l’uomo e che occorra aiutarlo a sviluppare ciò che già contiene di latente, [...] lasciando fare alle forze spontanee della natura» e così dimenticando che «l’uomo è tutto una formazione storica, ottenuta con la coercizione». Quindi, «concepire l’educazione come sgomitolamento di un filo preesistente» [L. 30/12/1929 a Giulia] sarebbe errore esiziale, che condurrebbe a modellistiche pedagogiche da rifiutare al pari di quelle definite gesuitiche, proprie della scuola tradizionale e foriere di dispositivi grettamente autoritari, «ipocrit[i] e meccanic[i]» [Q. 12, p. 1536]. Ne viene una collocazione del congegno pedagogico gramsciano affatto «originale», come tentativo di scoprire percorsi educativi altri tanto rispetto all’«autoritarismo» quanto al «libertarismo roussouiano», i quali trovino nello sviluppo storico la propria raison d’être. Quanto alla seconda scelta, spiega Manacorda, il richiamo, in varie occasioni, nelle Lettere, al gioco del meccano ed i dubbi e le oscillazioni sulla sua valenza educativa esemplificherebbero il «problema del rapporto tra la tradizionale cultura e formazione umanistica [...] e la moderna cultura e formazione meccanico-matematica»; alternative, al postutto, parimenti da piegare alla necessità di «conciliare il rigore metodologico [...] della fabbrica e l’apertura mentale [...] della esigenza umanistica». 

Pietro Maltese - Disciplina e conformismo nelle riflessioni industrialiste di Antonio Gramsci

 https://oajournals.fupress.net/index.php/sf/article/download/9266/9264/

 

Il rapporto egemonico-pedagogico può inscriversi tanto in un percorso diretto all’emancipazione dei subordinati, quanto in un quadro orientato al mantenimento della loro subalternità. Ciò premesso, l’opzione di Gramsci è per un rapporto pedagogico dinamico, che pur movendo da una prevalenza dell’elemento coercitivo, lo inscrive in un percorso di emancipazione dei soggetti subalterni, e lo considera perciò solo una tappa necessaria per procedere a una fase successiva, basata sulla preminenza del momento della persuasione e del consenso, a misura del progresso intellettuale e morale realizzato dai soggetti formati. Parallelamente a questa transizione dall’autoritarismo all’autonomia, si pone quella dal dogmatismo alla consapevolezza critica, con lo scopo di giungere, infine, a una piena emancipazione intellettuale e morale. Gramsci opta decisamente per quest’ultima soluzione, come si evince ancora dalla nota Q11, §1:

«Mi pare che storicamente il problema sia da porre in altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale che è giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba) “accelerare” il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali più arretrati [...] può darsi benissimo che sia “necessario ridurre i papuani alla schiavitù” per educarli, ma non è necessario meno che qualcuno affermi che ciò non è necessario che contingentemente, perché esistono determinate condizioni, che cioè questa è una necessità “storica”».

E più sotto aggiunge:

«Che nelle scuole elementari sia necessaria una esposizione “dogmatica” delle nozioni scientifiche [...] non significa che il dogma sia quello religioso [...] Che un popolo o un gruppo sociale abbia bisogno di una disciplina esteriore coercitiva, per essere educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitù».

Materialismo Storico, n° 1-2/2016 (vol. I)

Egemonia e pedagogia. Una critica delle interpretazioni di Gramsci, Massimo Baldacci (Università di Urbino), pag. 15/16 

 

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Nel dodicesimo dei Quaderni del carcere, Gramsci evidenzia come

«Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. »

“In realtà un mediocre insegnante può riuscire ad ottenere che gli allievi diventino più istruiti, ma non riuscirà ad ottenere che siano più colti”. perché la

"Cultura, non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri. (…) Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque voglia.“

“La cultura é organizzazione, disciplina del proprio io interiore; é presa di possesso della propria personalità, e conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri.”

 

Fonte: https://le-citazioni.it/frasi/523414-antonio-gramsci-cultura-non-e-possedere-un-magazzino-ben-fornito-d/





sabato 26 settembre 2020

Ermeneutica ecologica e “fine del mondo”


Il paradigma produttivistico è la degenerazione del paradigma industrialista, dovuto al sistema capitalistico. E’ proprio questa degenerazione che connota il paradigma di civiltà
(in interlocuzione con Edgar Morin, Il paradigma perduto, 2020). 
Esso provoca una mutazione antropologica degli esseri umani, concetto ancora più estensivo di quello pasoliniano, in quanto si esprime, molto prima che nei caratteri permanenti dell’essere biologico, nei caratteri transeunti delle espressioni culturali.
“il mito umanista dell’uomo sopra-naturale si è ricostituito al centro stesso dell’antropologia, e l’opposizione natura/cultura ha preso forma di paradigma, cioè di modello concettuale”.
“La natura non è più disordine, passività, ambiente amorfo: è una totalità complessa. L’uomo non è più un’entità chiusa in rapporto a questa totalità complessa: egli è un sistema aperto in rapporto di autonomia/dipendenza organizzatrice in seno a un ecosistema”
Edgar Morin, Il paradigma perduto, ed. Mimesis, 2020, pp.22 e 32.

- L’APOCALISSI prossima ventura: e se “la fine del mondo” (de Martino) fosse interpretata anche come crisi di un paradigma di civiltà, il collasso dell’ecosistema come psicopatologia dell’umano, indotto dalla degenerazione dell’industrialismo propria del capitalismo e dall’’arcano” della mercificazione? ~ fe.d.




giovedì 24 settembre 2020

Mutazione antropologica e paradigma produttivistico: il caso-Taranto e l'analisi marxista

 

settembre 2020 

riprodotto in Academia.edu

https://www.academia.edu/44164269/Mutazione_antropologica_e_paradigma_produttivistico_il_caso_Taranto_e_lanalisi_marxista



excerpt from publication - stralcio


Chi parlerà di voi uomini rossi
senza età senza bestemmie?
Chi parlerà dei vostri Natali
accanto alla ghisa lontano dai canneti
ove vivono gli ultimi gabbiani?
Pasquale Pinto è solo un uomo
costantemente denunciato
dai rivoli delle vostre fronti

Pasquale Pinto, Il capo sull’agave, Edizioni Centro sociale Magna Grecia Taranto, 1979

Pasquale Pinto, poeta-operaio, (1940/2004)

Il caso-Taranto e la produzione di acciaio dell'industria "pesante" a ridosso del centro abitato di una città con tutt'altra vocazione produttiva, e che deve subire l'aggressione all'ambiente e alla salute di lavoratori e cittadini, chiama in causa diversi piani di analisi intrecciati tra di loro: il piano politico e sociologico, come quello economico e finanche antropologico. E', cioè, la crisi di un vero e proprio paradigma legato indissolubilmente al modello di civiltà industrialista e al sistema capitalistico e ai suoi dis/valori. Da un altro versante, chi quel modello di civiltà e quel sistema mette in discussione, la cultura politica marxista in primis, per molto, troppo tempo, ha preferito una lettura positivista del paradigma (modello di civiltà e sistema) consistente in una visione quantitativa piuttosto che qualitativa: laddove si forma una classe operaia consistente e numerosa, lì si sviluppa l'antagonismo conflittuale necessario alla trasformazione rivoluzionaria. Il caso-Taranto dimostra, per di più e ancora una volta, che non è così.

La distruzione del retroterra socio-culturale non è specifico di Taranto, ma dell’intero sistema del profitto capitalista della in-civiltà industriale su cui basa l’intera sua impalcatura finanziaria e speculativa. Non bisogna replicare con una nostalgia passatista fuori tempo, come alcune venature della sensibilità ambientalista dell'ecologia radicale, ma la constatazione che questa in-civiltà, così ben analizzata da Marx, ha come conseguenza una mutazione antropologica degli esseri umani. E’ necessario un doppio sguardo per svelarne la natura: la critica al "sistema" e al "modello di civiltà industrialista" di matrice positivistica, deterministica e quantitativa. L’espressione “mutazione antropologica” è di Pier Paolo Pasolini (Sollazzo,2016) e, come categoria interpretativa, appartiene al piano filosofico, esistenziale e antropologico. Ciò che può cogliersi dall’officina poetica e politica pasoliniana, è che la critica alla società borghese deve cogliere l’onnipervasita’ dei suoi dis/valori in crisi di legittimità, non solo in termini di classe, perché concernono una modificazione della natura umana permanente, sebbene questa trasformazione avvenga in senso culturale. Il nodo è però marxiano: reificazione e alienazione, “arcano” della merce, estraneazione come spossessamento non solo del prodotto, ma della stessa relazione intersoggettiva, sono tratti distintivi del sistema capitalista, e, se si analizzano come “modello di civiltà“ , costituiscono un “paradigma” (modello+sistema) [1] che deve essere trasformato strutturalmente e sovrastrutturalmente, in senso rivoluzionario; rimandano anche al necessario nuovo umanesimo che de Martino tracciava come escatòn (riscatto) di fronte alla possibile apocalissi.

- Il capitalismo modifica incessantemente l’essere umano, ne determina una mutazione antropologica: nella sua forma industrialista, che connota una fase della “formazione economico-sociale” (Luporini,1977) tende alla mercificazione, che si allarga alle relazioni umane. Il feticismo delle merci diventa simbolo (feticcio) dell’alienazione stessa, conseguenza di una reificazione globale. Il solo sguardo economico e “”scientifico”, non basta, e un materialismo ‘volgare’ degrada nell’economicismo e nel positivismo, feticismo ‘rovesciato’. E’ necessario, appunto, un doppio sguardo per svelarne la natura. E' la lezione del Marx del 'general intellect', è il Gramsci della "riforma intellettuale e morale" per la società "autoregolata". (note Marx, Gramsci, ad nomen). 

[...]

Se un Sud esiste, è perchè è il Sud del capitale. Diversamente, l'unica legittimità viene dalla sfera sovrastrutturale: le differenze sono culturali, di tradizione etnica, ecc.., ma ciò non differenzia, semmai unisce i popoli, quando non interviene la secessione cancerosa dei processi capitalistici. Nel gioco dei centri concentrici, come tentò di avvertire il migliore Andrè Gunder Frank degli anni '70 a proposito del 'lumpenproletariat' dell'America Latina (A.G.Frank,1971),  il capitale ha sempre bisogno di un Sud. Il 'Sud del mondo' non lo troverete in alcuna cartina geografica, ma semmai inscritto nel codice genetico di un capitalismo che può cambiare le sue 'forme' (monopolistico/trans-nazionale, ecc..), mai i fondamenti della sua struttura e questo perchè ha la capacità, in quanto egemone, di piegare ogni innovazione alla funzionalità del suo sistema, non solo convivendo, ma addirittura alimentandosi con la crisi quando le forze soggettive antagoniste non riescono a organizzare una lotta di classe che ponga all'ordine del giorno la questione del potere e dei poteri e di un nuovo paradigma, non genericamente 'ambientale' e 'compatibile', ma risultato di un umanesimo nuovo, quello della qualità dei rapporti umani e degli esseri umani con la natura esterna ad essi.

Ci spetta d'indagare con la stessa metodologia con cui Gramsci indagava l'americanismo e il fordismo (A.Gramsci, note ad nomen): la caduta del saggio di profitto costringe il capitale ad un profondo rivolgimento dell'ordinamento sociale, ordinamento su cui aveva realizzato la precedente forma di egemonia; tutt'uno con la 'rivoluzione passiva', la modernizzazione neocapitalista è la stessa barbarie del protoindustrialismo. Il presupposto su cui si basa è la mercificazione, l'omologazione. Queste ancelle del capitalismo, proto e neo, entrano comunque nelle basi del nuovo modello, basi che si ritrovano non nell'empireo della teoresi del paradigma, ma nel fuoco delle officine. Certo anche Gramsci, anzi, soprattutto Gramsci, era consapevole della difficoltà a cogliere il nesso articolato di economia e politica in occidente per le forze del movimento operaio, se non si dialettizza correttamente l'analisi della struttura e lo spessore funzionale della sovrastruttura.

[1] Il dibattito sul "paradigma" industrialista all'interno del "pensiero della complessità" per un diverso modello di civiltà ecologico, è stato rilanciato di recente da Edgar Morin, Il paradigma perduto. Che cos'è la natura umana?, Mimesis, 2020. Nell'ottica di un confronto con il marxismo, in questa traccia di ricerca non deve esserci però la costante pretesa di un "superamento" dello stesso, piuttosto  un fecondo incontro sulla base dei fondamenti  teorici e delle conseguenti prassi politiche da condividere. Sul rapporto "paradigma" e "mutazione antropologica" (in un significato ancora più estensivo rispetto all'utilizzo pasoliniano del termine) si veda anche la raccolta di saggi  Paradigma antropologico di Arnold Gehlen , a cura di M.T.Pansera, Mimesis, 2005. 





giovedì 17 settembre 2020

Imbarbarimento culturale e classi subalterne - intorno ad un dibattito storico

 

L'imbarbarimento dell'italiano 

Glauco Sanga 

La Ricerca Folklorica

No. 3, Antropologia visiva. Il cinema (Apr., 1981), pp. 85-90 (6 pages)


JSTOR jstor.org

https://www.jstor.org/stable/1479461?read-now=1&seq=1#page_scan_tab_contents

https://www.jstor.org/stable/1479461

Il saggio di Ernesto de Martino Intorno a una storia del mondo popolare subalterno pubblicato sul nr.3 di Società del 1949 , oltre ad essere preceduto da un distinguo di Cesare Luporini ("Anche se non possiamo far nostre alcune delle tesi e interpretazioni qui presentate - che ci ripromettiamo di discutere e invitiamo a discutere -") suscitò un dibattito a più voci, multidisciplinare nonchè repliche dell'autore, poichè toccava temi che, sulla traccia indicata da Gramsci, allora diventarono cruciali, specie tra le fila del PCI, come i rapporti tra cultura, intellettuali e classi subalterne, la relazione tra il popolo, le sue espressioni folcloriche e l'"alta cultura" (espressione comunque di élite dirigenti) e in generale tra il marxismo e i suoi strumenti di analisi, il confronto con lo storicismo e l'idealismo, la nozione stessa di "folclore progressivo", che sottendeva anche quello fra evoluzione-emancipazione storico-politica delle classi popolari e le tradizioni sedimentate nei propri gruppi di appartenenza come espressione spontanea, collettiva e creativa, nello stesso tempo resistente al dominio di classe e/o di supina accettazione di esso. 

L'"irruzione" nella storia della cultura popolare era destinata ad imbarbarire la " superiore" cultura dei dotti ed eruditi? , quella che comunque si rapportava, interloquiva, polemizzava, con una visione del mondo alternativa, radicalmente storico-materialista e progressiva. Il meridionalismo come progressismo rispetto a civiltà "arretrate", chiuse tra spinte ribellistiche e rassegnata passività subalterna, come nelle plebi del Mezzogiorno d'Italia. Rapporti di produzione e coscienza sociale, trasformazione rivoluzionaria e cancellazione dell'identità culturale, in un lessico moderno. 

Il dibattito incrociava le categorie di senso comune e filosofia spontanea di Gramsci, il folclore come "relitto" di una visione del mondo dei semplici (Q.XXVII: [il folclore quale] "agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia", cfr. ed. Gerratana, Einaudi, 1975, pp. 679-680, 1105, 2309-2117), la duplicità della religione cattolica come Giano bifronte (si potrebbe dire, la teologia patristica e scolastica per le anime che ascendono alla teoresi o le encicliche papali e il catechismo liturgico per la devozione popolare). 

De Martino, storico delle religioni, etnologo di formazione storicista, è cosciente dei temi in questione e dell'interpretazione gramsciana negli scritti in pubblicazione (per l'editore Einaudi, a cura di Felice Platone, Lettere dal carcere, 1947, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 1948, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, 1949, Il Risorgimento, 1949, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno,1949) come della coeva ricerca dell'etnologia sovietica, mentre i suoi interlocutori sembrano debitori chi di una visione deterministica e neopositivistica del marxismo fondata sulla categoria di progresso e di rivoluzione come passaggio ad uno stadio "più avanzato" di civiltà, capace di spazzar via per sempre i "relitti" della cultura popolare subalterna, l'arcaico e il primitivo, il mondo magico e irrazionale; e chi del ruolo organico dell'intellettuale, organico al partito e ai suoi gruppi dirigenti, alla contingente linea politica e alle classi di riferimento, contadini e operai. 
 E' Luporini, in particolare, a insistere sul ruolo di guida della classe operaia, sulla rottura epocale della rivoluzione d'Ottobre del '17, su una dimensione politica dello scienziato e dell'uomo di scienza marxista, sulla dialettica tra la "riforma popolare moderna" che de Martino aveva richiamato da Gramsci e le sedimentazioni delle passate culture da parte del "mondo popolare subalterno". Una discussione, quella tra il filosofo e l'etnologo, che, contestualizzando storicamente l'analisi, merita, ancor oggi, un approfondimento specifico. 

Intervennero, tra gli altri, direttamente o implicitamente sui temi connessi all'articolo di de Martino, Ernesto Ragionieri (1949), Antonio Banfi (1949), Ranuccio Bianchi Bandinelli (1950), Alberto M. Cirese (1950), Cesare Luporini (Intorno alla storia del "Mondo popolare subalterno" in Società a.VI nr.1-1950 e la replica ancora di E. de Martino Ancora sulla storia del mondo popolare subalterno e nota in calce di Cesare Luporini, in Società a.VI nr.2-1950), Franco Fortini (1950), Raffaello Franchini (1950), Cesare Pavese (1950). 

- La ricostruzione in P.Clemente, M.L. Meoni, M.Squillacciotti, Il dibattito sul folklore in Italia, Milano, 1976 e antologia di testi anche successivi sulla stessa traccia in Cultura popolare e marxismo (a cura di R.Rauty), Ed.Riuniti, 1976. 

Merito di questo saggio (tra gli altri, perchè c'è anche il fondamentale tema del linguaggio e della sua trasformazione dai significati colti alle espressioni del volgo) di Glauco Sanga è di aver ricostruito il senso del dibattito e quindi reso possibile una sua riattualizzazione, oggi alla luce dei "Subaltern Studies" e della globalizzazione capitalista, così come del compito rivoluzionario della trasformazione di un "paradigma", quello industrialista e della mercificazione, del denaro come feticcio, che tende alla mutazione antropologica nell'annientamento delle specifiche culture dei popoli. 

1. L'imbarbarimento della cultura

2. Il programma gramsciano di De Martino

3. La cultura come pregiudizio

4. Una lettura antropologica

5. L'italiano popolare

Interventi

Riferimenti bibliografici

Comunicazione presentata al XIV Congresso della Società di Linguistica Italiana "Linguistica e antropologia" (Lecce, 23-25 maggio 1980)

il saggio di De Martino, (1949) è in

https://www.academia.edu/43738868/Ernesto_de_Martino_Intorno_a_una_storia_del_mondo_popolare_subalterno_1949

con presentazione di Ferdinando Dubla

Ernesto de Martino - Cesare Luporini, Ancora "Sulla storia del mondo popolare subalterno", in Società 6. (1950) nr.2 pp.306/312 è in

http://www.etesta.it/materiali/2014_2015_DM_Luporini_1950.pdf


Ernesto de Martino (1908/1965)

Antonio Gramsci (1891/1937)

Cesare Luporini (1909/1993) 


lunedì 7 settembre 2020

il Gramsci di Alessandro Leogrande


"La sua forza deriva dall’essere stato l’interprete di un peculiare laboratorio della società capitalistica, in cui centri dell’impero e periferie terzo-mondiali convivono all’interno degli stessi confini nazionali."

pubblicato su Orwell e Minima & Moralia, novembre 2012

“Gramsci è un classico, un autore che non è mai di moda eppure viene letto sempre”. La frase di Fernandez Buey è riportata da Eric Hobsbawm in un saggio su Gramsci contenuto in uno dei suoi ultimi libri, apparso in Italia da Rizzoli appena un anno fa: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo. Hobsbawn è stato tra più attenti interpreti della “Gramsci Renaissance”, quel singolare fenomeno di ricezione globale protrattosi nell’ultimo trentennio, a molti apparso sempre più strano dopo la crisi (politica) del socialismo e (filosofica) del marxismo. Eppure Hobsbawn aveva colto appieno cosa rendeva il pensiero di Gramsci tanto attraente, nonostante l’inattualità di molte sue parti: innanzitutto, scriveva, egli è stato uno dei rari esempi di pensatore marxista in cui riflessione teorica e azione politica (culminata nei lunghi anni del carcere) si sono intrecciati strettamente tra loro. Se si escludono gli artefici della rivoluzione russa e Rosa Luxemburg, questa unione di pensiero e azione rivoluzionaria non ha certo riguardato Lukács, Korsch, Althusser, Marcuse e tanti altri.


Ma non si tratta solo questo. Proprio perché italiano (e sono molte le pagine che Hobsbawn ha dedicato all’Italia, tra le sue più belle), Gramsci non era pienamente “occidentale”. La sua forza deriva dall’essere stato l’interprete di un peculiare laboratorio della società capitalistica, in cui centri dell’impero e periferie terzo-mondiali convivono all’interno degli stessi confini nazionali. Insomma Gramsci non sarebbe stato Gramsci se non fosse stato sardo, se non avesse toccato con mano la fame, la miseria, la sofferenza degli esclusi dalla Storia, e se non avesse avuto sotto gli occhi quella strana intelaiatura socio-politica che è l’Italia, quel singolare modo di fare e disfare il potere, i poteri.

Date queste premesse, il suo maggior contributo è nell’aver elaborato una teoria della politica e, in particolare, dello Stato: quella cosa che – in un’epoca in cui il capitalismo si rigenera provocando crisi devastanti – appare quanto mai oscuro, inafferrabile, apparentemente inutile eppure decisivo.

Mentre in Italia la “Gramsci Renaissance” ha prodotto una miriade di saggi e volumi concentrati sul periodo carcerario, i rapporti con la curia moscovita e Togliatti, la stesura dei quaderni e delle lettere (ne cito alcuni tra quelli usciti nell’ultimo anno: I due carceri di Gramsci di Franco Lo Piparo, Vita e pensiero di Antonio Gramsci di Giuseppe Vacca, Gramsci in carcere e il fascismo di Luciano Canfora…), altrove è la riflessione sul “politico” a essere recuperata con forza (si veda, ad esempio, il volume a più voci Studi gramsciani nel mondo. Gramsci in America Latina, il Mulino, o il vastissimo dibattito all’interno del mondo accademico indiano).

Scriveva ancora Hobsbawn in Come cambiare il mondo: “Al pari di Machiavelli, egli è un teorico di come le società andrebbero fondate e trasformate, non dei dettagli costituzionali, per non dire delle minuzie che preoccupano i corrispondenti parlamentari”. Era questa per Gramsci la linea discriminante tra “grande politica” e “piccola politica” tanto che non è difficile dire: a) il racconto e l’analisi di quale tra le due siano oggi diventati nettamente dominanti; b) quanto questo trionfo del chiacchiericcio politico su ogni forma di teoria critica della politica sia funzionale al mantenimento dello status quo.

Le riflessioni gramsciane su Machiavelli sono raccolte in un libro a cura di Carmine Donzelli, Il moderno principe, recentemente ristampato con un nuovo saggio introduttivo del curatore. In tanti si sono affannati su queste fitte pagine (il famoso Quaderno 13) per stabilirne il rapporto con la “differenza” del Pci rispetto al modello sovietico, e verificare se tale eterodossia avesse effettivamente un suo fondamento in Gramsci o, al contrario, nella sua neutralizzazione. Un dibattito ancora aperto, a giudicare dalla mole dei titoli usciti di recente… Della centralità dell’autore dei Quaderni negli sviluppi della nostra filosofia politica parla invece Dario Gentili in The Italian Theory (il Mulino). Uno dei fili conduttori del pensiero nazionale sarebbe proprio la continua interrogazione su Machiavelli, attraverso la lente – più o meno passata al vaglio della critica – di colui il quale riteneva che l’allargamento dell’indagine sul “politico” non si sarebbe mai potuto disgiungere da una attenzione sempre maggiore alle condizioni di vita e alla cultura delle “classi subalterne”. E qui siamo tornati al punto di partenza. Come aveva notato Hobsbawn, è proprio questo intreccio militante a mantenere aperta la riflessione e a segnare un’ideale linea di resistenza in un’epoca buia.

Alessandro Leogrande (1977/2017)

Antonio Gramsci (1891/1937)



mercoledì 2 settembre 2020

MUTAZIONI PASOLINIANE e strumenti analitici per un cambio di “paradigma“


- L’espressione “mutazione antropologica” è di Pier Paolo Pasolini, e, come categoria interpretativa, appartiene al piano filosofico, esistenziale e antropologico. Ciò che può cogliersi dall’officina poetica e politica pasoliniana, è che la critica alla società borghese deve cogliere l’onnipervasita’ dei suoi dis/valori in crisi di legittimità, non solo in termini di classe, perché concernono una modificazione della natura umana permanente, sebbene questa trasformazione avvenga in senso culturale. Il nodo è però marxiano: reificazione e alienazione, “arcano” della merce, estraneazione come spossessamento non solo del prodotto, ma della stessa relazione intersoggettiva, sono tratti distintivi del sistema capitalista, e, se si analizzano come “modello di civiltà“ , costituiscono un “paradigma” (modello+sistema) [+] che deve essere trasformato strutturalmente e sovrastrutturalmente, in senso rivoluzionario; rimandano anche al necessario nuovo umanesimo che de Martino tracciava come escaton (riscatto) di fronte alla possibile apocalissi.
 
[+] Il dibattito sul "paradigma" industrialista all'interno del "pensiero della complessità" per un diverso modello di civiltà ecologico, è stato rilanciato di recente da Edgar Morin, Il paradigma perduto. Che cos'è la natura umana?, Mimesis, 2020. Nell'ottica di un confronto con il marxismo, in questa traccia di ricerca non deve però esserci la costante pretesa di un "superamento" dello stesso, piuttosto un fecondo incontro sulla base dei fondamenti teorici e delle conseguenti prassi politiche da condividere. Sul rapporto "paradigma" e "mutazione antropologica" (in un significato ancora più estensivo rispetto all'utilizzo pasoliniano del termine) si veda anche la raccolta di saggi Paradigma antropologico di Arnold Gehlen , a cura di M.T.Pansera, Mimesis, 2005.

Trovo questo articolo di Federico Sollazzo molto bello e interessante a proposito del tema pasoliniano, e questa mia recensione tende a renderlo interno ad una concezione olistica della ‘filosofia della prassi’. ~ fe.d.



Pier Paolo Pasolini (1922/1975)