Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 26 novembre 2021

GRAMSCI E IL MONDO POPOLARE SUBALTERNO

 

di Carla Pasquinelli

 

Si è già ricordato come De Martino abbia partecipato al movimento dell’occupazione delle terre da parte dei poverissimi braccianti del Meridione e come dopo la sconfitta di quella stagione di lotte abbia continuato a occuparsi della Questione meridionale. Ai popoli primitivi egli accosta adesso le classi popolari e le plebi rustiche delle campagne del Sud che rivendicano il proprio accesso alla storia per “rovesciare l’ordine che le tiene subalterne”, come aveva vigorosamente affermato sulle pagine di “Società” nel 1949 in un articolo che suscitò polemiche e riserve tanto a destra che a sinistra.


Ernesto de Martino, "Intorno a una storia del mondo popolare subalterno",1949

https://www.academia.edu/43738868/Ernesto_de_Martino_Intorno_a_una_storia_del_mondo_popolare_subalterno_1949

A scandalizzare era stato tra l’altro l’accostamento irriverente e profetico, per quegli anni, tra la lotta dei popoli del Terzo Mondo e quella delle classi subalterne della società capitalistica occidentale.

Un anno dopo vengono pubblicate le Osservazioni sul folclore di Gramsci che permetteranno a De Martino di riprendere da una prospettiva più ampia la riflessione sulla cultura popolare. Secondo Gramsci il folklore non va visto come un “elemento pittoresco “ o “curiosità erudita”, bensì è cosa “ molto seria e da prendere sul serio”. É infatti “una concezione del mondo e della vita, implicita in larga misura di determinati strati della società in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica,oggettiva) con le concezioni del mondo “ufficiali” (o in senso più largo delle parti colte della società) che si sono successe nello sviluppo storico” +(Gramsci, 1975, p.2311)+.

In questo brano così denso si intuisce la presenza di un concetto di cultura che, sebbene non venga espresso nel linguaggio dell’antropologia, emerge tra le righe soprattutto in quel carattere “implicita” e “oggettivo” che, come scrive immediatamente dopo, costituisce “ un insieme determinato di massime per la condotta pratica e di costumi che ne derivano o le hanno prodotte” un sostrato muto “che ha la stessa energia di una forza materiale o qualcosa di simile”. Questa idea del folklore come concezione del mondo delle classi subalterne va ricollegata all’indipendenza e all’autonomia che ha la società civile nella riflessione di Gramsci. In alcune delle pagine più note dei Quaderni del carcere troviamo un paragone tra la Russia pre rivoluzionaria e il resto d’Europa, che dimostra come la strategia fondata sulla guerra di manovra, che aveva portato alla vittoria della Rivoluzione di Ottobre nel 1917, non avrebbe potuto essere applicata in Europa a causa del diverso rapporto tra Stato e società civile. Mentre “ in Oriente lo Stato era tutto, e la società civile era primordiale e gelatinosa”, per cui era bastato l’assalto al Palazzo d’Inverno perché i rivoluzionari comunisti conquistassero il potere, in Occidente occorre invece una strategia diversa, “ una guerra di posizione “ a causa della “robusta struttura della società civile”. Per Gramsci lo Stato è solo una “ trincea avanzata dietro cui sta una robusta catena di fortezze e casematte”, che richiede una penetrazione capillare nel tessuto sociale che lo trasformi dall’interno sui tempi lunghi. Tra queste casematte rientra anche il folklore, con la sua arretratezza, “conservativa e reazionaria”, ma anche con caratteristiche innovative, “spesso creative e progressive”, che vanno valorizzate ai fini non solo di una migliore comprensione della società meridionale, ma anche della sua trasformazione in senso progressivo.

 

+ Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 1975+

da PASQUINELLI, MELLINO , Cultura - Introduzione all’antropologia, Carocci, 2017, pp.210/211


Antonio Gramsci (1891/1937)

scheda a cura di 






giovedì 25 novembre 2021

THE THIRD-WORLD WOMAN: l’agency della soggettività femminile autonoma e subalterna

  

 Can the subaltern Speak? della  Gayatri C. Spivak  letto da Miguel Mellino


Gayatri Chakravorty Spivak’s essay “Can the Subaltern Speak?” is one of the key theoretical texts in the field of postcolonial studies, by one of its most famous figures. It was first published in the journal Wedge in 1985, as “Can the Subaltern Speak?: Speculations on Widow Sacrifice”; reprinted in 1988 as “Can the Subaltern Speak?” in Cary Nelson and Larry Grossberg’s edited collection, Marxism and the Interpretation of Culture; and revised by Spivak as part of her “History” chapter in A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present, published in 1999.




Diversamente da Bhabha, Spivak cerca di gettare le basi di una critica postcoloniale, del progetto di una contro-storia anticoloniale, non tanto inseguendo una qualche traccia positiva del Subalterno nei diversi archivi coloniali, bensì dichiarando sin dall’inizio proprio l’impossibilità di portare a compimento una strategia di questo genere. Dal suo punto punto di vista, gli archivi storici e culturali occidentali non possono affatto contenere alcuna traccia della voce autentica (della resistenza, della parola, dell’agency) del vero subalterno-coloniale: dato che ciò che abbiamo al loro interno sono soltanto delle rappresentazioni di tale alterità. Occorre partire da questo presupposto per comprendere una delle sue affermazioni più note “ il subalterno non può parlare” (Spivak 1988,p.310). In effetti, nel suo Can the Subaltern Speak? (1988) Spivak ci propone una lettura femminista della storia coloniale in cui la reale figura della subalternitàun concetto ripreso in modo piuttosto originale dalle teorie di Gramsci- è costituita dalla “ donna del terzo mondo”. Prendendo spunto dalle vicissitudini coloniali tra le autorità britanniche e i nativi indiani sul fenomeno del rito della sati, Spivak suggerisce di pensare the third-world woman alla stregua di un significante, di un effetto discorsivo vuoto e fluttuante, nel senso che lungo la storia tutti (patriarcato locale, imperialismo, femminismo occidentale), tranne se stessa, hanno potuto parlare per lei. Attraverso tali espressioni, ciò che Spivak tenta di dirci è che la donna non-occidentale, subalterno tra i subalterni, è stata scritta e ri-scritta  tanto dalle società patriarcali locali quanto dall’imperialismo e anche dal femminismo occidentale senza aver mai raggiunto lo status di una piena soggettività autonoma. 

Dobbiamo precisare però che le sue conclusioni si fondano sull’analisi storica di un caso particolare:quello della Rani (regina) di Sirmur (regione della parte meridionale dell’ Himalaya). Si tratta della vicenda della moglie di un Rajah locale deposto dai britannici nei primi decenni del XIX secolo a causa dei suoi apparenti costumi “ barbari e dissoluti” che decide di disubbidire alle disposizioni delle autorità imperiali comunicando loro la sua volontà di farsi bruciare viva sulla pira alla morte del marito. Scandalizzati dalle intenzioni della regina di voler sottomettersi a un costume così “primitivo” e “selvaggio”, i funzionari tentano di dissuaderla dal suicidio. Il desiderio della Rani di diventare una sati- la pratica venne dichiarata illegale dall’Impero britannico nel 1829 con il beneplacito della borghesia indiana illuminata- non si è mai avverato, ma agli occhi di Spivak il suo caso appare sintomatico sia della condizione o dell’agency dei subalterni, sia della loro “assenza” all’interno dei registri storici o degli archivi ufficiali. Le tracce puramente fugaci e del tutto frammentarie lasciate dalla Rani (non si sa nemmeno il suo nome) nei documenti coloniali ci ricordano in modo eloquente che la soggettività dei veri subalterni non ha trovato posto (e certamente non ne può trovare) all’interno degli apparati discorsivi dominanti,che non fanno che riprodurre una visione del mondo del tutto estranea alle forme della loro “coscienza”. Così, Spivak ci chiede di pensare, alla stregua di questa sati mancata- contesa tra il patriarcato locale, l’imperialismo e il femminismo occidentale- a tutte “ le più povere donne del Sud”: chiunque nella storia ha potuto (e può tutt’ora) parlare per loro tranne loro stesse. É questo il motivo per cui la soggettività di queste donne non potrà mai venire fuori dai documenti storici. In sintesi, per Spivak, non è che i subalterni non abbiano parlato o non abbiano espresso forme di resistenza al dominio colonialista o al patriarcato locale, bensì i regimi discorsivi dominanti,per via di apparati concettuali unilateralmente selettivi,non sono riusciti ad ascoltare o a registrare la loro “voce”. Il silenzio delle donne subalterne nei documenti coloniali o nelle “storie ufficiali”,dunque, è soltanto la conseguenza di ciò che Spivak chiama un “fallimento cognitivo irriducibile” +(Guha, Spivak 2002,p.106)+ di vuoto originato dallo scontro o dall’incomunicabilità, per così dire, tra due universi di senso piuttosto diversi: quello dominante e quello subalterno . Se facciamo nostra questa ipotesi, sostiene l’autrice indiana, il primo compito di cui l’intellettuale postcoloniale o l’emergere della loro voce più autentica all’interno dei saperi occidentali moderni. Solo dopo una simile “frattura epistemologica” saremo in grado di leggere le vere forme di resistenza dei ceti subalterni,che per Spivak sembrano manifestarsi più attraverso pratiche e atteggiamenti “negativi”, ovvero mediante il “rifiuto” esplicito e/o implicito degli status e dei ruoli riservati loro dalla versione egemonica del mondo necessariamente più attraverso le vie dell’ exit - della “sottrazione”, “della defezione ”, dell’ “evasione” e dell’ “insurrezione spontanea” - che non attraverso quelle della voice  o “presa di parola” chiaramente esplicita o discorsiva. È così che la soggettività subalterna appare a Spivak come qualcosa di “irriducibilmente storico”, fluttuante, instabile, assente, dislocato, locale, incoerente e molteplice. E quindi come qualcosa di profondamente “intraducibile” e “irrecuperabile”. 

 

+ Guha, Spivak, Modernità e (post) colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra, Ombre Corte, 2002+

 

da PASQUINELLI, MELLINO , CULTURA - Introduzione all’antropologia, Carocci, 2019 (1^ ed. 2017),

par.16.7, pp. 269/271 

 

 


Gayatri Chakravorty Spivak (Calcutta,1942) al Goldsmiths College di Londra nel 2007


scheda a cura di 


lunedì 22 novembre 2021

GRAMSCI a FORMIA: subalternità e margini della storia (da Angelo D'Orsi, Gramsci.Una nuova biografia)

 

da Angelo D'Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, 2017

[con approfondimenti bibliografici]

 

1.Il folclore e i subalterni

2. Il quaderno dei margini della storia

3. Tradizione-modernità, subalternità-egemonia. Il lavoro di Chambers 

 

 Titoli rinominati redazionalmente per argomenti

 

1. Il folclore e i subalterni

 

- Nella stagione di Formia, l’elaborazione di Gramsci risulta decisamente originale, secondo qualcuno, forse persino più originale che in passato, e difficile tuttora da classificare, comunque impossibile da canonizzare. Rimaneva certamente predominante l’impulso a occuparsi di aspetti culturali, quelli con i quali si poteva costruire l’egemonia degli oppressi, sgominando quella degli oppressori, per riprendere la coppia che il giovane Gramsci aveva reso protagonista di un lontano componimento scolastico, ai tempi del liceo cagliaritano (1.). Ma ora un’altra categoria aveva aggiunto al suo paniere teorico, quella dei “gruppi subalterni”, destinata a enorme fortuna, oggi forse la prima molla del “successo” gramsciano nel mondo. Aveva già introdotto, in precedenza, il concetto di “senso comune”, come s’è detto, che con il contiguo “buon senso” ha contaminazioni e connessioni con folclore, cultura popolare, religione, intellettuali, e così via. Tematiche “sovrastrutturali” come si vede, ciascuna delle quali meriterebbe un approfondimento. Un cenno merita almeno il folclore, una questione decisamente innovativa nell’ambito del marxismo, e che è sicuramente “elemento costituente del sistema teorico gramsciano”, che attraversa tutta l’esistenza e la ricerca dalla prima giovinezza in avanti. Quella di Gramsci è “un’attenzione non limitata alla pura registrazione del fatto folclorico, ma si configura anche come indagine critica e abbozzo di riflessione teorica”, già negli scritti giornalistici (2.). Negli anni del carcere, l’indagine si fa più accurata e meno episodica: il folclore viene da lui analizzato come concezione del mondo delle classi subalterne, in contrapposizione a quella delle classi dominanti; ma si tratta di un insieme disorganico e disgregato, che ha bisogno di organizzarsi, strutturarsi, per giungere a rovesciare il rapporto di dominio subìto. Come è stato scritto Gramsci è il solo della sua epoca a connettere intellettuali e popolo, a dare ai primi il ruolo di lievito del secondo, e nel contempo a riconoscere l’importanza del folclore, storicizzandolo, avvertendo la “necessità di spogliare l’uomo dai suoi abiti pittoreschi e bizzarri”, trasformando “l’uomo folclorico”, come lo chiama, in “uomo storico” (3.). Egli si distingue dagli studiosi coevi, che non colgono il complesso dei fatti folclorici “nel contesto del legame quotidiano con la fatica e il lavoro”: secondo Gramsci si guarda al folclore solo in termini di curiosità da appagare, per forme “folcloristiche”, più che “folcloriche”, le quali vengono quindi accettate soltanto come tali. Dunque il folclore come manifestazione di arretratezza sociale e indigenza culturale, ma anche un possibile punto di partenza per quelli che a un certo punto cominciò a chiamare “subalterni”, sostituendoli al proletariato e alla classe operaia. Anche il folclore è una concezione del mondo e come tale va studiato (4.). E questi strati “marginali”, privi di coscienza di sé, possono, nella sua visione, raggiungere livelli superiori di cultura, diventare protagonisti, acquistando consapevolezza politica e, attraverso di essa, contribuire a cambiare lo stato delle cose.

 

note

1. Gramsci Antonio.Cfr. Oppressi ed oppressori: SP, vol. I, pp. 3-5; SL, pp. 115-118; MP, pp. 35-38. SP = Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, 2 voll., l’Unità, Editori Riuniti, Roma 1967. SL = Scritti dalla libertà (1910-1926), a cura di Angelo d’Orsi e Francesca Chiarotto, Editori Riuniti, Roma 2012. MP = Masse e partito. Antologia. 1910-1926, a cura di Guido Liguori, Editori Riuniti, Roma 2016.

2. BONINELLI 2007, p. 177. BONINELLI, GIOVANNI MIMMO 2007, Frammenti indigesti. Temi folclorici negli scritti di Antonio Gramsci, Carocci, Roma.

3. Ivi, p. 178. 

4. G.M. Boninelli, “Folclore/folklore”, in Dizionario, pp. 319-322 (321). Dizionario = Dizionario Gramsciano. 1926-1937, a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza, Carocci, Roma 2009.


da Angelo D’OrsiGramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, 2017,

[pag.347/348] [note da 19 a 22]

 


2. Il quaderno dei margini della storia

 

(..) alla ricerca di sentieri nuovi. In prossimità di questa tematica si situa quella relativa alla subalternità e ai subalterni, parole che si rintracciano già negli scritti giovanili. Tra il 1930 e il 1932, Gramsci cominciò, però, a “riconoscere l’importanza dello studio della subalternità nell’ordine sociale e politico”, arrivando poi, nel 1934, a una formulazione più compiuta in un quaderno speciale (il n. 25), a cui diede il titolo Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali subalterni) (1.). I subalterni non sono una categoria omogenea, sempre plurale, ed è persino vano cercare di fissare la parola a un’entità definita. E, un po’ come si è visto discorrendo dei marginali e del folclore, anche i subalterni sono caratterizzati da disgregazione, concetto che negli anni giovanili Gramsci aveva più volte usato per definire la società meridionale. Ci si è interrogati sul contenuto inserito nel contenitore: si può escludere l’ipotesi di un escamotage per eludere la censura che avrebbe potuto intervenire su espressioni ideologicamente connotate come “classe operaia” o “proletariato”, i quali, comunque, sono da considerare ricompresi tra i subalterni. Come si è visto più volte, per altri passaggi cruciali, Gramsci rompe le categorie usuali della letteratura marxista, e dilata il campo d’indagine. Subalterni dunque, invece di proletari, gruppi sociali piuttosto che classi, disomogeneità invece che coesione, dispersione piuttosto che organizzazione: tali caratteri li rendono impotenti; essi “subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono”. La loro stessa storia è “disgregata ed episodica”, giacché sono i vincitori a scriverla (2.). Quindi come per i marginali, il problema è, per i subalterni, arrivare all’organizzazione, alla presa di coscienza, al superamento della condizione di debolezza oggettiva, anche perché nella storia troviamo innumerevoli esempi di rivolta dei subalterni, che si associa, o suscita direttamente o meno, una reazione dei gruppi dominanti sotto forma di complotto, movimento antagonista o colpo di Stato: quasi una ricostruzione allegorica della vicenda del dopoguerra italiano, dove la disgregazione e la disorganizzazione dei subalterni ha favorito il nascere e la vittoria del fascismo. Soltanto un lungo tragitto politico, un lento lavorio culturale può ovviare a questo stato di fatto di minorità anche quando maggioranza in termini numerici. Gli intellettuali e il partito, che altro non è se non un intellettuale collettivo, sono gli strumenti per favorire e condurre in porto quel processo.

1. J. Buttigieg, “Subalterno/subalterni”, in Dizionario, pp. 826-830. Dello stesso autore, Sulla categoria gramsciana di “subalterno”, in BARATTA-LIGUORI 1999, pp. 27-38. Cfr. anche M.E. Green, Subalternità, questione meridionale e intellettuali, in SCHIRRU 2009, pp. 53-70.

2. QdC, p. 2283 (Q25, 2).



Dizionario = Dizionario Gramsciano. 1926-1937, a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza, Carocci, Roma 2009.

BARATTA, GIORGIO – LIGUORI, GUIDO 1999 (a cura di), Gramsci da un secolo all’altro, Editori Riuniti, Roma.

SCHIRRU, GIANCARLO 2009 (a cura di), Gramsci, le culture e il mondo, Viella, Roma.

QdC = Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975.



da Angelo D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, 2017, pp.348/349 - note 23 e 24

 

3. Tradizione-modernità, subalternità-egemonia. Il lavoro di Chambers 

 

3. L’avviata e purtroppo interrotta riflessione sui subalterni appare coerentemente con la visione più ampia del capitalismo, inteso non come semplice elemento identificante di un modo di produzione, ma piuttosto come una vera e propria civiltà, che Gramsci studia, da osservatore esterno e lontano, con tutta la difficoltà del caso, nell’esempio americano. D’altronde la società-mondo alla luce delle ultime riflessioni gramsciane sui subalterni appare divisa in due campi che sono non tanto tradizione e modernità, quanto, piuttosto, parte subalterna e parte egemonica. 

Angelo D’Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Feltrinelli, 2017, pag. 349

 [nota]

Cfr. I. Chambers, Il Sud, il subalterno e la sfida critica, sta in I.Chambers, Esercizi di potere, Gramsci, Said e il postcoloniale, Meltemi, 2006, pp. 7-15.

 

/scheda/



Nato da un incontro di voci diverse, letterarie, storiche, politiche, interdisciplinari, il libro intende rielaborare e rilanciare l'eredità critica di Antonio Gramsci e Edward Said: il primo relegato nell'ombra dall'inerzia della cultura istituzionale, il secondo uno straniero che ha inciso solo in maniera obliqua su tale formazione. Il grande salto effettuato nel pensiero critico occidentale da Gramsci e poi rielaborato da Said è stato quello di capire che la lotta politica, culturale e storica non consiste nel rapporto tra la tradizione e la modernità, ma tra la parte subalterna e la parte egemonica del mondo.

· - - dalla recensione di Sandro Mezzadra su Il Manifesto del 4 giugno 2006

· “ Lo stesso dibattito latino-americano, d'altro canto, si è proficuamente intrecciato, in anni più recenti, con la rilettura di Gramsci avviata nel mondo anglosassone dai saggi di Stuart Hall, che hanno fatto dell'autore dei Quaderni del carcere un riferimento imprescindibile per gli studi culturali e postcoloniali. Basti ricordare, a questo proposito, i lavori dello storico indiano Ranajit Guha, fondatore dei «Subaltern Studies», e quelli di Edward Said, che proprio dalla ripresa di concetti (subalternità, egemonia) e di testi (Alcuni temi della quistione meridionale) gramsciani hanno preso l'avvio per muovere verso esiti che hanno profondamente segnato i dibattiti culturali «globali» degli ultimi anni.
Proprio Said ci ha ricordato del resto che non solo le persone, ma anche le teorie viaggiano (Traveling Theory si intitola appunto uno dei saggi più noti del grande critico palestinese, scritto nel 1982 e poi «rivisitato» nel 1994). E viaggiando possono certo «addomesticarsi», perdere la propria originaria carica di provocazione, ma possono anche «ibridarsi» in altre costellazioni storiche, geografiche e culturali, dando luogo a concatenazioni e a esiti tanto imprevisti quanto interessanti.
Varrebbe davvero la pena di saggiare in riferimento al pensiero di Gramsci l'intuizione di Said, di ricostruire in questa chiave la storia globale della sua ricezione e reinterpretazione: quel che ne deriverebbe non sarebbe soltanto la stesura di un capitolo particolarmente affascinante di storia intellettuale del Novecento, ma anche l'allestimento di un grande archivio di testi, temi e concetti a disposizione del pensiero critico contemporaneo. Un primo contributo in questo senso è offerto dal volume curato da Iain Chambers per la casa editrice Meltemi, Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale (pp. 140, euro 14).
Non si tratta, come scrive lo stesso curatore, di un lavoro di approfondimento accademico: piuttosto, di una raccolta di brevi interventi di diversa provenienza disciplinare (letteraria, storica, filosofica) che si propongono di indicare in modo stenografico «delle strade non ancora imboccate, degli orizzonti ancora da attraversare, nella convinzione che il senso del mondo esiste nell'atto di riconfigurarlo e, dunque, trasformarlo». Questa necessità, sottolineata da Gayatri Spivak (su cui si soffermano in particolare Lidia Curtis e Marina De Chiara), di «re-immaginare il pianeta» fa da sfondo all'intero volume, la cui trama viene dipanandosi tra l'imperativo gramsciano di «pensare "mondialmente"» e le riflessioni di Said sul cosmopolitismo e sul concetto di worldliness (al centro degli interventi di Lea Durante e Serena Guarracino). (..) il libro curato da Chambers ben si presta a essere letto come contributo a una cartografia del mondo globale contemporaneo, nel tentativo di rendere conto di quel processo di continuo rimescolamento dei confini che ne costituisce uno dei tratti salienti.”




Iain Michael Chambers (1949) è un antropologo, sociologo ed esperto di studi culturali britannico.

Membro del gruppo diretto da Stuart Hall all'Università di Birmingham, Chambers è stato uno dei principali esponenti del celebre Centro per gli Studi della Cultura Contemporanea ivi fondato, che ha dato vita a una fiorente branca della sociologia anglosassone contemporanea. Successivamente si è trasferito in Italia dove insegna Studi culturali e postcoloniali all'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" ed ha fondato il Centro per gli Studi Postcoloniali. È autore di numerosi volumi di successo scritti in inglese e in italiano e tradotti in diverse lingue. I suoi campi di studio spaziano dall'urbanizzazione alla cultura popolare, la musica, la memoria, la modernità.




 a cura di Subaltern studies Italia





martedì 9 novembre 2021

IL SUD della STORIA

 

Riprendiamo i classici del meridionalismo storico politico di impostazione gramsciana per ridefinire un nuovo meridionalismo non latitudinario che può essere inscritto nella più generale critica postcoloniale alle forme della modernità: se il Sud dei subalterni è il Sud della storia, la narrazione delle e degli ”informanti nativi” è per sempre ‘forclusa’, per utilizzare la categorizzazione della Spivak.

"Sin dai primi anni Ottanta, il postcolonialismo ha sviluppato un corpus di scritti il cui obiettivo principale è cambiare i modi dominanti di pensare i rapporti tra mondo occidentale e non occidentale. Ma che cosa significa questa affermazione? Prima di tutto rovesciare l’immagine del mondo così come ci appare oggi. Significa guardare dall’altra parte della fotografia, provare a capire come sia diversa la percezione del mondo."

ROBERT  J. C. YOUNG [Introduzione al postcolonialismo, Meltemi, 2005 (ed.or.2003) pag. 8]

 

(a cura di Subaltern studies Italia)




- Ben quattro edizioni (1969, 1979, 2005, 2017, tutte Editori Riuniti) per il lavoro documentario sul brigantaggio del Mezzogiorno d’Italia del giornalista salentino Aldo De Jaco,+ divenuto, insieme alla ricerca e interpretazione di Franco Molfese,+ una pietra miliare per comprendere un fenomeno sociale che era ricompreso nell’antropologia criminale, le sue origini, le sue cause, i suoi esiti e le conseguenze anche a medio e lungo termine.

Vi proponiamo la prefazione redatta per l’edizione 1979 e riservata agli abbonati dell’Unita’ nel 1980, a firma appunto, l’Unita’ (direttore Alfredo Reichlin).


- Un’opera di Aldo De Jaco, che quando uscì per la prima volta pubblicata dagli Editori Riuniti una decina d’anni fa, ebbe tra gli altri meriti quello di suscitare un largo e rinnovato interesse su alcuni aspetti, dolorosi e mai indagati a fondo, della nostra storia risorgimentale. La <<cronaca inedita dell’Unitá d’Italia>> -raccolta su dichiarazioni, documenti, testimonianze, brani di lettere, autobiografie e interviste dell’epoca- tentava di ricostruire, con una sapiente tessitura di eventi e giudizi, la tragica storia del brigantaggio meridionale, la vicenda delle ribellioni e dei moti sociali susseguitesi nel Sud dopo l’impresa dei Mille e l’unificazione del paese. Delusione per la politica dello Stato piemontese, tentativi di riscossa reazionaria,profonde ragioni sociali, enormi dislivelli culturali, si intrecciano nella rappresentazione di un dramma storico in cui il fenomeno del brigantaggio non appare più nella esclusiva versione di un episodio di delinquenza, ma come un complesso fenomeno storico, i cui caratteri sono in un certo senso connessi alla realizzazione <<imperfetta>> del moto risorgimentale: vale a dire,all’esaurirsi rapidissimo delle premesse democratiche , che pure in esso erano presenti, e al prevalere di una egemonia delle classi privilegiate, con l’esclusione delle masse popolari e contadine. Nel Mezzogiorno una delle cause che gettano luce sull’origine del brigantaggio, del formarsi di bande di contadini, soldati, lazzaroni, diseredati, effetto distorto di una emarginazione dei ceti più poveri, fu la grande alleanza politica che le classi privilegiate del Nord stabilirono con il vecchio assetto sociale dei ceti agrari dominanti nel Sud. Così, la vita del brigantaggio è parte integrante della nostra più importante storia nazionale, perché si colloca sullo sfondo di quella <<questione meridionale >> che accompagnerà la vita politica del nostro paese in tutti i suoi momenti salienti, e ancora oggi si pone come centro determinante per la soluzione e la prospettiva di un più equilibrato e democratico sviluppo economico e sociale. Il lettore potrà ritrovare e confrontare nel libro di De Jaco - in particolare nella accorta introduzione- anche una preziosa raccolta di giudizi; storici e politici, da Giustino Fortunato a Benedetto Croce, da Gaetano Salvemini a Antonio Gramsci e Guido Dorso, nel quadro di una discussione viva e accesa, che ancora oggi è da completare. Un’opera documentaria e di testimonianza, dunque: ma anche proiettata nella attualità, con la forza dei problemi e delle tensioni ancora permanenti che agita, delle domande che rinnova. È con questo spirito che intendiamo offrirla ai nostri abbonati, sostenitori dell’Unità: di un giornale che porta, fin dalla sua testata d’origine, il segno della battaglia meridionalista e della unità tra operai e contadini, come il problema decisivo- è ancora , in forme nuove, aperto- del rinnovamento democratico della vita nazionale.

-L’Unitá


Aldo De Jaco (Maglie, 23 gennaio 1923 – Roma, 13 novembre 2003) è stato un giornalista e scrittore italiano. È stato giornalista presso la redazione napoletana dell'Unità. In seguito è stato inviato speciale de l'Unità e poi di Paese Sera. Numerose sono state le sue collaborazioni per pubblicazioni politico-culturali quali Il Contemporaneo, Rinascita, Prove, Le Ragioni Narrative, Cronache Meridionali e La Battana. Ha scritto e si è occupato di poesia e di narrativa, ed è stato inoltre un attento raccoglitore di documentazione storica generalmente trascurata dalla storiografia ufficiale.


+ Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale. Cronaca inedita dell'Unità d'Italia - Prima ed. Editori Riuniti, 1969

+ Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità - Prima ed. Feltrinelli 1966




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LA RANI di SIRMUR e il CANONE OCCIDENTALE

 

dai Subaltern ai Postcolonial studies (2)


“La Rani divenne uno strumento. Ed è così che furono tracciate le linee della restaurazione della storia di (una) donna secondo le definizioni occidentali di storicità” (1).  Secondo quel Canone occidentale che Spivak rigetta, in primis, per se stessa e per il proprio lavoro. (..) 

1.      Gayatri Chakravory Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Verso una storia del presente in dissolvenza, trad. it. di Patrizia Calefato, Meltemi, 2004. La Critica della ragione postcoloniale è uscita nella versione originale nel 1999,(..) Con l’esplicita formula kantiana, l’opera è una corposa perlustrazione decostruttiva dei campi del sapere, sulle tracce dell’informante nativo forcluso. “Campi del sapere” che Spivak provocatoriamente presenta in quattro macro – capitoli, che seguono le ripartizioni epistemiche dell’Occidente: la Filosofia, la Letteratura, la Storia e la Cultura al fine di evidenziarne i costrutti etnocentrici che li definiscono come totalità distinte.

 

La Rani di Sirmur: allestimento di una scena

Siamo intorno al 1820, nella regione di Sirmur, basso Himalaya. Lì visse, secondo gli archivi inglesi, una Rani (“regina”) sposata ad un Rajah. Sono anni decisivi per il consolidamento della presenza imperiale britannica in India: negli ultimi decenni del XVIII secolo una serie di interventi legislativi aveva modificato in profondità la struttura e le funzioni della Compagnia delle Indie Orientali, delineando un sistema di governo che sarebbe durato fino alla rivolta anti- britannica del 1857. Subito dopo, muovendo dall’esigenza di razionalizzare il sistema del prelievo fiscale, e in particolare l’imposta fondiaria, la Compagnia aveva finito per realizzare un intervento di ampia portata sulla definizione stessa delle figure sociali nelle campagne del Bengala, introducendovi un diritto proprietario modellato su quello inglese. Nel 1813, la dichiarazione di sovranità della Corona britannica sul territorio acquisito nel subcontinente, rappresentò anche formalmente un momento di stabilizzazione del dominio coloniale. Sono anche gli anni dell’uscita della monumentale History of British India del filosofo James Mill che, ben guardandosi dal mettere piede in Asia, aveva dato espressione ad un significativo mutamento nell’atteggiamento britannico nei confronti dell’India: la fascinazione per gli aspetti esotici dell’Oriente diventava una schietta rivendicazione di superiorità culturale dell’Occidente.

È in questo contesto che ha luogo un episodio “minore” nella storia del colonialismo britannico in India. Il Rajah di Sirmur, Karam Prakash, viene deposto dai britannici in ragione della sua barbarie e dissolutezza, anche se vi sono buone ragioni per pensare che la principale prova a suo carico fosse il fatto che aveva la sifilide. La reggenza è assegnata a un figlio minorenne del Rajah, di cui viene riconosciuta come tutrice la regina (la Rani). Un bambino come reggente, posto sotto la tutela di una donna: una situazione ottimale per preparare la soluzione, a cui puntavano gli inglesi, lo smembramento di Sirmur.

Sembrerebbe che fosse necessario tenere Sirmur sotto la guida di un bambino, sotto la tutela di una donna, perché lo “smembramento di Sirmur” (come riportato in una comunicazione segreta) era molto probabile. L’intera metà orientale di Sirmur, e alla fine anche tutto il resto, doveva essere immediatamente annessa per mettere al sicuro le rotte commerciali della Compagnia e la frontiera con il Nepal, per indagare l’efficacia dell’“apertura di una comunicazione commerciale attraverso il Bussaher con il paese al di là delle montagne innevate” (2). 

La reggenza è affidata alla Rani semplicemente “because she is a king’s wife and a weaker vessel” (3):  la privilegiata posizione sociale ed economica della Rani è subordinata alla sua identità di genere come madre del futuro re e come vedova del Rajah.

Avviene, però, qualcosa di imprevisto. Un funzionario britannico, un certo Capitano Birch, informa il Residente a Dehli che la Rani ha comunicato la propria decisione di farsi ardere sulla pira funebre del marito. Il Capitano chiede di essere autorizzato a intervenire nel modo più deciso per scongiurare il suicidio della Rani di Sirmur, coniugando opportunità politica e riprovazione morale per un’usanza barbara come il sacrificio rituale delle vedove. Quel sati su cui già nel decennio precedente erano divampate furiose polemiche che avevano coinvolto amministratori coloniali e sezioni delle élite autoctone, e che sarebbe stato dichiarato illegale dal governatore generale Lord Bentinck nel 1829. Gli archivi non riportano la conclusione della vicenda, ma pare che la Rani di Sirmur sia morta di morte naturale.

È questo dunque il motivo per cui la Rani affiora fugacemente dagli archivi, nella sua individualità: perché sulla scacchiera del Grande Gioco è moglie di un re e appartiene al sesso debole. Non siamo nemmeno sicuri del suo nome: “Talvolta ci si riferisce a lei come Rani Gulani e talvolta come Gulari. In generale viene propriamente indicata come la Ranee dagli alti ufficiali della Compagnia, e “questa Ranni” da Geoffrey Birch e Robert Ross. 

È qui che comincia “il racconto di una singolare manipolazione della sua vita privata”, divisa tra patriarcato e imperialismo. Il sacrificio delle Vedove, nel discorso braminico, è una

manipolazione della formazione del soggetto femminile attraverso una contronarrazione artefatta della coscienza della donna, e dunque, dell’essere – brava della donna, e dunque il desiderio della brava donna, e dunque il desiderio della donna.[...] Suggerirò che i britannici ignorassero lo spazio del Sati come campo di battaglia ideologico e costruissero la donna come oggetto del massacro, il cui salvataggio può marcare il momento in cui una società, non solo civile, ma anche buona, si origina dal caos domestico. Tra la formazione patriarcale del soggetto e la costituzione imperialista dell’oggetto, è lo spazio della libera volontà dell’agentività del soggetto sessuato come femminile a essere efficacemente cancellata.

La Rani di Sirmur è costruita in due frasi, distillato massimo della violenza epistemica tanto dell’imperialismo quanto del patriarcato: “Uomini bianchi stanno salvando donne scure da uomini scuri”, espressione della volontà dei britannici di abolire il “barbaro” rituale del sati e, in risposta a questa, la dichiarazione nativista indiana, nostalgica per le origini perdute, “le donne volevano morire”. La Rani emerge dalla storia solo quando è necessaria per la “produzione” imperiale” (3) o patriarcale. Spivak è inequivocabile:

Non è meramente tautologico dire che la subalterna coloniale o postcoloniale si definisca come l’essere dall’altro lato della differenza, o della frattura epistemica, anche rispetto ad altri gruppi di colonizzati.

La subalternità diventa di genere: “By the inexorable ideological production of the sexed subject, such a death can be understood as an exceptional signifier of her own desire, exceeding the general rule for a widow’s conduct”(4).

Il sacrificio delle vedove non è prescritto da alcun codice religioso. Il Sati è semplicemente un exceptional signifier creato da patriarcato ed imperialismo. Il maschio nativo subalterno “produce” il sati come la condotta della buona moglie che desidera seguire il proprio marito nella morte: “The proper place for the woman to annul the proper name of suicide through the destruction of her proper self is on a dead spouse’s pyre” (4). Il maschio britannico colonizzatore, invece, “produce” il sati per giustificare la propria missione civilizzatrice, ovvero la propria colonizzazione.

Le donne non si sacrificano, sono sacrificate. Non si suicidano. Sono suicidate. La loro subalternità è doppia, perché doppiamente escluse dai discorsi e dalle rappresentazioni in quanto donne e in quanto subalterne. 

 

(2) Citazioni da Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale, cit., pp. 241, 223, 244, 247,248, 296,299, 319 

(3) Idem, The Rani of Sirmur: An Essay in Reading the Archives, in “History and Theory”, XXIV, 3, p. 266 e 270 

(4) Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak?, in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di C. Nelson, L. Grossberg, University of Illinois Press, Urbana 1988, pag.300 

 da IMMAGINI in DISSOLVENZA - Lettura “interessata” di Can The Subaltern Speak? di Gayatri Chakravorty Spivak, pp.105/107 

di Pamela De Lucia

in DEP - Deportate, esuli, profughe, rivista telematica di studi sulla memoria femminile, nr.21/2013 - afferisce al Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Universita’ di Venezia.


vedi anche: 

Rosalind C. Morris, Can the Subaltern Speak?: Reflections on the History of an Idea, Columbia University Press, New York 2010, p. I.

Alessandro Corio, Spettri di Spivak: “presa di parola” e “rappresentazione” ai margini del canone occidentale, in “Trickster”, 5, 2008

Ranajit Guha, Gayatri Chakravory Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra, Ombre Corte, Verona 2002

 

a cura di Ferdinando Dubla - Subaltern studies Italia 





lunedì 8 novembre 2021

I CONCETTI DI INFORMANTE NATIVO E FORCLUSIONE NELL'OPERA DI SPIVAK

 

dai Subaltern ai Postcolonial studies (1.)   

contributi da Quaderni di Kaleidos e Pamela De Lucia 



Tra le analisi critiche delle ambivalenze della democrazia, del multiculturalismo e dello stesso femminismo occidentale nell'età del capitalismo globale, finanziario e transnazionale, spicca per radicalità e acutezza la riflessione della filosofa femminista di origine indiana-bengalese Gayatri Chakravorty Spivak. Pensatrice dalle molteplici "provenienze" - dai Subalterni Studies e dalla costellazione del marxismo postcoloniale, alla filosofia di Derrida -, Spivak vive tra gli Stati Uniti, dove insegna alla Columbia University, e l'India, dove da molti anni si dedica alla formazione di maestri nelle comunità aborigene del Bengala occidentale. Si è affermata nel dibattito internazionale con un celebre scritto, significativamente intitolato "Can the Subaltern Speak?", ripreso e rielaborato all'interno del ponderoso volume intitolato "Critica della ragione postcoloniale".

Per caratterizzare il senso generale del suo libro, attualmente considerato una delle pietre miliari del pensiero postcoloniale, Spivak dichiara nella prefazione di aver voluto intraprendere una critica - in un'accezione del termine che si richiama a Kant, in prima istanza, ma anche a Hegel e soprattutto a Marx -, nel senso di un esame delle "strutture della produzione della ragione postcoloniale".

In tale direzione, il testo si propone come ricognizione, a carattere decostruttivo, delle "tracce", di quel particolare "soggetto" che Spivak definisce "Informante Nativo" nelle "pratiche" responsabili della sua produzione. Ma chi è, innanzitutto, l'Informante Nativo? Il termine risale all'antropologia culturale, una scienza che, nel suo sorgere, accompagna il colonialismo e contribuisce in modo essenziale a costruire, confermare e rafforzare lo sguardo coloniale. In senso generale, l'Informante Nativo va inteso come quella figura eletta a rappresentazione della "cultura" di un determinato popolo e/o "etnia". Tale "cultura", per lo più pensata come un sistema unitario e totalizzante, viene contrapposta alla razionalità europea e/o occidentale intesa come misura di ciò che si può definire "umano" e che viene chiamata all'occorrenza in causa per promuovere una "necessaria" opera di modernizzazione e di "umanizzazione". Al di là dell'uso specifico del termine nell'antropologia, che nel corso della sua storia l'ha ampiamente sottoposto a critica e revisione, la figura dell'Informante Nativo può venire eletta come emblematica del modo in cui la modernità europea e occidentale prima, durante e dopo il colonialismo costruisce la propria autorappresentazione e autocelebrazione mediante e grazie alla produzione di Altri/e che vengono in diversi modi a occupare lo spazio di un "fuori" costitutivo del "dentro".

L'esame condotto da Spivak dei vari testi della tradizione filosofica e letteraria europea e occidentale, ma anche di episodi della storia coloniale e postcoloniale indiana, mette in luce come nella produzione del Discorso coloniale, e in forme diverse nel Discorso postcoloniale, che ne costituisce una sorta di Aufhebung hegeliana (che supera ma conserva), l'Informante Nativo si riveli nel contempo necessario e forcluso. Ciò significa che viene prodotto, come l'Altro dall'Europa, dalla ragione, dalla civiltà, secondo un codice che lo rende decifrabile, e nel contempo espulso e silenziato, perché la sua voce, e la sua specifica agentività (agency), vengono ignorate e/o significate unicamente all'interno del Discorso che lo nomina. Ciò che emergerà nel corso delle analisi, in cui l'adozione di un punto di vista femminista è esplicitata come fondamentale, è che "il modello dell'Informante Nativo attualmente forcluso sia la più povera donna del Sud". È su di lei che si esercita, in modo emblematico e in maniere diverse, dissimulate anche sotto forma di strategie di empowerment e di sviluppo (come le agenzie Onu su "genere e sviluppo"), quella violenza epistemica che marchia come "insensate” tutte le forme di resistenza che non rientrano negli schemi di senso, o economici, previsti, negando ogni agentività (capacità di agire) a quei soggetti, le donne più povere del Sud, che possono semmai essere vittimizzate per giustificare bellicose "missioni di pace” e interventi di civilizzazione. Le subalterne possono parlare? La risposta è evidentemente negativa.

E tale consapevolezza dovrebbe costituire un elemento di critica e autocritica anche per tutti quelli e quelle che si dichiarano in qualche modo i portavoce dei subalterni, come gli/le intellettuali migranti dai paesi ex coloniali impegnati negli studi di genere, postcoloniali, culturali, che nell'inevitabile assunzione della posizione dell'Informante Nativo non riescono sempre a evitare una complicità con la logica del dominio imperialista e dell'ingiustizia redistributiva nell'età del capitalismo globale transnazionale. In tal senso, Spivak osserva: "Il multiculturalismo liberal, senza una consapevolezza socialista globale, non fa altro che espandere la base statunitense, corporativa o comunitaria”.

Nella prefazione all'opera, Spivak chiarisce come tale consapevolezza critica delle ambivalenze della posizione dei Cultural Studies e della critica postcoloniale, anche femminista, muove dall'esigenza di "gettare uno sguardo all'indietro, per vedere come altri ci vedrebbero. Non tuttavia nell'intento di un'interruzione del lavoro, ma affinché esso risulti meno fazioso".

Il soggetto che emerge dalla decostruzione di Spivak, soggetto femminista, postcoloniale, marxista, - secondo le principali autorappresentazioni dell'identità della stessa Spivak -, è un soggetto che nel suo agire, nell'esercizio della sua libertà, si lascia disfare dall'irruzione dell'imprevisto, rispondendo all'ingiunzione di un'alterità che è letteralmente differente (in quanto lo destabilizza, lo destituisce e lo ricostituisce). Parafrasando Emmanuel Lévinas, Spivak sottolinea come solo così l'etico, inteso come ineffabile potenza di un agire "fuori dai cardini", possa interrompere l'epistemologico, quell'imperialismo dell'Uno all'opera, forse inevitabilmente, in ogni desiderio di soggettivazione.

da Quaderni di Kaleidos, nr.6/2014, redazionale




 

IMMAGINI in DISSOLVENZA - Lettura “interessata” di Can The Subaltern Speak? di Gayatri Chakravorty Spivak

di Pamela De Lucia 

in DEP - Deportate, esuli, profughe, rivista telematica di studi sulla memoria femminile, nr.21/2013 - afferisce al Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Universita’ di Venezia.

 

1^parte vedi 23 ottobre 2021 post SSI - 



https://www.facebook.com/Subaltern-studies-Italia-102006355428935

VIOLENZA EPISTEMICA, concetto da DECOSTRUZIONE


 LA FORCLUSIONE dell’INFORMANTE NATIVO in SPIVAK [pag.103, nota 31] 

 (1.) 

La forclusione dell’informante nativo è il filo rosso che percorre tutta la Critica della ragione postcoloniale. Innanzitutto, l’informante nativo è una figura centrale del discorso antropologico novecentesco: è il “nativo”, inteso come “non-nativo-europeo”, che opera una mediazione tra l’antropologo ed il gruppo studiato. È colui che opera concretamente, essendo stato addestrato a farlo, la “traduzione” dell’alterità nell’unica lingua che la Ragione intende, rendendole possibile un accesso all’Altro che rafforza il Soggetto occidentale operando, però, una “forclusione”. Il termine “forclusione”, così come è usato da Spivak, è liberamente tratto dall’impianto concettuale di Lacan: a differenza della rimozione, che prevede il ritorno del rimosso, la forclusione cancella definitivamente un avvenimento che non rientrerà più nella memoria psichica. Secondo Lacan ciò che è stato forcluso dal simbolico riappare poi, in forma allucinatoria, nel reale. In Spivak la forclusione passa dalla speculazione psicanalitica alla responsabilità etica, per cui l’espulsione o il rigetto dell’Informante Nativo dal nome dell’Uomo “è servito e serve da energica ed efficace difesa della missione civilizzatrice”. O, ancora: “Penso all’informante nativo come nome per quel marchio di espulsione dal nome di Uomo – un marchio che elide l’impossibilità della relazione etica” (in Critica della ragione postcoloniale, p. 31). La forclusione è lo strumento della violenza epistemica dell’imperialismo, che non opera attraverso un gesto puramente negativo di esclusione, bensì produce un soggetto coloniale che, secondo l’efficace definizione di Spivak, “si autoimmola per la glorificazione della missione sociale del colonizzatore”

(in Critica della ragione postcoloniale, p. 143).

 

+ Gayatri Chakravory Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Verso una storia del presente in dissolvenza, trad. it. di Patrizia Calefato, Meltemi, 2004.