Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 24 settembre 2019

Il "rovescismo", fase suprema del revisionismo


Sul documento dei nuovi analfabeti della storia. Questo atto ha segnato la definitiva fuoruscita del PD dal campo della sinistra internazionale, ma anche dal campo della decenza e della dignità.

di Angelo D'Orsi

La risoluzione del Parlamento europeo, fondata sulla equiparazione tra nazifascismo e comunismo, rappresenta insieme un mostro storico e una bestialità politica. Ma è anche una clamorosa conferma della superfluità “esistenziale” di questo organismo.

Se davvero si vuole una Europa unita, e se la si vuole come si dovrebbe, rifare a fundamentis, il Parlamento europeo sarà semplicemente da eliminare. Un gruppo di signori, godenti di privilegi, che hanno poco o nulla da fare nella vita, sono riusciti a formulare un testo basato su un modesto imparaticcio scolastico, senza capo né coda, un documento lunghissimo, farcito di premesse, di riferimenti interni alla legislazione eurounitaria, ma ahinoi, purtroppo, anche con una serie di ragguagli che pretendono di essere storici, ma sono un esempio di revisionismo ideologico all’ennesima potenza: insomma, il mai abbastanza vituperato «rovescismo», fase suprema del revisionismo, ed è il frutto finale di un lungo lavorio culturale, che dalle accademie è trapassato nel dibattito pubblico, tra giornalismo e politica professionistica.

Il rovescismo riesce a produrre esiti a cui il revisionismo tradizionale non ha avuto il coraggio di spingersi: questo documento è un esempio preclaro di questi esiti.

La linea di fondo, che il rovescismo ha raggiunto, e di cui in Italia abbiamo avuto numerose manifestazioni, è il rovesciamento della verità storica, sulla base di un equivoco parallelismo, che ha illustri precedenti nella filosofia politica, tra fascismo e comunismo, tra fascismo e antifascismo, tra partigiani e repubblichini (per concentrarsi sul nostro Paese): e questo sulla base della nefasta teoria delle memorie condivise, nel documento “europeo” riproposta al singolare, come fonte della “identità” del Continente, a cui l’organo legislativo di una sua parte, sebbene numerosa, pretende di sovrapporsi. L’Unione europea, sarà opportuno ricordare, non è l’Europa, e il Parlamento della Ue non esprime sentimenti, pensieri, sensibilità e, aggiungo, volontà, di alcune centinaia di milioni di cittadini e cittadine dei 27 Stati aderenti.

Ciò detto, la risoluzione, con temerario sprezzo della verità, attribuisce paritariamente la responsabilità della Seconda Guerra mondiale alla Germania nazista e alla Russia sovietica, e in particolare sarebbe la «conseguenza immediata» del Patto Ribbentrov-Molotov, e avendo sottolineato, di nuovo con un esempio di grottesca violenza alla realtà fattuale, che l’istanza unitaria nel Vecchio Continente nasce come risposta alla «tirannia nazista» e «all’espansione dei regimi totalitari e antidemocratici», si richiama alla legislazione di alcuni Paesi membri, che ha già provveduto a «vietare le ideologie comuniste e naziste», e invita gli Stati dell’Ue a prenderli ad esempio.

Curiosamente il documento di questi nuovi analfabeti della storia, usa l’espressione «revisionismo storico» per riferirsi esclusivamente al nazismo, e al progetto genocidario insito in esso, e presenta la posizione a cui si ispira come corretta e indubitabile, al punto da pretendere di diventare legge. E la proposta cui giunge questo mirabile esempio di menzogna storica, e insieme di miseria politica e di bassezza morale, quale è mai? La sollecitazione agli Stati membri a provvedere a condannare i «crimini dei regimi totalitari comunisti e dal regime nazista», e di conseguenza a «formulare una valutazione chiara», che traduca praticamente questa raccomandazione. Ossia, evitare la diffusione e la presenza e la circolazione nei relativi Paesi di ideologie e simboli che richiamino nazismo e comunismo.

Insomma, è una Europa polonizzata e magiarizzata e ucrainizzata: l’Europa che dimentica il ruolo fondamentale della Russia, a cui viene sì attribuito l’etichetta di Paese martire, ma non certo quello, confermato da ogni ricerca storica, di barriera al nazifascismo. E il documento, che pare ispirato direttamente da tedeschi polacchi e ungheresi, si apre a parole di dolce accoglienza nel seno della famiglia dell’Europa “democratica” dei Paesi liberatisi dal giogo sovietico. E, incredibilmente, si precisa: «adesione all’Ue e alla Nato», con una inaccettabile confusione di europeismo e atlantismo.

Ebbene, questo documento è stato approvato con i voti della destra di Orbán e soci, ma anche dei popolari e dei “socialisti”, ivi compresi gli esponenti del Pd. Che con questo atto ha segnato la sua definitiva fuoruscita dal campo della sinistra internazionale, ma altresì dal campo della decenza e della dignità.
pubblicato su @Il Manifesto del 22 settembre 2019


sabato 21 settembre 2019

NAZIEQUIPARAZIONI


Le colonne dell’anticomunismo sono da sempre l’ignoranza e la malafede, oltre naturalmente gli interessi di classe. 
METTIAMO FUORI LEGGE IL CAPITALISMO / 
- questi sono i “democratici”, alleati della destra reazionaria quando c’è da gareggiare in ignoranza e malafede storico-politica (e filosofica), quando gratti il liberale trovi la dittatura di un solo pensiero, di un solo sistema: quello capitalista. E gli stupidi servi che fanno da sponda a vergognose equiparazioni. Ma l’avvenire non è vostro.

Nel nome dei martiri ed eroi comunisti morti per un grande e straordinario ideale, vittime dei boia e carnefici nazifascisti e dei loro complici, ancora oggi e per sempre sosterremo il socialismo della libertà. (fe.d.)

-In Europa il PD, la LEGA, FORZA ITALIA e FRATELLI D'ITALIA votano IN BLOCCO la risoluzione anticomunista. Nella giornata di ieri, 19 settembre 2019, il Parlamento Europeo con 535 voti a favore, 66 contrari e 52 astenuti ha approvato la mozione di condanna dell'uso dei simboli del comunismo, chiedendo la rimozione dei monumenti che celebrano la liberazione avvenuta grazie all’Armata Rossa. La mozione equipara il comunismo al nazifascismo. Riportiamo i nomi dei parlamentari che hanno votato questa infame mozione, tra i quali tutti i parlamentari del PD (oltre ovviamente alle destre sovraniste). Socialisti & Democratici: Bartolo (PD), Benifei (PD), Bonafè (PD), Calenda (PD), Chinnici (PD), Cozzolino (PD), Danti (PD), De Castro (PD), Ferrandino (PD), Gualmini (PD), Moretti (PD), Picierno (PD), Pisapia (PD), Tinagli (PD). ID: Adinolfi Matteo (Lega), Baldassarre (Lega), Bardella (Lega), Basso (Lega), Bizzotto (Lega), Bonfrisco (Lega), Borchia (Lega), Bruna (Lega), Camponemosi (Lega), Caroppo (Lega), Casanova (Lega), Conte (Lega), Da Re (Lega), Donato (Lega), Dreosto (Lega), Grant (Lega), Lancini (Lega), Lizzi (Lega), Panza (Lega), Regimenti (Lega), Rinaldi (Lega), Sardone (Lega), Tardino (Lega), Tovaglieri (Lega), Vuolo (Lega), Zambelli (Lega). PPE: Berlusconi (FI), Dorfmann (SV), Martusciello (FI), Milazzo (FI), Salini (FI), Tajani (FI) ECR: Fidanza (FdI), Fiocchi (FdI), Fitto (FdI), Stancanelli (FdI) Il fatto è gravissimo in sé, denota una abissale ignoranza storica di gran parte della classe politica europea.

Dovrebbe inoltre far riflettere come continua nei fatti il TRADIMENTO storico da parte di quella forza politica che ha ereditato le strutture organizzative e sociali del Partito Comunista Italiano, ovvero il Partito Democratico.
[PCI, social]

- L’equiparazione di Sachsenhausen

in questo campo di concentramento vicino Berlino, trovarono la morte circa 100.000 internati, e, oltre ebrei ed omosessuali, la maggior parte di loro erano soldati ed ufficiali sovietici comunisti catturati e sterminati a suon di musica e con un colpo alla nuca inferto da una fessura del muro a cui erano addossati. Nel cortile della prigione, invece, isolato dal resto del lager, avevano luogo le esecuzioni per impiccagione. Molti morirono di stenti, di fame, di dissenteria e di polmonite o con un colpo di fucile sul cranio da parte dei kapo’ mentre lavoravano per le SS. La fuliggine dei corpi bruciati nel crematorio, insufficiente, avvolgeva tutto il campo, tanto che nel 1942 di forni ne venne costruito uno ex novo.
Il campo fu liberato tra il 22 e il 23 aprile del 1945 dai reparti avanzati delle gloriose ed eroiche truppe comuniste sovietiche dell’Armata Rossa. Al suo interno rimanevano ancora circa 3.000 persone ormai in fin di vita poiché la maggior parte degli internati era stata trasferita dalle SS con le famigerate marce della morte in campi più occidentali.
- Chi equipara nazifascismo e comunismo è complice del nazifascismo:
”Collocare sul medesimo piano il comunismo russo e il nazifascismo in quanto entrambi sarebbero totalitari, nel migliore dei casi è superficialità, nel peggiore è fascismo. Chi insiste su questa equiparazione può ben ritenersi un democratico, in verità e nel fondo del cuore è in realtà già fascista, e di certo solo in modo apparente e insincero combatterà il fascismo, mentre riserverà tutto il suo odio al comunismo." Thomas Mann
a cura di Ferdinando Dubla, direttore Lavoro Politico 


giovedì 19 settembre 2019

BIO-BIOGRAFIE GRAMSCIANE


La biografia su Gramsci su cui si è formata un’intera generazione di studiosi del pensatore sardo, è sicuramente quella di Giuseppe Fiori, la cui prima edizione per Laterza è del 1966. Era il libro iniziale consigliato ai militanti del PCI per fare una prima conoscenza con chi veniva considerato da tutti il padre nobile dei comunisti italiani. Ma anche una biografia è interpretazione storiografica: come quelle di Tamburrano, che era stata pubblicata nel 1963 per i tipi di una casa editrice a me molto cara, Lacaita di Manduria (che nel 1986 dette alle stampe il mio “Gramsci e la fabbrica”, con prefazione di Carmelo D’Amato) di sapore liberalsocialista, con cui quella di Fiori interloquiva (e polemizzava) e di Giuseppe Vacca (1991), che all’epoca era la biografia “togliattianamente corretta“ di un autore che nella direzione del glorioso Istituto Gramsci, ha portato i suoi mutevoli convincimenti politici riformisti e revisionistici. Poi, ma molti anni dopo, nel 2005, quella, mirabile, di Antonio Santucci per Sellerio, destinata a influenzare, come già quella di Fiori per la generazione precedente, nuovi giovani studiosi del filosofo marxista.
Le biografie di Angelo D’Orsi del 2017, è nuova per lettori vecchi e nuovi, ortodossi, critici e revisionisti, ha il merito di riportare Gramsci alla dimensione sua propria, pensatore e politico comunista (affatto scontato); ora quella di Gianni Fresu, studioso della dimensione filosofica di uno straordinario autore del XX secolo, su cui torneremo. (~ fe.d.)




martedì 17 settembre 2019

L’IMPORTANZA dei NUMERI PRIMI


Gramsci accresce il suo prestigio internazionale e la sua opera si universalizza parlando al mondo delle contraddizioni imperialistiche e capitaliste, in oriente e occidente, ma soprattutto nel sud del pensiero meridiano. Qui in Italia, la grande eredità di questo filosofo marxista e politico comunista, deve legarsi maggiormente proprio al rilancio della cultura meridionalista. (~ Ferdinando Dubla)


lunedì 9 settembre 2019

METAFISICA delle PAROLE


Così come per sovranismo, ora per il governo cosiddetto giallo-rosso. La metafisica delle parole al servizio della destra politica. Veicolata dai media, tenta di influenzare il senso comune per una battaglia egemonica. Di rosso questo governo non ha nulla, nulla di sovranista la destra che gli si oppone. Governo di necessità che incontra l'opportunismo, è una mistura di qualunquismo propagandistico sempre meno con effetti populisti, e di liberismo "centrista" guidato da oligarchie (con tanti epigoni  e prassi di cultura e ascendenze democristiane). Per fermare l'egemonia della destra, solo la costruzione di una forte sinistra di classe con dentro i comunisti non testimoniali e reliquiari, può essere un argine controffensivo. Con un'opposizione che riparta dalla società e diventa politica perchè necessaria.  (fe.d.)

LE MANI NELLE TASCHE, I PUGNI IN TASCA:
come lo Stato del capitale mette le mani sul capitale e mistifica la vera sinistra, quella marxista.//
- la società capitalista, la più totalitaria perché basata sulle merci-denaro-profitto-, incompatibile con la democrazia, vuole il controllo occhiuto sul reddito-salario-risparmio-consumo, e non può ammettere l’autodeterminazione della forza-lavoro e del capitale variabile. Il bello è che la mistificazione ideologica, nel senso critico che Marx dava a questo termine, arriva al punto da considerare l’”evasometro”, in vigore dal 1 settembre u.s., come una misura di sinistra. L’egemonia delle banche, gli istituti di intermediazione parassitaria D/D+1 (denaro-accumulazione di denaro tramite denaro-prestito speculativo-usuraio) e dell’Agenzia delle entrate per conto dello Stato al servizio del capitale privato (molto più cospicuo del debito pubblico), considerata di ”sinistra”!! A tal punto è arrivata la manipolazione e intossicazione del senso comune: che grida a squarciagola le ragioni di una sconfitta storica, che spetta alla sinistra di classe tesaurizzare per ripartire con una speranza rivoluzionaria. ~fe.d.



venerdì 6 settembre 2019

La democrazia senza più rappresentanza non è democrazia


La riduzione del numero dei parlamentari, senza il contemporaneo allargamento della rappresentanza tramite un sistema elettorale di proporzionale puro, mette a serio rischio una già fragile e minata democrazia costituzionale repubblicana, a favore di un sistema oligarchico di autoritari interessi di classe. (fe.d.)

- L’articolo è di Massimo Villone /

In una lettera al direttore del Corriere della sera (del 4 settembre) Romano Prodi si lancia in un endorsement senza se e senza ma del maggioritario, in specie se ispirato al doppio turno come in Francia, o all’uninominale di collegio come in Gran Bretagna. Sullo stesso giornale D’Alema suggerisce cautela nella corsa verso un sistema proporzionale, essendo preferibile un maggioritario che favorisca un ritorno al bipolarismo. Su Italiaoggi (5 settembre) Claudio Velardi concorda con Prodi e con D’Alema. Decisamente, un déjà vu.
La riforma della legge elettorale è in agenda insieme al taglio dei parlamentari, giunto all’ultimo giro di boa, e posto da M5Stelle come priorità. Se il taglio si facesse a legge elettorale invariata, la distorsione della rappresentatività delle assemblee sarebbe fortissima e incostituzionale.
Ad esempio, nelle regioni minori solo i primi due partiti otterrebbero seggi in Senato. Un ritorno al proporzionale appare a molti una condizione necessaria. Se ne avverte una eco nel programma di governo (al punto 10), laddove si parla di avviare un percorso di riforma della legge elettorale, assicurando il «pluralismo politico e territoriale». Ma non c’è un esplicito richiamo al proporzionale, e forse qui le opinioni citate hanno giocato un ruolo.
Nemmeno sfugge che oggi qualsiasi impianto maggioritario darebbe al centrodestra un vantaggio incolmabile.
La crisi di agosto ha visto tra le ragioni di fondo la valutazione che il momento fosse favorevole per assaltare Palazzo Chigi.
In questa prospettiva Matteo Salvini ha corso un azzardo, ha scommesso, e ha perduto.
A tutto questo i sostenitori del maggioritario rispondono che bisogna ripristinare il bipolarismo. È ovvio che in un sistema tripolare o multipolare un maggioritario che garantisca il totem della stabilità e della governabilità è fatalmente troppo distorsivo della rappresentatività, e probabilmente incostituzionale.
Per Prodi ciò non rileva, perché «una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile». Non potremmo dissentire di più. Una assemblea elettiva assolve la sua funzione solo se è ampiamente rappresentativa. Diversamente, è una inutile superfetazione istituzionale.
Chi vuole il maggioritario o ritiene irrilevante qualsiasi misura di distorsione della rappresentatività, o pensa a una strategia di alleanze che portando a una competizione tra due coalizioni riduca al minimo la correzione maggioritaria che garantisce la vittoria. A sinistra o nel centrosinistra si pensa a una alleanza pre-elettorale tra Pd e M5Stelle, e forse ancora altri. Ma è una prospettiva plausibile?
Trovare una compatibilità su temi quali le trivelle, la scuola, i beni culturali, il lavoro o persino le grandi opere può essere alla fine non facile, ma possibile.
Ma che dire del diverso modo di concepire la democrazia? Vincolo di mandato, eletti-portavoce, referendum propositivo, taglio dei parlamentari, votazioni su Rousseau segnano un depotenziamento della democrazia rappresentativa che fa allo stato parte del dna del Movimento, e trova qualche eco anche nel programma di governo.
Una strategia duratura di solide alleanze può bene trovare qui ostacoli difficilmente superabili.
Ma poi, siamo sicuri che le chiavi di lettura di un tempo siano ancora valide? In Francia, il doppio turno ha dato a Macron una maggioranza, ma non ha impedito – anzi, indebolendo la rappresentatività del parlamento ha probabilmente concorso a determinare – la rivolta dei gilet gialli.
In Gran Bretagna, emblema della stabilità e della governabilità assicurata dal maggioritario, Boris Johnson ha preso ceffoni dai Commons, e altri probabilmente ne avrà. La stessa unità del regno scricchiola pericolosamente.
Sono prove che maggioranze farlocche create con artifici elettorali non chiudono le faglie politiche, economiche e sociali, e che il fulcro della democrazia è in un parlamento che dia pienamente voce al paese, e non nei palazzi del governo.
Prodi chiede che si prendano «le decisioni necessarie a far sì che l’Italia possa riprendere il suo ruolo in Europa e nel mondo». Dubitiamo assai che abbiamo perso quel ruolo a causa di una legge elettorale non abbastanza maggioritaria, e che basti correggere l’errore per riguadagnarlo.

pubblicato su Il Manifesto del 6 settembre 2019 
con il titolo "Le maggioranze farlocche di Romano Prodi"



martedì 3 settembre 2019

Lo Scotellaro di Carlo Levi: la civiltà contadina meridionale che per la poesia non muore


L'edizione delle opere complete di Rocco Scotellaro, curate da Franco Vitelli, Giulia Dell'Aquila, Sebastiano Martelli, ed edite da Mondadori in quest'anno 2019, è l'occasione per rileggere la splendida prefazione di Carlo Levi all'edizione di "E' fatto giorno", la silloge di poesie dal 1940 al 1953 pubblicata nel 1954, sempre per Mondadori. - (fe.d.)



PREFAZIONE

La poesia di Rocco Scotellaro, che oggi soltanto, lui morto, qui appare nella sua commovente e originale bellezza, è legata alla sua vita, che essa racconta ed esprime; e non tanto alle vicende e agli avvenimenti, quanto alla qualità, alla condizione, allo sviluppo singolare ed esemplare di quella, che nei versi ha trovato, con la rara misura del genio, la sua forma più diretta. Poiché Rocco Scotellaro è una di quelle nature per cui l’espressione poetica (il linguaggio del verso, del ritmo, ecc.) è la prima forma d’espressione, la più vicina al sentimento e al moto profondo della vita, la più immediata. Verrà poi, costruita su quei ritmi e modi naturali dell’animo, su quel denso e già chiaro primo mondo poetico, la prosa, più complessa e adulta.

Ma questa forma immediata, intrisa di verità e del senso dell’esistenza, e così identica alla persona, non nasce come tale dapprincipio. È essa stessa una conquista, una scoperta, ogni giorno, ogni volta, preziosa e difficile. Rocco Scotellaro deve farsi da sé, deve inventare sé stesso, e la forma del proprio mondo poetico; non ha radici colte, se non quelle dell’antichissima e ineffabile cultura contadina. Perciò, finché egli è ancora adolescente, nelle poesie precedenti, all’incirca, al 1946, finché i suoi sentimenti sono ancora vaghi, generici, simbolici (il bivio, la strada, l’amore sognato, ecc.) non può ancora esistere una forma se non presa a prestito, se non letteraria. E tuttavia, sotto le derivazioni evidenti, già si sente la potenza di una personalità per la quale quei modi letterari non sono che abiti provvisori.

Gli anni ’46-’47 segnano la sua maturazione, in senso umano e in senso poetico. Rocco è ancora un ragazzo, ma è finita in lui, e nel mondo della sua vita, l’indeterminata adolescenza. È finita la guerra, il Mezzogiorno pare si sia destato da un lunghissimo sonno, è cominciato il moto contadino, che è l’affermazione dell’esistenza di un popolo intero. In questo popolo risvegliato per la prima volta, per la prima volta vivente e protagonista della propria storia (con quali difficoltà e delusioni, e scoraggiamenti e dolori) Rocco vive la propria giovane vita; ed è il fiore di quella terra solitaria, perché il suo sviluppo di uomo è tutt’uno con il nuovo germogliare di quel popolo contadino. Con la naturale, spontanea scelta da cui nascono i capi e gli eroi popolari, egli è riconosciuto dai suoi: il piccolo ragazzo dai capelli rossi, dal viso imberbe di bambino, è il primo sindaco di Tricarico, per volontà dei contadini. L’attività politica e amministrativa non è allora per lui un’esperienza esterna e pratica, ma un’esperienza, nel pieno senso della parola, poetica.

(Risale a quel tempo, al maggio del ’46, il nostro primo incontro, e la nostra amicizia, che a me fu, più di ogni altra, preziosa; e che forse contribuì, in qualche modo, alla sua presa di coscienza del mondo contadino di cui faceva parte, e al suo guardarlo per la prima volta con distacco e amore, al suo farne poesia, attraverso un linguaggio libero, personale, non letterario.)

Questa sua maturazione e liberazione nell’ azione (un ospedale, una strada, una occupazione di terre, una discussione sindacale, sono, in un mondo nuovo, profonde verità poetiche) creano il grande periodo della poesia di Rocco del ’47-’48, con le poesie contadine, le poesie di ispirazione politica e sociale, tutte bellissime; alcune di esse sono, a mio avviso, grandi poesie, eccezionali nella nostra letteratura [« Sempre nuova è l’alba», questa Marsigliese del movimento contadino, « Pozzanghera nera», « Il massaro » ecc.). Con queste poesie egli si afferma non soltanto come poeta, ma come l’esponente vero della nuova cultura contadina meridionale, la cui espressione e il cui valore primo non può essere che poetico. (Allo stesso modo con cui, ma su un piano razionale, storico e critico, un altro giovane, Piero Gobetti, lo era stato, nel primo dopoguerra, per il mondo operaio e intellettuale del Nord.)

Poi, dopo questo primo sbocciare di espressione compiuta, comincia per Rocco un’esperienza piu larga, e spesso angosciosa e difficile e dolorosa. È la vita, con i suoi complessi, i suoi problemi, le sue contraddizioni. È la lotta quotidiana nel piccolo paese, la caduta dei primi entusiasmi contadini, dopo la dura svolta del 1948; le donne, tutte, in un certo senso, straniere; il contatto con la città, difficilissimo; con un mondo già tutto fatto, incomprensibile, chiuso nella sua estranea molteplicità. Sono prove dure, culminate con un periodo di prigione, per ragioni politiche, nel 1950; e poi con le sue dimissioni da sindaco; e con la sua andata a Napoli, liberazione insieme ed esilio. È un periodo di lotta e di conoscenza, di assimilazione e di ritegno, di aperture e di rifiuti. È l’uscita da un nido tanto più materno quanto piu povero e desolato, il contatto con l’altro mondo. Questi anni di varie esperienze ci danno poesie, alcune bellissime, altre più direttamente legate alle oscillazioni sentimentali di questo processo di maturazione.

Ma Rocco, in questo processo, si apre sempre più a grandi interessi umani, impara sempre più a contemplare il mondo partecipando continuamente (con quale fatica tuttavia, e dolente entusiasmo) alla vita; e sente in sé la capacità e la necessità di una grande e lunga strada, di una alta traiettoria che lo riporterà al mondo contadino da cui è partito, con coscienza ormai piena. Sono gli anni 1952 e 1953: è, credo, il secondo grande periodo della sua poesia; dove il senso universale della vita riempie i suoi versi, arricchiti di amorosa intelligenza; dove pure, in quella pienezza, è il presentimento della morte, e la grandezza di un destino breve; fino alle ultime poesie, quelle dell’ultimo giorno [« O mio cuore antico, / topo solenne che non esci fuori » … … « Mamma, tu sola sei vera »];

Cosi, con questa altezza poetica raggiunta ed espressa, finisce la sua poesia e la sua vita, cosi breve per troppa intensità umana. Il cammino percorso da Rocco Scotellaro in cosi pochi anni, da un muto mondo nascente a una piena espressione universale, era quello di secoli e secoli di cultura: troppo rapido per il suo piccolo, fragile cuore contadino.

CARLO LEVI