Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 27 giugno 2023

DIPESH CHAKRABARTY ED ERNESTO DE MARTINO: UN CONFRONTO POSSIBILE

 

Gli autori che fanno parte dei Subaltern Studies propongono nuovi modi di considerare le categorie giudicanti della storia, facendo emergere il ruolo degli individui e dei gruppi emarginati

 


MA QUEL CONFRONTO ‘S’HA DA FARE’ (1.)

 

Nell’ambito di un confronto possibile e necessario fra l’opera e la metodologia di lavoro storico del più vicino degli allievi e collaboratori di Ranajit Guha, Dipesh Chakrabarty, lo studioso indiano dell’Università di Chicago autore dell’importante saggio “Provincializzare l’Europa” (Meltemi, 2016 - ed.or. 2000) ; e l’opera e la metodologia storicista della ricerca antropologica ed etnografica di Ernesto de Martino, da noi considerato importante e internazionale figura di intellettuale e scrittore dei Subaltern studies, in particolare per la cosiddetta ‘trilogia meridionalista’, sottoposta, specie negli ultimi tempi, continuamente ad interpretazione critica da chi separa la antropologia filosofica e l’ontologia etnologica e i fondamenti teoretici dello stesso autore. In effetti il confronto Chakrabarty - de Martino è sostanzialmente funzionale a un tema posto dallo stesso Ranajit Guha e su cui insiste Chakrabarty: il ruolo della religione e ancor di più della ritualità simbolica nella 1. ricostruzione narrativa dei subalterni; 2. traduzione nell’impegno politico-culturale alla soggettività ‘agente’ dei subalterni.

Se ne occupa una tesi di laurea delle Università di Padova e Cà Foscari di Venezia (Corso di Laurea Magistrale interateneo in Scienze delle Religioni) di Enrico Brisol (relatrice la prof.ssa Chiara Cremonesi): “Ernesto De Martino e Dipesh Chakrabarty: un confronto indispensabile ed inadeguato” che citiamo e titoliamo per una parte specifica. /

fe.d. #SubalternStudiesItalia

pubblicata su Academia.edu

 

L’Ethos del trascendimento, fondamento teoretico e ontologico dell’antropologia filosofica di de Martino

 

- L'origine del concetto di “ethos trascendentale del trascendimento della vita nella valorizzazione intersoggettiva” (questa la formulazione completa) è da rintracciarsi nella ricerca di una concezione universalmente umana della presenza, del fondamento dell'esserci-nel-mondo, vale a dire l'ultima e inderivabile pensabilità e operabilità dell'esistere. Il percorso che ha portato De Martino alla definizione di questo elemento è tortuoso e segnato tanto dall'influenza della filosofia di Croce quanto di quella esistenzialista di Heidegger e di Paci, che egli interpreta con una certa libertà prendendo in prestito riflessioni che assimila e riutilizza con rinnovata originalità in un proprio linguaggio. Per esempio è dall'esistenzialismo positivo italiano, in polemica con quello negativo di Heidegger, che De Martino acquisisce come fondamento dell'umana esistenza la nozione di “dover essere”, o meglio di “doverci-essere-nel-mondo”, che permette quello slancio valorizzatore intersoggettivo della vita, quella sempre rinnovantesi progettazione comunitaria dell'operabile, quell'emergere dalla situazione mediante il vario impegno di deciderla, secondo valore, che per un verso fondano la finitezza del singolo e la inesauribilità del suo compito operativo e per un altro verso garantiscono l'apertura del singolo all'essere.

 

 

Gramsci e Said: la nascita degli studi subalterni

 

- «Gli studi subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?». Questo è il titolo dell'articolo pubblicato sulla rivista DeriveApprodi del 2003 da Marcello Tarì + [nota redazione] + che si interroga sullo statuto e l'utilità “per noi” di questi studi. Per rispondere a questa domanda, sapientemente posta e discussa nell'articolo, prima dobbiamo cercare di capire cosa intendiamo quando parliamo di studi subalterni e postcoloniali e quale sia la loro origine. Per far ciò non ci discosteremo di molto dalle riflessioni di Ernesto de Martino che è uno dei precursori di questi studi insieme ad alcuni antropologi italiani del secondo dopoguerra che attraverso il richiamo ad Antonio Gramsci (1891 – 1937) e alle discussioni riguardo al marxismo, cominciano a prendere sul serio i modi di vita subalterni e il folklore, con una particolare attenzione al contesto meridionale italiano.

 

 

+ nota: vedi in questo blog

PER UN DIBATTITO CRITICO SUI SUBALTERN STUDIES E POSTCOLONIAL STUDIES

 

 

#RanajitGuha #ErnestoDeMartino #DipeshChakrabarty

 

Nella fotocomposizione #SubalternStudiesItalia, in senso orario, Dipesh Chakrabarty, Ernesto de Martino, Ranajit Guha

 


 

MA QUEL CONFRONTO ‘S’HA DA FARE’ (2.)

 

C’È STORICISMO E STORICISMO

 

- La critica al modo unilaterale di concepire la storia [è] alla base del progetto degli subaltern studies: la ricerca sul tema del subalterno, sulla sua capacità di esprimersi, portata avanti prima da Gramsci e successivamente da Said, è fondamentale per il sorgere di questi studi. In tal modo anche gli autori che fanno parte del collettivo indiano propongono nuovi modi di considerare le categorie giudicanti della storia, facendo emergere il ruolo degli individui e dei gruppi emarginati. È in questo orizzonte che l’opera Provincializzare l’Europa, proponendo un tipo di storia alternativa e particolare, la storia 2, da affiancare alla storia 1, cioè quella analitica e generale europea, è sorta e diventata indispensabile.

Naturalmente, nel portare avanti un confronto simile non possiamo dimenticare i diversi ambienti culturali, sociali e storici nei quali i nostri autori hanno scritto. Chakrabarty nasce a Calcutta nel 1948, anno della pubblicazione de Il mondo magico, ed esattamente quarant'anni dopo la nascita di De Martino avvenuta nel 1908; inoltre, egli pubblica il volume che abbiamo analizzato, Provincializzare l'Europa, nel 2000, quindi 35 anni dopo la morte dello studioso italiano avvenuta nel 1965. Li separano circa due generazioni nelle quali, se dovessimo valutare con attenzione, il mondo e la civiltà umana hanno subito la trasformazione più considerevole mai registrata dalla storia. E ancora, ovviamente, li separano alcune migliaia di chilometri, anche se più importante della distanza fisica è rilevare il fatto che Chakrabarty cresce in un paese non occidentale e appartenente all'Impero Britannico, vale a dire colonizzato, ufficialmente fino all'anno prima della sua nascita (1947). Queste distanze “spazio-temporali” hanno evidentemente comportato anche degli orientamenti di studio differenti, almeno in apparenza: mentre De Martino, crociano della prima ora, si è occupato principalmente di storia, etnologia e antropologia delle religioni, Chakrabarty si dedica soprattutto al problema storiografico negli studi postcoloniali, ovvero a ripensare il ruolo dei popoli subalterni, in particolare quelli indiani, all'interno della narrazione storica dominante. Dico “apparentemente differenti” perché, da un certo punto di vista, la cosiddetta “trilogia meridionalista” può essere letta come un progetto che anticipa quello degli autori postcoloniali, in quanto rilegge l'arcaico, l'oppresso, il subalterno presente nel sud Italia in chiave marxista tenendo presente, come evidenziato per esempio da Pizza e Signorelli, quanto scritto nei testi di Gramsci che cominciavano a circolare proprio nel periodo in cui De Martino si avviava alla ricerca etnografica in meridione.

Ciononostante, se consideriamo questi due autori solamente in relazione alla distanza temporale e culturale che li separa, e che, tuttavia, deve essere sempre ben presente, non ci accorgiamo degli aspetti che li accomunano. Il più importante e fondamentale per la prospettiva storico-religiosa, quella di cui ci occupiamo qui, è il tentativo di superare la visione eurocentrica della storia. Essi cercano di superare l'etnocentrismo culturale europeo perché frutto di una prospettiva storiografica che tende esclusivamente alla correttezza scientifica e quindi alla verificabilità razionale dei fatti. Con ciò non intendo dire che tale posizione venga considerata errata sia da Chakrabarty che da De Martino; questi autori piuttosto, portano alla luce i problemi che hanno individuato nell'utilizzo di questa metodologia, come per esempio quello relativo al ruolo, al peso, all'influenza, al potere, che detiene il soggetto in una simile narrazione. La questione relativa all'etnocentrismo, e di conseguenza all'eurocentrismo, è, dunque, di primaria importanza per entrambi gli autori. Essi, seppur sviluppando argomentazioni differenti, ritengono che il problema che deriva da una simile concezione della storia sia dovuto a quello che possiamo definire naturalismo o atteggiamento scientifico, oppure, più in generale, al peso che hanno avuto la scienza e la ragione nella creazione delle categorie giudicanti delle moderne scienze storiche e sociali e di conseguenza dello storicismo.

Enrico Brisol

*dalla tesi di laurea delle Università di Padova e Cà Foscari di Venezia (Corso di Laurea Magistrale interateneo in Scienze delle Religioni) (relatrice la prof.ssa Chiara Cremonesi): “Ernesto De Martino e Dipesh Chakrabarty: un confronto indispensabile ed inadeguato”, § corrispondenti -

 

#SubalternStudiesItalia

pubblicata su Academia.edu

 

 

In conclusione

mi sembra che tra le prospettive dei due autori emerga, almeno grossolanamente, una comune critica al modo di affrontare l'altro-da-sé tipico della modernità europea. Il punto di convergenza è la critica mossa da entrambi allo storicismo e con esso all'eurocentrismo, anche se nell’autore italiano la valutazione negativa è rivolta allo storicismo “pigro”, a favore di uno “eroico”. In De Martino l'analisi parte dall'evidenziare il ruolo e l'importanza dell'atteggiamento naturalistico rispetto allo studio etnografico per poi ampliare lo sguardo, ne La fine del mondo, all'influenza delle scienze positive sulla filosofia, richiamando l'attenzione sul processo di universalizzazione e sulla sicurezza nel giudizio che ne scaturisce. In Chakrabarty la critica è rivolta alla prospettiva storicistica per intero, intendendo con questo termine, forse troppo semplicisticamente, l'intera prospettiva storica moderna. Anch'egli, in accordo con lo studioso italiano, individua nell'universalizzazione delle categorie giudicanti il vero problema di tale prospettiva storica; le sue osservazioni tuttavia sono in parte differenti e riguardano principalmente l'origine della coscienza storica europea, ovvero le espressioni moderne che ho schematicamente classificato con il termine anacronismo e con l’atteggiamento scientifico-razionale. Mi spingerei ad affermare, senza troppe cautele, l'ammetto, che in ambedue gli autori la classica divisione tra natura e cultura, fondamentale per la modernità europea, sembra essere messa in discussione o perlomeno sfumata.

Vorrei infine ricordare che in nessun caso i due autori rivendicano una prospettiva relativistica. De Martino indica più volte nei suoi testi l'indispensabilità di una storia con basi solide per uscire dalla perdita della domesticità del mondo contemporaneo; una storia che naturalmente deve essere consapevole della sua portata e dei propri limiti per poter proporre un confronto, una comparazione, con gli altri modi di essere uomini in società, ovverosia la “via difficile dell’umanesimo etnografico”. E lo stesso vale per Chakrabarty che mantiene e certo non cancella la storia analitica, la storia 1, la storia europea, “colpevole” di eliminare le differenze e di essere incompleta, ma comunque indispensabile per affrontare gli essenziali problemi sociali della giustizia e dell'equità nei paesi non-occidentali. Ivi, pag.70







sabato 24 giugno 2023

LA BOVISA. SCUOLA POPOLARE E RISCATTO DEI SUBALTERNI

 

Partecipazione e bellezza di muoversi in una dimensione collettiva, il vento della Teologia della Liberazione soffiava caldo dal Sudamerica

 

da Andrea Donegà: DON COLMEGNA: AL CENTRO DEI MARGINI La vita di un sacerdote che ha declinato la vocazione religiosa in un costante impegno civile e sociale a favore degli ultimi © Edizioni Homeless Book - www.homelessbook.it ISBN: 978-88-3276-316-4 (brossura) 978-88-3276-317-1 (eBook) Pubblicato nel giugno 2023

 

estratto 



2. La Bovisa. Scuola popolare e riscatto degli ultimi 

Fermento sociale. «Il Concilio Vaticano II, chiuso nel dicembre 1965, iniziava a riversarsi nella quotidianità. La riforma della liturgia, del 7 marzo 1965, fu una vera e propria rivoluzione culturale che vedeva la Chiesa come popolo di fedeli laici, uomini e donne che camminano nella stessa direzione. Anche io parlo molto di cristianesimo intriso di laicità anche se, spesso, mettiamo in contrapposizione preti e laici. Laicità significa partire dalla ragione, dalla razionalità, dalle cose concrete e lì condividere e ricercare insieme, senza pregiudizi. In questo senso il cristianesimo è educazione alla laicità. In fondo, il nostro è un Dio che si è fatto uomo, che ha vissuto i riti della normalità ed è entrato nella vita quotidiana. La laicità è quindi la capacità di far parlare il Vangelo in modo che sia comprensibile a tutti, che non incuta il timore del potere. La laicità ci lascia un vuoto da riempire con la ricerca». Sono queste le parole con cui don Virginio [Colmegna, ndr] spiega ciò che il Concilio indicava. Una riscoperta della dimensione ecclesiale, della partecipazione e della bellezza di muoversi in una dimensione collettiva. Ripartire dalla liturgia significava per la Chiesa porsi in un dialogo autentico con la modernità. Il filosofo Ludwig Wittgenstein sosteneva che «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» e anche per la Chiesa riformare il linguaggio diventò una necessità per essere in grado di rappresentare il mondo nuovo che stava venendo avanti, per stare tra le persone, in mezzo alla quotidianità e all’esistenza di quegli uomini e donne di buona volontà, credenti e non credenti, accomunati dal desiderio di trasformazioni radicali. «Don Virginio è figlio del Concilio. Prima del Concilio la messa era in latino e il prete dava le spalle all’assemblea. Dopo, si inizia a utilizzare una lingua comprensibile e il sacerdote si gira verso la gente. Per lui questo ha avuto un forte valore simbolico: si è voltato, ha guardato le persone ed è andato in mezzo a loro» ricorda Enrico Finzi. Inoltre, il vento della Teologia della Liberazione soffiava caldo dal Sudamerica, scoprendo la dimensione politica della carità e stimolando l’impegno a sradicare le cause della povertà. La carità che inquieta è quella che lascia delle domande e spinge a cercare risposte, a differenza della cultura dell’assistenzialismo che, invece, consola e autoassolve. Don Virginio si trovava ancora in seminario quando «il 17 novembre del 1967, dopo una lunga assemblea studentesca, venne votata l’occupazione dell’Università Cattolica. Chiedevamo di togliere l’aumento spropositato delle tasse universitarie, considerato che quell’Ateneo era frequentato da studenti con redditi mediamente più bassi rispetto alle altre università e da tantissimi lavoratori che riempivano i corsi serali. Rivendicavamo la trasparenza dei bilanci e degli atti amministrativi, il riconoscimento dei diritti di assemblea e di manifestare le nostre opinioni, l’abolizione della censura preventiva e la possibilità di discutere maggiormente i contenuti dei corsi. Molti degli insegnamenti universitari di oggi non sarebbero stati possibili senza il Sessantotto. L’occupazione durò pochissimo perché fummo sgomberati dalla polizia che aveva il comando a pochi passi dall’Università. Io venni espulso insieme ad altri due» ricorda il professor Luciano Pero, uno dei leader del Movimento Studentesco. Era anche la stagione delle grandi lotte sindacali in quello che fu definito l’Autunno Caldo. Ripercorre quella fase storica Franco Bentivogli, che fu Segretario Generale dei metalmeccanici della Cisl: «Gli anni che precedono il 1978 e il 1979 sono segnati da grandi avvenimenti nazionali e internazionali. Tensioni valoriali, spinte di democrazia e di progresso e nuove speranze attraversavano il mondo coi messaggi ideali, culturali, politici e religiosi di figure quali Papa Giovanni XXIII, John Kennedy, Nelson Mandela, Giorgio La Pira, Martin Luther King, che davano nuova forza ai profeti più vicini, spesso bistrattati dalle rispettive autorità. Per il mondo del lavoro il 1969 e l’Autunno Caldo furono il prodotto di un lungo cammino iniziato nei primi anni ’60 caratterizzati da esperienze di lavoro, personali e familiari pesantissime: disoccupazione, bassi salari, subordinazione senza limiti, debolezza e divisione dei sindacati, rassegnazione e fatalismo dei lavoratori, autoritarismo. I tempi stavano cambiando. Erano gli anni del miracolo economico. Masse di giovani entrarono nelle fabbriche, in genere con una maggiore scolarizzazione. E tuttavia, anche chi lavorava faceva fatica a giungere alla fine del mese col solo salario. Con l’avvento del 1968 fu tutto un fiorire di nuovi soggetti politici, dal movimento studentesco a gruppi spontanei, movimenti politici extraparlamentari, con linee politiche, vitalità e capacità di presenza molto diverse tra loro, anche secondo le aree territoriali. Resta il fatto inequivocabile che l’Autunno Caldo dei lavoratori ha costruito diritti e spazi di cittadinanza attiva, vere e proprie pietre miliari per il mondo del lavoro e i sindacati. Il 1969 fu anche l’anno di inizio della strategia della tensione, delle trame nere e del terrorismo: 25 aprile, bombe alla Fiera di Milano; 8 e 9 agosto, bombe sui treni e nelle stazioni; 19 novembre, omicidio dell’agente Annarumma a Milano; 12 dicembre, strage di Piazza Fontana, con 17 morti e 88 feriti; poi, bombe a Milano, in Piazza della Scala fortunatamente inesplose a differenza di quelle di Roma che fecero numerosi feriti. Il 15 dicembre muore l’anarchico Giuseppe Pinelli. Sul fronte contrattuale, quello dell’Autunno Caldo fu il contratto nazionale dell’uguaglianza e dei diritti democratici nei posti di lavoro che superò intollerabili discriminazioni, anticipando diritti sindacali che sarebbero stati sanciti un anno dopo dalla Legge 300, il mitico Statuto dei diritti dei lavoratori, come permessi, assemblee, aspettative, tutele dai licenziamenti. Il Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, il 21 dicembre 1969, presentando ai giornalisti i contenuti del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, sottolineò “l’importanza del riconoscimento dei delegati sindacali in fabbrica che uscivano dalla clandestinità e la possibilità di sviluppare una unità sindacale libera e fondata sull’autonomia”». Fuori dal seminario, don Virginio trovò una società che scalpitava. I cambiamenti erano all’ordine del giorno e correvano veloci sul quadrante della storia, intrecciandosi in una trama difficile da dipanare. La grande complessità faceva intravvedere, da più angolazioni, la possibilità di realizzare una società più giusta. Per una scuola inclusiva e moderna «Don Virginio arrivò alla Bovisa nel 1979 e noi lo conoscemmo all’Oratorio. L’accoglienza non fu delle migliori visto che ad attenderlo trovò uno striscione con scritto “vergogna!”, realizzato dai ragazzi della generazione precedente alla nostra che protestavano per l’uscita di don Enrico» ricorda Daniela Rossi, in quegli anni poco più che quattordicenne. Don Colmegna si sistemò, con mamma e papà, in un appartamento vicino alla parrocchia di Santa Maria del Buon Consiglio, nel complesso dell’Oratorio di via Varè. I panni che mamma stendeva sul balcone si annerivano per i fumi dei prodotti di scarto della Montecatini. Fu quello il suo primo sguardo su Milano, città che non conosceva. La Bovisa era una delle tante periferie industriali, fatte di opportunità e contraddizioni e, come sostiene Luciano Pero, «uno dei luoghi di primo avvicinamento alla città per tante persone che arrivavano da varie parti di Italia per lavorare. Lì c’erano anche i migliori tornitori del nostro Paese» sparsi nelle diverse piccole e medie industrie che caratterizzavano il quartiere e sorgevano intorno alle più grandi e storiche aziende quali la Ceretti-Tanfani, Oerlikon, Lepetit, Carlo Erba, Face Standard. In quegli anni l’Italia era attraversata da una forte immigrazione interna che modificò geografie sociali e culturali dentro le grandi trasformazioni del lavoro. Lo storico Guido Crainz, nella sua introduzione al bel libro-inchiesta di Franco Alasia e Danilo Montaldi “Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo»” (Donzelli Editore), ricorda come «fra il 1955 e il 1970 i mutamenti di residenza sfiorarono i venticinque milioni, e dieci milioni di essi portarono in un’altra regione. Già allora gli immigrati, specie quelli meno qualificati e professionalizzati, trovavano sistemazione nelle case più vecchie e degradate».

 

cfr. su questo blog: LA COREA a MILANO: il meridiano subalterno del Nord di Danilo Montaldi

 



Don Virginio Colmegna,  a 77 anni lascia la Casa della carità, ma fonda "Speranza oltre di noi"




Le comunità di base, i collettivi politici, culturali e di studio, i seminari permanenti, sono forme di socialità e socializzazione, di discussione, confronto e deliberazione collettiva, che rimandano ad una nuova concezione della democrazia. In foto la comunità di base di don Virginio Colmegna

#SubalternStudiesItalia






sabato 17 giugno 2023

PER UN DIBATTITO CRITICO SUI SUBALTERN STUDIES E POSTCOLONIAL STUDIES

 


Marx e il marxismo, Gramsci, Foucault e Althusser, Deleuze e il decostruzionismo, moltitudine e classe, operaismo e postoperaismo, tra antropologia, storia e filosofia

Gli Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano? (1^parte)

uno scritto di Marcello Tarì

-Lo storico dell’Autonomia operaia interpreta i Subaltern studies e i Postcolonial studies.         /Subaltern studies Italia /

- Come è noto i Subaltern Studies – così come anche i Postcolonial Studies – sono nati in un preciso milieu geo-politico; a parte il caso di Edward Said, il quale risulta piuttosto esserne fra gli ispiratori, si tratta per la gran parte di intellettuali indiani – alcuni dei quali insegnano in università occidentali – che tra gli anni ’70 e ‘80 del secolo scorso hanno portato un attacco frontale alla tradizione storica nazionalista indiana e a quelli che erano e sono chiamati Area Studies, veri e propri studi governamentali dedicati all’analisi storico-antropologica di enormi aggregati di territori e popolazioni che, anche in tal modo, sono stati unificati/esotizzati dai poteri transnazionali.

Furono fondate così riviste importanti come Subaltern Studies e Public Culture, dei veri e propri collettivi di ricerca, le quali hanno potuto contare sulla direzione editoriale di alcuni studiosi di grande levatura – intellettuale e militante – come Ranajit Guha e Arjun Appadurai. Il risultato del lavoro dei collettivi fu anzitutto quello di costruire una specie di Comune Epistemologica che potesse permettere alle nuove generazioni di intellettuali, indiani e non solo, di smarcarsi dalla tradizione di studi nazionalista interna e, allo stesso tempo, di esprimere un alto livello di conflittualità con quell’apparato di saperi – dominante a livello mondiale – che continuava a offrire una immagine orientalista e sottosviluppista delle moltitudini asiatiche del tutto funzionale alla “logica” della subalternizzazione.

Il marxismo è stato specie per i subalternisti, ma in grande misura anche per i postcoloniali, un punto di riferimento essenziale (e per i primi in particolare un gramscianesimo revisited) ma lo è stato in modo assolutamente non convenzionale; nei loro studi, infatti, la tensione con gli scritti di Marx (in particolare il I libro del Capitale e i Grundrisse) è sempre presente in quanto stimolo alla ricerca ma anche di critica positiva alle varie ermeneutiche marxiste, ufficiali o meno che fossero. La cosa essenziale per i subalternisti è sempre il situare la critica dell’economia politica marxiana e mai assumerla ideologicamente, ovunque e comunque, come fosse la chiave dell’universale (cfr. ad esempio il saggio di Dipesh Chakrabarty, Conditions for Knowledge of Working-Class Condition, in Guha-Spivak Selected Subaltern Studies, New York-Oxford 1988). Un simile atteggiamento di vigilanza epistemica si deve anche alla loro precoce ricezione dell’opera di Michel Foucault che in India appare essere stata tanto distante da quella, in confronto davvero poco impegnativa, dei “cugini” anglosassoni dei Cultural Studies quanto vicina a quella di un certo marxismo italiano che tra gli anni Ottanta e Novanta ha rinnovato profondamente la pratica teorica operaista (non è certo un caso, infatti, che entrambe le tendenze convergano oggi verso una “politica delle moltitudini”).

Oggi è piuttosto difficile delineare una precisa linea di demarcazione tra gli orientamenti, quello dei subalternisti e dei postcoloniali: giustamente uno è entrato nell’altro e viceversa – il sottotitolo del libro Provincializing Europe di Chakrabarty, che è uno dei fondatori degli studi subalternisti, recita infatti Postcolonial Tought and Historical Difference (Princeton University Press, Princeton-Oxford 2000) – anche se l’impressione è che alcuni tra i nomi di spicco degli studi postcoloniali, ad esempio Homi Bhabha, sembrano essere lontani dall’atmosfera decisamente marxiana che contraddistingue, pur con molte sfumature, il resto degli autori e autrici coinvolti nell’avventura subalternista. Il tipo di relazione tra i due orientamenti in definitiva a me sembra si possa descrivere come di alleanza piuttosto che di identità come invece spesso si tende a fare, specie nella loro ricezione accademica.

Forse è quell’aria di famiglia – ereticamente marxiana, cioè – a rendere gli studi subalterni qualcosa che in ogni caso “ci riguarda”; almeno per chi si riconosce come prodotto e tuttora produttore, magari adulterato, di quella storia. Di quell’altra storia, ovvero, che ha come soggetto i subalterni che si ribellano praticamente alla logica del capitale anteponendo a questa l’autonomia delle moltitudini. In ogni caso gli studi subalterni e quelli postcoloniali sono divenuti sia parte essenziale di quella riflessione comune che ha portato a riconoscere un cambio di paradigma radicale nelle forme di dominio transnazionale – e dunque delle modificazioni nell’espressione della resistenza delle moltitudini – che un corpus di studi di fondamentale importanza per comprendere i dispositivi di comando attivati dai poteri capitalistici durante la fase precedente – caratterizzata dall’imperialismo coloniale – ed una delle fondamentali lezioni dei subalternisti, quindi, è consistita nella messa in evidenza di come questi dispositivi siano stati compresi – molto spesso anche da sinistra – tramite una dialettica “bianca” che ha tradotto sia le dinamiche di sfruttamento che la singolarità delle forme di resistenza nei domini coloniali in qualcosa di poco o affatto corrispondente alla realtà, almeno così come vissuta dalle soggettività subalterne.

(fine 1.a parte)

 

LA CRITICA e IL DIBATTITO

Gli Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?

(2^parte: Dall’Italia all’India e ritorno)

I temi trattati in questa sezione: dalla demologia alla “moltitudinologia” passando per le teorie di Toni Negri. La critica al ‘revisionismo subalternista’ deve approdare alla “moltitudinologia“?: per Tarì la resistenza al presente non puo’ che partire da qui, ma è proprio questo il locus del dibattito critico, almeno per chi non crede a molti dei sofismi del post-operaismo (cosiddetto).

- Alcuni antropologi italiani hanno recentemente riconosciuto negli studiosi subalternisti degli inconsapevoli continuatori di quella particolare e felice stagione dell’antropologia italiana che bisogna far risalire a studiosi come Ernesto De Martino, Alberto M. Cirese, Luigi M. Lombardi Satriani e Alfonso M. Di Nola e fuori dell’ambito universitario a Gianni Bosio, il cui incompiuto Il Trattore ad Acquanegra è forse tra i lavori che, almeno per alcuni versi, più si avvicina a quel certo “stile” che caratterizza la storiografia antropologica dei Subaltern Studies. Sono stati, infatti, tutti intellettuali militanti che nei decenni immediatamente successivi al secondo dopoguerra dedicarono i loro sforzi nel cercare di costituire – attraverso il richiamo a Gramsci, spesso prima ancora e al di là dello stesso Marx – una scienza storico-antropologica dei subalterni politicamente impegnata (cfr. F. Mugnaini in Clemente-Mugnaini, Oltre il folklore, Roma 2001, p. 15).

-È Ernesto De Martino che in Italia comincia a prendere sul serio i modi di espressione subalterni e a valutarne positivamente la loro autonomia. Le sue considerazioni eretiche sul “mondo magico”, così come il suo approccio ontologico alle tematiche etnologiche, inoltre credo non stonerebbero accanto a quelle di alcuni subalternisti contemporanei circa l’intreccio “reale” tra credenza, autonomia e rivolta che segna tante storie del proletariato globale. Così come importanti sono, ancora oggi, le considerazioni che Gianni Bosio svolgeva a cavallo degli anni Settanta sulla necessità di distogliere lo sguardo dal passato per concentrare l’attenzione della ricerca storico-antropologica comunista direttamente sul terreno della città-fabbrica; una considerazione che, riportata al presente, si traduce come dislocamento integrale sul piano della metropoli dove, appunto, ritroviamo gli studi postcoloniali.

- Quella prospettiva di studi militanti – per motivazioni che meriterebbero un approfondimento – in Italia entrò in una irreversibile crisi all’inizio degli anni ’80, paradossalmente proprio mentre quegli studiosi del mondo subalterno nell’Asia del Sud iniziavano a pubblicare la loro rivista e quindi a essere celebrati nelle più prestigiose università dell’occidente.

- Una cosa è certa, mi pare: il gramscianesimo dei subalternisti è passato gioiosamente attraverso la temperie poststrutturalista e decostruzionista, cosa che gli studiosi italiani di oggi sono invece molto restii a cogliere come elemento essenziale per l’analisi, trattandolo generalmente in maniera piuttosto superficiale (una nota a piè di pagina e via) e spesso depurandolo della sua intrinseca prospettiva conflittuale preferendogli, al limite, una lettura estetizzante. Del resto anche Marx e lo stesso Gramsci oggi non sembrano più essere tanto frequentati dall’antropologia italiana ufficiale. Ecco, questo passaggio “revisionistico” compiuto dai subalternisti e dai postcoloniali in relazione all’eredità marxista, o meglio, tramite la sua reinvenzione dal basso, è uno dei motivi per cui ritengo di grande importanza la ricezione di quegli studi nell’ambito italiano: forse è anche attraverso questi nomi che facciamo fatica a pronunciare correttamente, a quelle lotte disperse nella storia decentrata e decentrante degli altri, che si riuscirà finalmente a introdurre in modo non superficiale le turbinose correnti del poststrutturalismo e del marxismo postoperaista anche nel piano degli studi storico-antropologici nostrani. E così, forse, si potrà comprendere non solo qualcuno dei motivi per cui gli studi subalterni italiani non sopravvissero alla crisi della fine degli anni ’70 ma, anche e specialmente, si potrà immaginare cosa oggi potrebbero invece essere: una moltitudinologia e non più una demologia, innanzitutto.

- Non meno importante in questa considerazione critica – al contrario – è il fatto che Chakrabarty, Guha, Spivak, Chatterjee, Appadurai e i loro compagni di viaggio si sono mostrati molto più attenti della maggior parte degli storici e degli antropologi occidentali – e italiani in particolare – sia alla “ragionevolezza” dell’insurrezione proletaria degli anni ’60 e ’70 che alla forza teoretica e rivoluzionaria delle argomentazioni foucaultiane e deleuziane: anche per questo Toni Negri può oggi dire, con ragione, che i Subaltern Studies rivestono nella storiografia proletaria mondiale lo stesso ruolo che i Quaderni Rossi hanno nella genealogia delle scienze sociali insurrezionali (Toni Negri, I codici svelati del colonialismo, “il Manifesto” 12-12-2002). Va da sé che questa conclusione deve intendersi nel senso che i Subaltern Studies, come già i Quaderni Rossi, ci consegnano non solo dei preziosi studi ma specialmente dei formidabili strumenti di lotta: studi da utilizzare per aprire i retrobottega della storia conflittuale della globalizzazione e, allo stesso tempo, come un esercizio di memoria su noi stessi che possa indicarci delle nuove forme possibili di resistenza al presente. 

(fine 2.a parte)

 

LA CRITICA e IL DIBATTITO

Gli Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?

(3^ e ultima parte, argomento: Partha Chatterjee: come nasce il concetto di negoziazione della “governamentalità”)

In quegli stessi anni ‘70 Chaterjee e i suoi colleghi scoprirono Gramsci, Althusser e Foucault e il suo rapporto con l’occidente, sino ad allora mediato principalmente dallo studio dell’opera di Marx, fu contornato, attraversato, arricchito e criticato tramite le riflessioni suscitate da questi altri autori. Era però cominciato anche un decennio molto duro, segnato dalla sconfitta del maoismo radicale – cosa che ebbe una ricaduta negativa su tutti i movimenti antagonisti nel contesto postcoloniale – e in India dalla violenta repressione delle opposizioni ad opera del governo di Indira Gandhi. In questo contesto Chatterjee comprende che oramai «la ricerca in scienze sociali doveva la sua pertinenza non divenendo meno ma più politica» ed è a partire da questa esigenza comune a molti che nacque il gruppo di Subaltern Studies.

Il lavoro del collettivo fu accolto dal resto dell’accademia indiana con moltissima ostilità. Gli storici della sinistra ufficiale vi videro, giustamente, una aperta sfida alle loro tesi sullo Stato-Nazione indiano e mossero ai ricercatori del collettivo l’accusa di essere una emanazione neocolonialista della famigerata Scuola di Cambridge ma anche di essere, addirittura, dei comunisti “castristi” e separatisti (non ricordano proprio nulla, a noi, questo genere di accuse infamanti?). Tutto ciò però, dice Chatterjee, dimostrava esattamente un fatto: i Subaltern Studies erano riusciti a toccare uno dei punti deboli dell’ambiente accademico e politico dominante che per la grandissima parte era composto, appunto, da nazionalisti di destra e di sinistra legati a una politica e a una cultura che tutto poteva essere tranne che antagonista e autonoma.

Secondo lui, quindi, il fatto che le loro ricerche, spesso scritte in lingua bengali, a un certo punto iniziarono a essere molto conosciute all’estero fu dovuto, da un lato, all’emergere degli studi postcoloniali nelle università americane attorno all’inizio degli anni ’80 e che divennero velocemente un fenomeno mainstream e, dall’altro, al rinato interesse storico e teorico per il fenomeno del nazionalismo. Potremmo aggiungere che era senz’altro dovuto anche al contemporaneo processo di costituzione imperiale e del suo limite ontologico: Seattle non era lontana nel tempo e, oramai, nemmeno nello spazio. Così Chatterjee si rimise in viaggio: Stati Uniti, Gran Bretagna, Europa (è lui che distingue, evidentemente, tra Gran Bretagna e Europa).

Secondo Chatterjee, comunque, il successo di audience degli studi sull’Asia del Sud in occidente non si deve al fatto che i campus sono da qualche anno affollati da studenti e professori di origine asiatica ma all’interesse crescente delle scienze sociali per quelle tematiche che sono state portate alla luce da loro attraverso il prisma delle lotte anticoloniali: il nazionalismo, appunto, ma anche lo sviluppo e il significato stesso della modernità. Certamente c’è qualcosa di sottilmente ironico in tutto questo interesse da parte occidentale, poiché esso è dovuto in gran parte anche «alla disciplina amministrativa e alla passione civilizzatrice del potere coloniale che ha trasformato la storia indiana in un archivio illimitato delle realizzazioni e delle aberrazioni della modernità occidentale» .

Quello che comunque Chatterjee tiene a dire è che il suo posto nella repubblica mondiale delle lettere, anche considerando questo successo globale degli Studi Subalterni, è nei fatti sempre più connesso alla sua nazionalità, o meglio al suo (non)luogo di vita, cosa che in gioventù lo avrebbe infastidito ma che oggi lo porta invece a considerare meglio la sua singolarità in quella particolare forma di repubblica mondiale composta dagli intellettuali, diasporici o meno che siano: «Anche quando scrivo su Hegel o Marx, Locke o Rousseau, Gramsci o Foucault, mi è difficile farlo, salvo che in rapporto con degli episodi e delle esperienze che sono, per così dire, sempre tangenti, cioè a margine di quello che questi grandi pensatori hanno scritto. È a forza di immergermi nelle realtà storiche della vita indiana e negoziando il mio posto nella repubblica mondiale delle lettere che ho preso coscienza di essere diventato un universitario indiano». Solo così ha senso, forse, quella tensione tra “locale” e “globale” così complicata da definirsi positivamente.

fine extract.

 


 - Marcello Tarì è ricercatore indipendente. Ha vissuto negli ultimi anni tra la Francia e l’Italia. È autore di numerosi saggi. Per DeriveApprodi ha pubblicato il libro, tradotto in più lingue, Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell’autonomia (2012) e Non esiste la rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione (2017).

Pubblicato su “DeriveApprodi”, n. 23, 2003

 

su questo blog vedi anche:

SubalternStudies, Modernità e (post)colonialismo


LA SALAD’ASPETTO della STORIA: i Postcolonial studies mettono in crisi irreversibilel’unilinearita’ della ‘civilizzazione’


FOUCAULTa CALCUTTA: Partha Chatterjee e la ‘politica dei governati’






giovedì 8 giugno 2023

RANAJIT GUHA E LE TRACCE DELLO STORICO INTEGRALE

 

Chi era Ranajit Guha, lo storico bengalese scomparso quasi centenario il 28 aprile scorso in Austria? L‘ispirazione a un metodo storico nuovo, particolare, il ricercare le “tracce” delle classi oppresse anche nelle fonti e narrazioni delle classi dominanti, lo hanno posto come il fondatore dei Subaltern studies dal 1982. Subaltern, perchè Guha riprende il Gramsci del Quaderno 25 scritto nella clinica di Formia negli ultimi anni della sua vita, in cui il filosofo sardo si interroga sui gruppi sociali subalterni, privi di autonomia ma a cui restituire la soggettività storica. Secondo Guha, la loro insorgenza spontanea e non organizzata (in India prevalentemente “dalit” e contadini, oppure la rivolta dei naxaliti in nome di Mao, non compresa dai partiti comunisti di ispirazione marxista-leninista) o mediata dalle forme rituali della religione, la loro resistenza aperta o sotterranea alla conquista imperialista e colonialista, hanno comunque reso centrale e necessaria una nuova narrazione in un paradigma critico dell’Occidente e del suo stesso quadro concettuale e interpretativo.

Qui i tributi a Guha di Subaltern studies Italia, e di Dipesh Chakrabarty, uno dei suoi allievi - collaboratori principali e di Arjun Sengupta, giornalista del The Indian Express - http://ferdinandodubla.blogspot.com/2023/06/vedi-alla-voce-ranajit-guha-subaltern.html

La storia senza narrazione è quella di chi la storia la costruisce materialmente, concretamente, pagando questa sua costruzione con l’assenza di coscienza della propria soggettività storica e ricollocando la propria appartenenza ai codici simbolici dei riti collettivi.

I gruppi subalterni subiscono sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria "permanente" spezza , e non immediatamente, la subordinazione. (..) Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale., Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 25, ed. Einaudi, 1975, pag.2283/2284. -

da Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l'Europa, Meltemi, 2016, pag. 141-144 - ed-or. 2004

La ribellione dei santal del 1855

Il celebre, penetrante saggio di Ranajit Guha, La prosa della contro-insurrezione, venne pubblicato in uno dei primi volumi dei Subaltern Studies ed è oggi giustamente considerato un classico nel suo genere. Mi sembra che l'esercizio intrapreso da Guha in questo saggio sia ostacolato da uno specifico paradosso, un paradosso che nasce precisamente dal tentativo dello storico di portare le storie delle classi subalterne all'interno della corrente principale degli studi storici. Uno degli obiettivi principali del saggio di Guha è quello di utilizzare la ribellione dei santal del 1855 per di mostrare uno dei principi fondamentali degli studi subalterni: iscrivere la coscienza degli insorti tra i principali elementi della narrazione di una insurrezione - i santal erano un gruppo tribale del Bengala e del Bihar che si ribellò contro gli inglesi e contro gli indiani non autoctoni nel 1855. Le parole di Guha (1988a, p. 45) catturano lo spirito dei primi Subaltern Studies: Questa consapevolezza dei contadini [ribelli] sembra aver ricevuto ben poca attenzione nella letteratura sul tema. La storiografia si è accontentata di considerare il contadino ribelle semplicemente come una persona empirica, o come membro di una classe, ma non come un essere la cui volontà e la cui ragione giocavano un ruolo essenziale nel costituire quella prassi chiamata ribellione (...). [L]'insurrezione contadina è vista come esterna alla coscienza stessa contadina e la Causa è posta come un fantomatico surrogato della Ragione, come logica stessa di quella coscienza. Il passaggio cruciale è “logica stessa di quella coscienza”; esso marca la distanza critica che Guha, lo storico, deve assumere nei confronti dell'oggetto di studio, la coscienza appunto. Infatti, affrontando la storia della ribellione dei santal del 1855, Guha si trova non sorprendentemente di fronte a un fenomeno comune nelle vite dei contadini: l'intervento di esseri soprannaturali. I leader santal avevano spiegato la ribellione in termini soprannaturali, come un atto determinato da un ordine del loro dio Thakur. Guha richiama la nostra attenzione sulle prove storiche e sottolinea quanto fosse importante questa concezione per i ribelli. Secondo i leader della ribellione, Sidhu e Kanu, Thakur aveva assi curato che i proiettili inglesi non avrebbero ferito i devoti-ribelli. Guha è molto attento a evitare qualsivoglia lettura strumentale o elitista di tali affermazioni. Scrive infatti: Queste, sia detto per inciso, non erano dichiarazioni fatte in pubblico per impressionare i loro seguaci (...). [E]rano parole pronunciate da prigionieri in attesa dell'esecuzione. Rivolte ai loro carcerieri e nemici durante interrogatori che si svolsero all'interno di accampamenti militari, potevano avere ben poca utilità a fini di propaganda. In quanto testimonianze di uomini appartenenti a una tribù che, a detta di tutti, non aveva ancora imparato a mentire, queste deposizioni rappresentano, per i loro autori, la verità e nient'altro che la verità (p. 91). L'analisi di Guha rende visibile una tensione peculiare del progetto dei Subaltern Studies. L'espressione “logica stessa di quella coscienza” o l'idea di una verità che era tale “per i suoi autori” sono altrettante mosse con cui lo storico assume una distanza critica da ciò che sta cercando di comprendere. In senso letterale, l'affermazione dei contadini ribelli mostra che è il subalterno stesso a rifiutare di attribuirsi l'iniziativa dell'azione o la soggettività. “Mi sono ribellato”, dice, “perché Thakur mi è apparso e mi ha detto di ribellarmi” Ovvero, come riporta lo scriba coloniale: “Non sono Kanoo e Sedoo Manje a combattere. Sarà lo stesso dio Thacoor a combattere” Nelle sue stesse parole, allora, il subalterno non è necessariamente il soggetto della propria storia, mentre lo è nella storia dei Subaltern Studies, così come in quella di ogni corrente storiografica democraticamente orientata.

Cosa succede quando vogliamo prendere sul serio la concezione del subalterno - in cui l'iniziativa della ribellione è attribuita a un dio - e, allo stesso tempo, vogliamo riconoscere al subalterno la capacità di agire e la soggettività, uno status negato dalla sua stessa affermazione? La strategia messa a punto da Guha per risolvere il dilemma si sviluppa come segue: la mossa d'apertura, contraria alla prassi della storiografia secolare o marxista, consiste nel respingere le interpretazioni in cui la religione è semplicemente una manifestazione surrogata di relazioni che sono in verità secolari e mondane (classe, potere, economia e così via). Guha sa che il suo non è un mero esercizio di demistificazione: È generalmente riconosciuto che la religiosità sia stata un elemento centrale nello sviluppo dello hool [ribellione]. Il concetto di potere che lo ispirò (...) [era di] carattere esplicitamente religioso. E non nel senso che il potere fosse il contenuto sostanziale rivestito di una forma a esso esterna, chiamata religione (...). [Di qui vengono] la sua attribuzione a un comando divino piuttosto che a una specifica ingiustizia subita; la pratica di rituali sia prima (ad esempio le cerimonie propiziatorie per esorcizzare l'apocalisse dei Serpenti Primordiali (...) sia durante la rivolta (per esempio il culto della dea Gurga, i bagni nel Gange, ecc.); la produzione e la circolazione di miti attraverso il loro caratteristico veicolo, la voce (rumour) (pp. 88-89). Nonostante Guha sia intenzionato ad ascoltare seriamente la voce dei ribelli, la sua analisi non può concedere a Thakur il ruolo attivo nella storia della rivolta che gli viene attribuito nelle narrazioni dei santal. Una strategia narrativa sostenibile razionalmente nei termini della concezione moderna di ciò che costituisce la vita pubblica - e gli storici parlano nella sfera pubblica - non può fondarsi su una relazione che riconosce al divino e al soprannaturale la possibilità di agire in prima persona nelle faccende del mondo. Ciò che i leader santal pensavano della ribellione non promuove direttamente la causa storica della democrazia, della cittadinanza o del socialismo. Deve essere reinterpretato. Gli storici accorderanno al soprannaturale un ruolo nel sistema di credenze o nelle pratiche rituali di qualcuno, ma permettergli di agire realmente negli eventi storici equivarrebbe a disconoscere le regole della prova che assicurano al discorso della storia le procedure necessarie per risolvere le controversie sul passato. Il teologo ed esegeta protestante Rudolf Bultmann ha scritto pagine illuminanti su questo problema. “Il metodo storico”, scrive Bultmann, “include il presupposto che la storia è un'unità, ossia una catena ininterrotta di fatti nella quale gli eventi sono connessi gli uni agli altri dalla concatenazione di causa ed effetto”. Con questo, Bultmann non intende ridurre le scienze storiche a una comprensione meccanica del mondo. Egli precisa la sua affermazione aggiungendo: Il che non vuol dire che il corso della storia è determinato dalla legge della causalità e che non vi sono decisioni libere da parte degli uomini, i cui atti determinano il corso della storia. Ma anche una decisione libera non si prende senza una causa, una motivazione, ed è compito dello storico scoprire le motivazioni degli atti. Tutte le decisioni e tutti gli atti hanno le loro cause e le loro conseguenze: ebbene, il metodo storico presuppone per principio la possibilità di svelarle, come pure la loro concatenazione, di modo che il corso della storia appaia nel suo insieme come un'unità compiuta.

 

1988a - An Indian Historiography of India: A Nineteenth Century Agenda & Its Implications, Calcutta: K.P. Bagchi & Company, 1988.


In questo blog trovi anche:


SUBALTERN STUDIES ITALIA SALUTA RANAJIT GUHA


I ‘POPOLI SENZA STORIA’: PROSA DEL MONDO O PROSA DELLA STORIA


 

IL DOMINIO SENZA EGEMONIA. GRAMSCI e GUHA

 


RANAJIT GUHA E I SUBALTERN STUDIES

 


Ranajit Guha: l”adattamento” di Gramsci nei Subaltern studies

 


Alle origini dei Subaltern Studies: come nacquero dai margini di Gramsci








Dipesh Chakrabarty (born 1948, in Kolkata, India) is an Indian historian, who has also made contributions to postcolonial theory and subaltern studies

martedì 6 giugno 2023

VEDI ALLA VOCE RANAJIT GUHA _ Subaltern studies Italia, Dipesh Chakrabarty, Arjun Sengupta

 

Vedi alla voce Ranajit Guha - link permanente sullo storico indiano fondatore dei Subaltern studies

  

Abbiamo cercato di contribuire in maniera fondamentale al concepimento e sviluppo della voce <Ranajit Guha> in italiano su Wikipedia, anche in collegamento con 13 paesi tra cui la stessa India. Abbiamo cercato, in particolare, di renderla sintetica per una consultazione rapida, ma senza rinunciare alla diretta documentazione delle fonti e l’acribia, come nel caso del paragrafo interamente elaborato da noi e titolato <I Subaltern studies> che abbiamo chiesto di tradurre nelle altre 13 lingue ai nostri collaboratori internazionali.

Qui trovate il link permanente nella forma attuale:


https://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Ranajit_Guha&oldid=133794080


non ulteriormente modificata della voce

 

 

Su Subaltern studies Italia_ https://www.facebook.com/profile.php?id=100071061380125

gli speciali su Ranajit Guha, lo storico indiano scomparso il 28 aprile u.s. in Austria. Il fondatore dei Subaltern studies (1982) nel ricordo e nell’impegno di ricerca e trasformazione sociale di chi alla sua figura si ispira nel presente.

 

Caratterizzante l’analisi di Guha sono anche le categorie di prosa del mondo, prosa della storia e prosa della controinsurrezione. Nella sua critica ad Hegel, secondo cui non c’è storia senza costruzione dello Stato, i popoli subalterni, coloniali, dominati dagli Imperi, sono fuori della ‘prosa della storia’, sono popoli senza storia, costituiscono la ‘prosa del mondo’. La prosa della ‘controinsurrezione’ è la narrazione delle classi dominanti contro l’insorgenza delle classi subalterne. [] Cfr. Ranajit Guha, “La storia ai limiti della storia del mondo” - con un testo di Rabindranath Tagore e Introduzione di Massimiliano Guareschi, Sansoni, 2003, pag.49. 

 

UTSAHO: IL COINVOLGIMENTO È MEMORIA, OFFRE ALLA VITA IL SUO TEMPO

 

Dipesh Chakrabarty ricorda il suo maestro, “Ranajitda” Guha

 

 

Dipesh Chakrabarty remembering Ranajit Guha: My guru, my friend 

The Indian Express

2 maggio 2023

traduzione e titoli   #SubalternStudiesItalia

 

- I lettori di questo giornale sono già stati informati con alcuni dibattiti sul significato dell'opera di Ranajit Guha, uno dei più illustri storici dell'India coloniale e moderna, morto a Vienna il 28 aprile, poche settimane prima del suo centesimo compleanno. Questo breve saggio è un tributo personale all'uomo che ha aperto la strada alla scrittura di "storie subalterne" - storie di gruppi e popoli socialmente subordinati - e i cui scritti e pensieri hanno ispirato profondamente molti storici e scienziati sociali della mia generazione e di quelle successive in India e altrove.

- Guha, tuttavia, era molto più di uno storico. Era davvero un intellettuale creativo, il suo lavoro ha percorso diverse strade, come molti hanno già raccontato. Probabilmente l'ultima fase è stata la più notevole per la sorpresa che ha creato. Proprio quando il mondo lo celebrava come il paladino delle storie delle classi subalterne, decise di smettere di scrivere in inglese e scrisse una serie di libri e saggi pionieristici in bengalese che trattavano questioni che erano allo stesso tempo letterarie e filosofiche.

Nel mio ultimo incontro con lui, il 15 marzo di quest'anno, ha menzionato il suo interesse per la memoria e il tempo nei suoi ultimi decenni. La vita riguarda ciò che ti coinvolge, ha detto, usando la parola bengalese per entusiasmo (utshaho), e ha aggiunto qualcosa in tal senso: "Qualunque cosa ti coinvolga diventa memoria e dà alla vita la sua dimensione temporale".

Ranajitda e sua moglie Mechthild, un'antropologa, arrivarono all'Australian National University nel 1980 quando ero uno studente di dottorato. Il mio supervisore, DA Low, è stato determinante nella creazione di una posizione per lui. Avevo incontrato Ranajitda l'anno prima in Inghilterra ed ero stato inserito in quello che divenne il famoso circolo di "Studi subalterni". Ranajitda e Mechthild trascorsero i successivi 15 anni circa a Canberra. Fu allora che ebbi il privilegio di conoscerlo da vicino come studioso e come essere umano. In effetti, non si potevano separare i due. Ranajitda non era tenuto a offrire alcun corso. Quello che ho imparato da lui è stato per lo più appreso in contesti informali, durante lunghe passeggiate intorno al lago Burley Griffin che costeggiavano il campus, davanti a tazze di caffè o pranzi all'università, o durante i deliziosi pasti preparati da Mechthild - e talvolta dallo stesso Ranajitda. È stato molto speciale quando lo stesso Ranajitda era lo chef. Era meticoloso nella sua cucina come lo era nella sua scrittura. Niente è stato affrettato. Potrebbe passare l'intera giornata in cucina seguendo una ricetta delicata per un delizioso piatto bengalese. C'era qualcosa di straordinario nel rapporto di Ranajitda con il tempo. Ha rifiutato di essere affrettato. Quando la vita accademica intorno a lui diventava sempre più frenetica, si assicurava di non avere mai più scadenze di quelle che poteva gestire senza stressarsi, in modo da poter dedicare alla sua scrittura tutta la cura e il tempo di cui aveva bisogno. A questo proposito, la sua vita è stata una critica permanente al travolgente senso di accelerazione che stava prendendo il sopravvento sulle vite accademiche mentre la tecnologia digitale iniziava a liberare i suoi poteri.

Non sorprendeva quindi che il metodo socratico fosse una parte importante del modo in cui insegnava. Era sia un insegnante, un maestro e un amico che si interessava profondamente alla mia vita quotidiana. Ricordo il giorno in cui è nato mio figlio. Quando l'ho chiamato dall'ospedale per dargli la notizia, mi ha detto che aveva già pensato a un nome per mio figlio, un nome che mio figlio porterà per tutta la vita. Caldo e affettuoso, era anche capace di forti antipatie e disaccordi. Soprattutto, tuttavia, amava la buona discussione. Ma se cedevi troppo in fretta, obietterebbe in un'amichevole dimostrazione di disappunto, è come se una partita finisse molto prima del tempo previsto! "Non puoi arrenderti così in fretta", diceva. "Trova un argomento che puoi difendere più a lungo."

Ranajitda era senza dubbio uno storico molto creativo. Ma la natura puramente empirica e legata al tempo e al luogo degli argomenti storici non ha soddisfatto la sua ricerca di comprensione della condizione umana, motivo per cui, credo, si è rivolto alla letteratura e alla filosofia nell'ultima fase della sua scrittura. Ma i suoi interessi filosofici erano evidenti anche mentre lavoravamo sulla storia dei subalterni. Ci diceva spesso: "non puoi leggere un pensatore da solo, devi leggere all'indietro e leggere le persone che stavano leggendo". Quindi, per leggere Marx, dovevi leggere Hegel; per leggere Derrida, avevi letto Heidegger; per leggere Foucault bisognava tornare a Nietzsche, e così via, fino ad arrivare ai fondamenti. La mia copia personale della Logica breve di Hegel è ancora quella che mi ha regalato, il suo nome firmato in bengalese con la sua bella calligrafia sul frontespizio.

Ranajitda ci ha fatto vedere quanto potesse essere gioiosa e idealistica la ricerca delle idee anche mentre scrivevamo e dibattevamo storie. Idealista, perché ci sono voluti tempo, duro lavoro e concentrazione per padroneggiare idee difficili. Gioioso perché lo sforzo ti fa scoprire come i testi influenti a livello globale spesso costituiscano lunghe tradizioni di pensiero all'interno delle quali discutiamo le nostre questioni contemporanee. Se il lavoro nelle discipline umanistiche è una serie infinita di conversazioni con i nostri antenati intellettuali, Ranajitda rimarrà uno di questi antenati per gli anni a venire.

 

* L'autore è Dipesh Chakrabarty, storico indiano, che ha contribuito in maniera determinante alla teoria postcoloniale e agli studi subalterni. È il Lawrence A. Kimpton Distinguished Service Professor in storia all'Università di Chicago ed è il destinatario del Toynbee Prize 2014, dal nome del professor Arnold J.

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Ranajit Guha passes away: The Subaltern School and Guha’s contributions to South Asian Studies

Arjun Sengupta *

La scomparsa di Ranajit Guha: i Subaltern studies e i contributi agli studi sull'Asia meridionale 

La Subaltern School (Studi subalterni)  ha inaugurato una nuova era nella ricerca storica dell'Asia meridionale, tentando di fornire una voce e una soggettività alle classi subordinate della società.

- Lo storico Ranajit Guha, in procinto di compiere 100 anni maggio 2023, è morto nella sua residenza a Vienna Woods, in Austria il 28 aprile, ha riferito Anandabazar Patrika. Guha ha inaugurato un nuovo modo di studiare l'Asia meridionale, allontanandosi dal primato delle narrazioni elitarie che avevano precedentemente dominato la ricerca storica e l’accademia. 

Lo storico bengalese, insieme ai suoi collaboratori (molti dei quali erano suoi studenti), iniziò la Scuola Subalterna - Subaltern studies, che rimane una delle scuole post-coloniali e post-marxiste più influenti della storia.

Nel corso del tempo, l'influenza di questa scuola ha trasceso la storia dell'Asia meridionale per influenzare la ricerca storica e l’accademia di tutto il mondo e su vari aspetti della vita e della società.

 

Ranajit Guha e la nascita della Scuola Subalterna

Nato a Siddhakati, Backerganj (l'attuale Bangladesh) il 23 maggio 1923, Guha emigrò nel Regno Unito nel 1959, dove divenne lettore di storia all'Università del Sussex.

Mentre studiava e insegnava la storia indiana, Guha ha riconosciuto che le principali narrazioni storiche di/e sull'India, erano grossolanamente inadeguate per studiare la complessità del suo passato. Fondamentalmente, ciò che mancava alle narrazioni tradizionali era la voce delle classi inferiori: i subalterni.

Il termine "subalterno" fu coniato per la prima volta dal filosofo marxista italiano Antonio Gramsci per riferirsi a qualsiasi classe di persone (per Gramsci, contadini e lavoratori) soggetta all'egemonia di un'altra classe dominante. Questo termine è stato ripreso da Ranajit Guha e colleghi che la pensavano allo stesso modo nei primi anni '80 nel loro tentativo di "rettificare il pregiudizio elitario caratteristico di gran parte della ricerca e del lavoro accademico" nel campo degli studi sull'Asia meridionale. 

Nella prefazione del numero inaugurale degli influenti Subaltern Studies, Guha scrive: “La parola subalterno sta per... 'di rango inferiore'. Verrà utilizzato in queste pagine come un attributo generale di subordinazione nella società dell'Asia meridionale… espresso in termini di casta, classe, genere e carica”. E continua, “la subordinazione non può essere intesa se non come uno dei termini costitutivi in ​​una relazione binaria in cui l'altro è predominio, poiché 'i gruppi subalterni sono sempre soggetti alle attività dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono'”.

Questo è il fulcro di ciò che sono i Subaltern Studies e del motivo per cui sono stati influenti. Guha non solo sviluppa una nuova narrazione dei subalterni che storicamente è mancata nel mondo accademico tradizionale, ma riconosce che la categoria dei subalterni è costruzione concettuale non essenzialista, cioè è un prodotto della relazione di dominio e subordinazione tra élites e subalterni e non di qualche categoria divina, inevitabilmente.

Ciò getterebbe le basi di una scuola di studi storici che problematizzerebbe intese secolari a favore di una lettura più sfumata della storia e della società. 

 

La Scuola Subalterna (Studi subalterni) e il contesto in cui è nata

La ricerca storica e accademica tradizionale sull'Asia meridionale, prima dei Subaltern studies, era o un prodotto dell'eurocentrismo coloniale o era dominata dai punti di vista delle élites native, spesso fortemente influenzate dalle strutture e dalle narrazioni coloniali stesse.

Ad esempio, la classificazione in tre parti della storia indiana di James Mills in antica (indù), medievale (musulmana) e moderna (coloniale e postcoloniale) rimane influente fino ad oggi, avendo formato generazioni di storici nazionalisti. Tuttavia, non solo si tratta di un'imposizione impensabile in un quadro dominante utilizzato per studiare la storia europea, ma si perde anche una diversità di esperienze che avrebbero dovuto caratterizzare lo studio storico. La storia è solo lo studio di re e governanti, definiti in questo contesto dalla loro identità religiosa? E le storie degli intoccabili, delle donne e delle comunità tradizionalmente non dominanti? E i contadini e gli operai? 

Anche gli accademici di sinistra che apparentemente scrivevano sui popoli non sono stati in grado di abbandonare completamente i quadri europei e l'ortodossia marxista che privilegiava la classe come categoria dominante dell'analisi storica. Erano ignari o sprezzanti delle specifiche modalità indiane di subalternità e quindi non erano in grado di apprezzare veramente la società indiana nella sua complessa ricchezza e sfumatura. La scuola subalterna è arrivata e ha cambiato questo.

Nel suo intramontabile classico, Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India (1983), Ranajit Guha scrive della coscienza contadina e delle diverse modalità di espressione del dissenso da parte dei contadini nell'India coloniale. Mentre la resistenza contadina era stata documentata fin dall'inizio del dominio coloniale, secondo Guha, negli studiosi coloniali, "il senso della storia (era) convertito in un elemento di interesse amministrativo". Di conseguenza, “al contadino veniva negato il riconoscimento come soggetto della storia a sé stante anche per un progetto tutto suo”.

L'approccio di Guha era fondamentalmente diverso. Il suo lavoro si è concentrato sullo studio dell'insurrezione contadina dal punto di vista del contadino. Fornisce ai contadini ribelli la propria agenzia politica piuttosto che quella fornita loro dalle élites indigene. Metodologicamente, anche quando Guha guarda a fonti storiche di uso comune come i documenti coloniali, il suo approccio le problematizza, consapevole della posizione dei creatori e, di conseguenza, consapevole di possibili pregiudizi nelle fonti stesse.

Alcune critiche alla Scuola Subalterna

Sebbene la Subaltern School - Subaltern studies sia stata estremamente influente nel guidare generazioni di lavoro accademico sull'Asia meridionale e sulle società postcoloniali sin dagli anni '80, ha ricevuto critiche. Una delle principali riguarda la sua attenzione all'agire soggettivo rispetto alla struttura oggettiva. Critici come Vivek Chibber sostengono che i Subaltern studies tendono a trascurare i modi in cui le strutture sociali e politiche limitano l'azione dei gruppi subalterni. Di conseguenza, la scuola subalterna è stata accusata di presentare una visione eccessivamente romantica dell'agire soggettivo e della resistenza subalterna.

Inoltre, Chibber sostiene che l'approccio alla politica degli studi subalterni, tende a concentrarsi eccessivamente sui movimenti e su una resistenza basati sull'identità. Sostiene che questo approccio trascura l'importanza della politica di classe e il potenziale per i gruppi subalterni di impegnarsi in lotte trasformative che sfidano le strutture economiche e politiche esistenti. Ciò è particolarmente vero per i lavori più recenti della Scuola. 

Infine, nel tentativo di problematizzare l'eurocentrismo dei marxisti tradizionali, la Scuola Subalterna, secondo Chibber, ha intrapreso una strada all’estremo opposto, rifiutando ogni forma di teorizzazione universale in quanto incapace di spiegare le particolarità dell'Asia meridionale. Chibber critica questa impostazione, sostenendo che "prendere conoscenza di certe forze universali non è un impedimento a spiegare anche la diversità".

 

First published on: 29-04-2023  The Indian Express, New Delhi, Arjun Sengupta * - Ranajit Guha passes away: The Subaltern School and Guha’s contributions to South Asian Studies - traduzione  #SubalternStudiesItalia 

* Giornalista | Ricercatore nel Settore Sviluppo | Ricerca qualitativa | Scuola di economia di Delhi | St. Stephen's College, Università di Delhi



Ranajit Guha (right) with his wife Mechthild in 2008. (Photo: Nonica Datta for Permanent Black)