Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 30 novembre 2018

IL '68: un 'possente' movimento rivoluzionario (1)


NON SOLO ANNIVERSARIO
non retorica, ma lavoro storico-politico/
per coloro i quali dal '68 'continuons le combat'
ripubblichiamo la prima parte del cap. 3 del libro di Ferdinando Dubla:
“Secchia, il PCI e il ‘68”, Edit. Datanews nel 1998 in occasione del 30* anniversario
le note seguono le pagine e si rinominano da 1 e vanno lette dal basso verso l'alto.

3. Il ‘possente’ movimento rivoluzionario 


Tra queste date-simbolo, che abbiamo citato solo per una  traccia schematica di tappe significative che costituiscono comunque il fulcro di un determinato periodo storico che, iniziato a metà degli anni '60 continua fino ai primi anni '70 e ha un'incidenza profonda anche per la genesi e lo sviluppo del cosiddetto 'movimento del '77',[1] la sua tipologia insieme creativa e tragica (la stagione del terrorismo, gli 'anni di piombo'), si intrecciarono ovviamente eventi tumultosi e carichi di significato simbolico a livello internazionale, basti pensare all'esperienza della rivoluzione culturale cinese nel biennio '66/'67, preceduta dalla campagna dei 'centofiori', alla morte del Che Guevara in Bolivia nell'ottobre 1967, alla guerra del Vietnam (offensiva del Tet, 30 gennaio 1968), la 'primavera di Praga' che iniziò proprio nei primi mesi del '68 con il CC del PC Cecoslovacco e le dimissioni del segretario generale del Partito Novotny a favore di Alexander Dubcek e poi l'ingresso delle truppe del Patto di Varsavia nella notte dal 20 al 21 agosto,  l'assassinio di Martin Luther King il 4 aprile del '68, il 'maggio francese' e le leadership di Rudy Dutschke e Cohn-Bendit, [2]  l'assassinio di Robert Kennedy (fratello dell'ex Presidente John F.Kennedy assassinato nel 1963) il 5 giugno, l'inizio della guerriglia dei Tupamaros in Uruguay in agosto, il massacro di decine e decine di studenti da parte della polizia messicana in ottobre, l'eccidio di Avola il 2 dicembre, rimanendo in un ambito quasi esclusivamente politico (le influenze culturali dirette/indirette furono altrettanto numerose e significative) in "una miscela straordinariamente possente", per usare un' espressione di Paul Ginsborg (o l'imagination au pouvoir, come recitava il titolo dell'intervista a J.P.Sartre e Cohn-Bendit sull'edizione speciale del Nouvel Observateur del 20 maggio 1968). [3]

Se dunque la scintilla e la originale connotazione prevalentemente studentesca del movimento è da ritrovarsi "nel meccanismo dell'apprendimento, denunciato come passiva ricezione e condizionamento, che non lascia allo studente alcuna funzione di dialettica con l'istituto, gli ordinamenti, il docente, il tipo di nozioni che gli vengono imposte",[1] la sua genesi profonda è nel cuore dei sistemi capitalistici dell'occidente. In Italia, poi, il contesto politico e sociale giocava un ruolo specifico anche in riferimento all’uso dei movimenti dell’estrema destra, della ‘destra radicale’, da parte di apparati dello Stato e da parte di una borghesia impaurita dalle conseguenze dell’accentuata conflittualità sociale: “Qui la protesta iniziò prima che negli altri Paesi (la prima occupazione universitaria ebbe luogo nell’autunno del 1967, alla Cattolica di Milano), durò più a lungo (praticamente fino alla fine degli anni settanta) e abbracciò un fronte molto più vasto. (..) Se l’avvento relativamente inoffensivo del centro-sinistra aveva suscitato, nel ‘cartello dell’ansietà’, l’allarme (..), sarà facile comprendere che gli sviluppi molto più radicali del 1968 innalzarono tale allarme a livelli di vero panico.[2]

In Italia il Sessantotto rappresentò una rivoluzione culturale senza concreto sbocco politico, e gli elementi generali e quelli nazionali specifici si fusero in una miscela potenzialmente deflagrante, che scosse le fondamenta dell’edificio reazionario delle classi dominanti e segnò una generazione intera  più che in altri paesi:

“Al di sotto dello scontro politico e ideologico vi era la grande massa dei giovani che viveva il ’68 in primo luogo come rivoluzione culturale personale. La prima conquista fu il concetto di democrazia di massa e del rifiuto della delega, che si accompagnò a una rivoluzione nel costume di vita contro la morale, i sistemi di vita borghesi e l’individualismo, per conquistare una nuova dimensione della vita collettiva. Una seconda acquisizione – questa più immediatamente politica – fu costituita dalla comprensione di che cosa rappresentasse il sistema di potere democristiano: la sua chiusura a ogni concessione e la sua incapacità di rispondere alle esigenze delle masse e alle richieste di democrazia. La rottura con la società borghese sviluppò invece l’interesse nei confronti dell’esperienza dei popoli rivoluzionari, e in particolare della Rivoluzione culturale cinese. (..)Per le masse studentesche, quindi, il socialismo, l’alleanza con la classe operaia, l’assunzione del marxismo-leninismo-pensiero di Mao non costituivano una prospettiva culturale, ma un obiettivo rispondente ai loro bisogni materiali.”[3]

- Una vera e propria temperie che non poteva non travolgere proprio i soggetti politici, come i partiti comunisti più forti nell' occidente capitalistico, l'italiano e il francese, che si dibattevano, in forme differenti l'uno dall'altro, in una contraddizione che veniva sottolineata da sponde diverse sia dal 'movimento' che dagli avversari politici, dalle forze reazionarie; la contraddizione era tra la perorazione di principi astrattamente rivoluzionari e la prassi palesemente riformista, accusati dagli uni come 'revisionisti' e dagli altri considerati inaffidabili per gestire le sorti della borghesia nazionale: contenitori, dalla grande storia e tradizione, di teorizzazioni marxiste-leniniste e pratiche della socialdemocrazia, insieme 'radical' e liberal'. Proprio per questo, il PCI soprattutto, venne comunque considerato un punto fondamentale della tattica e della strategia dei movimenti, bersaglio di una critica serrata, finanche rabbiosa, ma comunque forza della sinistra di cui non si poteva ignorare la capacità di mobilitazione di massa e di 'controllo' del conflitto di classe. La tradizione comunista, d'altra parte, era ripresa in tutte le sue versioni, quella che molti conglobano come 'critica' e quella che viene da alcuni definita 'ortodossa': entrambe erano presenti come culture all'interno del PCI.

Nel 1968/69, Secchia non era più da tempo il PCI, sebbene egli individualmente e politicamente, anche per le cariche istituzionali che continuava a rivestire (fu vice-presidente del Senato dal 1963 al 1972) si sentisse legato ad esso come corpo organico e inscindibile. Proprio nei 'diari' riferiti a quegli anni, annotò:  "Il partito mi ha dato di più? Certo, mi ha dato molto, ma molto ho dato anche io. Cosa sarei io senza il partito? Nulla! Ma nella vita? Se le energie, tutta la gioventù e l'intera vita dedicata al partito l'avessi dedicate con lo stesso impegno ad altra attività, cosa sarei?" e in polemica, sebbene affettuosissima, con un dirigente ormai del passato che stimava grandemente, Eduardo D'Onofrio, criticava la '"concezione religiosa del partito".[1] A rimarcare, siamo nel febbraio 1967, che la sua sconfitta politica all'interno del PCI, ha coinciso con una divaricazione rispetto agli ideali e ai principi con cui si erano combattute le fasi precedenti al 1954, e sempre più progressivamente: una deriva moderata, 'revisionista' appunto, che non era stato affatto invertita dalla segreteria di Longo dopo la morte di Togliatti (1964), nonostante le grandi speranze che in lui aveva suscitato l'elezione del suo compagno più vicino negli anni della Resistenza. Il partito è allora sì tutto, per la sua personale connotazione politico-biografica, ma non si doveva rimanere ciechi dinanzi alla contraddizione palese ed evidente proprio in quegli anni e che caratterizzò la stagione comunista di fronte ai movimenti del '68/'69: quella tra riferimento teorico e azione politica. E' evidente che proprio per queste riflessioni, Secchia si ritrovasse in pieno con lo slancio generoso delle giovani generazioni studentesche e in un rapporto nient'affatto paternalistico o strumentale; inevitabile divenne un rapporto di reciproca 'attenzione affettuosa' tra lui,  vecchio dirigente comunista escluso dal gruppo dirigente per la tenacia con cui contrastava la variante moderata e tatticista del togliattismo e il movimento che cercava un legame, critico sin che si vuole, ed un' identità importante con la storia del marxismo militante in Italia. Per questo, quando egli scriverà del 'movimento' non userà toni di 'affettazione' o tartufeschi: sarà ricambiato con una stima pressochè generalizzata (a parte alcune punte talmente esasperate che ai giorni nostri hanno esasperato la loro stessa immagine di allora all'incontrario, Lucio Colletti o A. Brandirali, ad es.). Conviene dunque seguire Secchia, oltre che per la sua autonoma produzione storica e di divulgazione della memoria politica di avvenimenti di cui era stato protagonista e testimone, produzione che ebbe, tramite Feltrinelli, di cui era amico fraterno e compagno, un'influenza notevole sulla formazione dei militanti dell'arcipelago di organizzazioni del 'movimento', specie di quelle marxiste-leniniste, anche per le sue uniche e dirette impressioni sul movimento studentesco annotate nei 'Diari' nel 1968:


" Sugli studenti e loro lotta avanzata in tutti i paesi è mia opinione che si tratti del più possente movimento rivoluzionario di questi anni. Lotta di generazioni e lotta di classe. Il movimento studentesco ha assunto una dimensione politica che va al di là delle rivendicazioni universitarie. E' un movimento di classe e di generazioni così impetuoso quale non si aveva da cinquant'anni. Non tutte le loro posizioni sono chiare e accettabili, non tutti gli obiettivi sono precisi. Non c'è ancora un'organizzazione, una guida che li raggruppi, li coaguli, come nel 1920. Ma il dato positivo che esce fuori è che tutto il movimento è orientato a sinistra per la pace, per la lotta, per il potere e per il socialismo (allora nel 1919 la gioventù in parte andò col fascismo). (..) L'influenza che esercitò allora la rivoluzione russa l'hanno esercitata in questi anni le rivoluzioni dei popoli per la loro indipendenza. Le guerre di liberazione Cina, Cuba, Vietnam (..)"[1]





[1] Ivi, pag.534. Temi che ritorneranno sia in un articolo di Secchia per la rivista Baita, il 18 aprile 1968,  in cui sottolineerà che "il contrasto fondamentale dell'epoca nostra non è un contrasto tra generazioni (anche se elementi del genere sono presenti, differenze di età, di bisogni, di cultura, di modi di sentire), ma è il contrasto tra il capitalismo con le sue vecchie strutture che rappresenta il passato e il socialismo che rappresenta l'avvenire.", sia nell'opera pubblicata postuma nel 1973 Lotta antifascista e giovani generazioni , su cui torneremo. 




[1] Cfr. AS, op.cit., parte II I diari, pag.506. Il 19 febbraio 1967 Eduardo D'Onofrio gli aveva mandato in lettura una lettera già inviata al segretario Longo, in cui annunciava di non volersi più ricandidare al Parlamento nelle elezioni future, adducendo motivi di salute ma anche ben precisi motivi politici: in breve, noi non siamo più quelli di prima e neanche il partito, ma tra noi e il partito deve prevalere quest'ultimo. La risposta di Secchia, sempre schematicamente, è in pratica: disciplina sì, quella rivoluzionaria, fideismo no. Nel 1970 Secchia rincarerà la dose contro la concezione dei rapporti partito/disciplina di D'Onofrio, scrivendo, sempre nei 'diari', che "sono diverso da lui in quanto per lui, per un motivo o per un altro, non viene mai il momento in cui un compagno può avere delle posizioni critiche nei confronti del partito.", ivi, (datato 5 maggio, quaderno n.6), pag.545. 




[1] Ivi, pag.74.
[2]Cfr. F.Ferraresi: Minacce alla democrazia - La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, 1995, pp.164/65. Nel periodo 1968/1973 l’Italia ebbe i più alti indici di conflitto in Europa, misurati in termini di: azioni di protesta per 100.000 lavoratori; lavoratori coinvolti, giornate di lavoro perdute. Per quel che riguarda il primo e terzo indicatore, il periodo 1968-1973 registrò i valori più alti di tutta la storia italiana, cfr. L. Bordogna- G.C.Provasi: La conflittualità, in G.P. Cella-T.Treu (a cura di): Relazioni Industriali. Manuale per l’analisi dell’esperienza italiana, Il Mulino, Bologna, 1982, pp.215/245.
[3] Cfr. E. Criscione, prefazione a S.Toscano: A partire dal ’68 – Politica e movimento di massa, Mazzotta, 1978. Si tratta di una raccolta di scritti del leader del Movimento Studentesco dell’Università  Statale di Milano, poi primo segretario, nel 1976, del Movimento Lavoratori per il Socialismo., ‘Turi’ Toscano (1938/1976).



[1] Cfr. l'opera che tratta il legame '68/'77 di M.Monicelli: L'ultrasinistra in Italia - 1968/1978 - , Laterza, 1978.
[2] Il 3 maggio del ’68 il movimento studentesco parigino diede il via a una serie di scontri intorno alla Sorbona e nel Quartiere Latino. Era l’inizio di un movimento di rivolta contro il regime gollista che dapprima coinvolse le scuole e le univerisità. Ma dopo gli scontri in Boulevard Saint Germain (600 feriti, 400 arrestati), al movimento di lotta per la scarcerazione degli arrestati aderirono interi settori dell’intellettualità francese e gli studenti raccolsero grandi simpatie nelle masse popolari. Il 24 maggio una forte mobilitazione popolare contro le manovre reazionarie e repressive di De Gaulle, fu brutalmente attaccata dalla polizia. La ‘rivoluzione del maggio’ diventò ben presto l’emblema della carica rivoluzionaria dell’intero movimento del ’68, a livello internazionale. Sul movimento del  maggio francese, sebbene con tesi discutibili, si veda A.Touraine: Le mouvement de mai ou le communisme utopique, Paris, Seuil, 1968, pag.112. Preferibile la lettura diretta  di D. e G. Cohn-Bendit in traduzione italiana, L’estremismo, rimedio alla  malattia senile del comunismo, Torino, Einaudi, 1969, pag.60.
[3] Uno dei giudizi a caldo più calzanti sul movimento fu quello di R.Rossanda: "Per trattarsi, insomma, d'una presa di coscienza soggettiva ai limiti di una evidente e canonica contraddizione materiale, il fenomeno non è di minore rilevanza. Al contrario, esso si presenta come un potenziale di insofferenza, una contraddizione tipica del capitalismo maturo, della quale vanno individuate anche le basi materiali e che, per la stessa originalità della sua esplosione e delle sue forme ideologiche, denuncia un ritardo nell'elaborazione e quindi una crisi di egemonia da parte del movimento operaio. (..) A monte dell'anno degli studenti sta il Vietnam, sta la scoperta della guerriglia latino-americana e il frantumarsi emblematico del personaggio del 'Che'. Sta il logorarsi della formula politica che parve 'rinnovatrice' agli inizi degli anni Sessanta, sotto la spinta di conflitti di classe sempre più aspri. Stanno la fatica e le tensioni del movimento comunista in occidente. Sta la 'rivoluzione culturale' in Cina. Ognuno di questi fatti contribuirà a mettere insieme quel detonatore che provocherà (..)la nascita e il dilagare del movimento studentesco", op.cit., pp.10/11.




mercoledì 28 novembre 2018

IL SOFISTA SOFISTICATO: L’ ARGOMENTO DI GORGIA, IL SOFISTA DI LENTINI


- - certo, dimostrare che nulla è, che in effetti nulla esiste, è cosa ardua; dimostrare poi che, se pur esistesse, non sarebbe conoscibile, è davvero difficile; ma asserire che, se pur conoscibile, nulla è comunicabile, sembra confutazione impossibile, perché impedirebbe anche l’ascolto di qualunque argomentazione, quella in oggetto e quella contraria. Ma non per Gorgia, il sofista siciliano che riuscì ad entusiasmare anche il pubblico di Atene, aduso all’argomentare filosofico, anche il più oscuro. Così descrive la sua dialettica argomentativa Sesto Empirico lo scettico, che lo considerava un maestro, evidentemente ammirato dal relativismo conoscitivo ed etico del sofisticato sofista e dalla convinzione che cercare le assolute verità fosse cosa vana, e in quanto vana, stolta. - - (fe.d.)
- - “ 1. Che niente esista Gorgia dimostra in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l'essere o il non-essere o l'essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c'è, ma neppure l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno o generato o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio e, non avendo alcun principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall'essere o dal non-essere. Ma non è nato dall'essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal non-essere, perché il non-essere non può generare.
2. Se le cose pensate non si può dire siano esistenti, sarà vero anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste, l'essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si pensino; ciò è contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un uomo che voli o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il pensato esista. Di più, se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser pensato, perché ai contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché si pensa anche Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere non è pensato.
3. Posto che le cose esistenti sono visibili e udibili e in genere sensibili e di esse le visibili sono percepibili per mezzo della vista e le udibili per l'udito, e non viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l'oggetto, la cosa, non è realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile non può diventare audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto esterno a noi, non può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non potrà esser manifestato ad altri. “
(Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 65 ss)
- - Uomo, non costruir nulla su certezze indubitabili, solo il dubbio accrescera’ la conoscenza, questo a me sembra il messaggio di Gorgia. Tra la realtà e la logica, comunque costruita su parole, non vi sarà perfetta corrispondenza così come simmetria in natura. (fe.d.)



domenica 25 novembre 2018

PASSATISTI E FUTURISTI: ma il presente della scuola è preda di analfabetismo funzionale


e antipedagogia alimentata da formalismo metodologico e stalking iperburocratico/ (fe.d.)

articolo di Luca Malgioglio, admin. del gruppo FB Professione insegnante.it - - -
http://www.professioneinsegnante.it/index.php/news/457-passato-e-presente-una-proposta-per-la-scuola


Gli esaltatori della didattica per ‘competenze’, del ruolo salvifico delle nuove tecnologie in qualunque modo utilizzate, di metodi astratti e astrusi di (non) insegnamento, della scuola dell’autonomia che diventa una macchinosa scuola-azienda iper-burocratizzata, si scontrano con la cruda realtà di un tracollo verticale delle conoscenze degli studenti, con quello delle capacità linguistiche, lessicali, logico-sintattiche, della capacità di formulare ed esprimere pensieri sufficientemente articolati, della manualità e dell’autonomia. 



A chi, di fronte a tale disastro, fa notare che forse, tra moltissime chiacchiere, sono stati dimenticati troppo spesso gli scopi fondamentali della scuola - alfabetizzare, far crescere affettivamente, trasmettere conoscenze, educare le nuove generazioni alla scoperta di sé, della realtà e dell'immenso patrimonio culturale dell'umanità, abituare alla riflessione -; a chi dice tutto questo, si risponde con l’accusa di “passatismo”. I passatisti, si dice con aria di sufficienza, rifiutano il nuovo per paura o per incomprensione e si rifugiano in ciò che già conoscono, in una vecchia idea di scuola nostalgicamente idealizzata; nella cosiddetta “comfort zone”, che non li costringe a mettersi in discussione.  È colpa loro, dei recalcitranti, se il 'nuovo' non ha ancora potuto dispiegare tutte le sue potenzialità.
Ora, a parte le dure smentite che la realtà – per quanto denegata - sbatte in faccia alle “magnifiche sorti e progressive” dei cultori della metodofilia e del ‘nuovo’ (e, purtroppo, sbatte soprattutto in faccia ai loro studenti), vorrei fare qui una riflessione sul rapporto che esiste tra passato e presente. 
Guardare le cose da una prospettiva storica, riallacciando i legami tra ciò che accade oggi e ciò che abbiamo alle nostre spalle, non significa idealizzare il passato o averne nostalgia: significa invece relativizzare il presente ed evitarne l'idolatria e l'assolutizzazione (una tentazione ricorrente nella storia, oggi resa immensamente più forte dalla sua saldatura con le esigenze totalitarie del 'mercato', per il quale la permanenza di idee, oggetti e valori è il nemico che limita un continuo velocissimo 'consumo' di tutte le cose). Non è un caso che il passato sia stato sempre la bestia nera di tutte le dittature (comprese quelle culturali), che hanno sempre cercato di nasconderlo, alterarlo, contraffarlo, negarlo, schiacciarlo sulle esigenze del presente; far scomparire, insomma, la sua ingombrante presenza e la sua alterità, che dimostra che le cose possono essere diverse da come sono oggi, perché lo sono già state tante altre volte (per chi ha letto 1984 di Orwell non c'è bisogno di aggiungere altro). 
Questo, sia detto per inciso, è uno dei moltissimi motivi per cui sarebbe così importante la lettura dei libri: la ‘solidità’ dei loro contenuti, in confronto con la volatilità di quanto viene prodotto nella comunicazione social, ci mostra contemporaneamente come ci siano stati mentalità, vite, culture, storie, mondi diversi dal nostro, ma anche come alcune esigenze dell’umanità, al fondo, siano rimaste le stesse nel corso dei secoli. Questo è anche il motivo per cui, che so, un personaggio de I promessi sposi può apparirci lontanissimo e al tempo stesso rivelarci qualcosa della nostra umanità; è proprio nella feconda dialettica passato-presente che gli uomini hanno sempre faticosamente costruito il proprio futuro. 
Insomma, significa essere nostalgici e “passatisti” ipotizzare, ad esempio, un collegamento diretto (ovvio, per chi guardi la realtà senza pregiudizi ideologici) tra il nuovo analfabetismo e il crollo della lettura di libri - sostituita dall'ipnosi dell''iperconnessione – di quei libri che hanno offerto alle generazioni passate una preziosa occasione di coltivazione di uno spazio interiore ed ideativo, oltre che di un consistente arricchimento linguistico? E se il presente è fatto soprattutto di errori, quale idolatria dell'esistente ci impedisce di cambiare strada, facendo tesoro dell'esperienza del passato per proiettarci creativamente verso un futuro diverso?




venerdì 23 novembre 2018

Per una storia del marxismo-leninismo italiano (2)

La nebulosa marxista-leninista.(2)
Movimentata storia delle organizzazioni filocinesi
di Pierluigi Onorati- - dal fascicolo 1968 suppl. a Il Manifesto - - ottobre 2018

Il partito comunista d’Italia

Più rilevante la vicenda del Partito comunista d’Italia, fondato nel ’66 dal gruppo di Nuova unità (Geymonat, Dinucci, Misefari, Dini, Pesce). Nello stesso teatro di Livorno in cui era nato nel ’21 il PCI, il nuovo partito si candida alla guida del proletariato italiano,senza lesinare in materia di trionfalismo. Segretario è nominato Fosco Dinucci. Nel ’67 il partito vede aumentare notevolmente il numero dei militanti e si aggiudica la leadership del marxismo-leninismo italiano. Il gruppo riunito intorno alla rivista Lavoro politico aderisce al PCd’I alla fine dell’anno e porta in dote un patrimonio di riflessione teorica ben più approfondita di quella sbandierata settimanalmente da Nuova unità. Per il PCd’I, il ’68 potrebbe essere l’occasione di spiccare il volo. Il movimento studentesco, con la sua robustissima componente filocinese e terzomondista, rappresenta quasi per forza di cose una riserva se non di militanti quanto meno di simpatizzanti. In agosto Pesce e Dini sono ricevuti a Pechino dai massimi dirigenti del Partito comunista cinese e possono così vantare una sorta di investitura ufficiale. A ottobre entra nel partito una parte del gruppo milanese Falcemartello, già trotziksta,convertitosi all’emmellismo nel corso della rivoluzione culturale cinese. 
La fase ascendente del PCd’I si esaurisce però rapidamente. A dicembre, nel corso di una grottesca riunione notturna convocata all’improvviso, Dini e Misefari accusa Dinucci e Pesce dei più efferati delitti contro il proletariato e spaccano il partito. La definizione “linea nera”, pittorescamente adoperata dagli scissionisti per designare gli avversari, resterà attaccata al PCd’I di Dinucci (in contrasto ovviamente con il PCd’I “linea rossa”). La linea nera mantiene però l’appoggio di Pechino e Tirana e conquista in tribunale il diritto di usare la testata Nuova unità. Per entrambe le linee la divisione è fatale, e nel ’69-70 un’inarrestabile emorragia di scissioni e frazionamenti le cancella dal panorama della sinistra extraparlamentare. 

L’Unione dei comunisti

L’ultimo nato tra i gruppi m-l è anche l’unico a poter disporre,almeno in un primo periodo, di un seguito di massa. L’Uci, Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, raccoglie al posto del PCd’I i frutti delle tendenze maoiste presenti nel movimento studentesco. Fondata nell’ottobre ’68, l’Unione accusa il PCd’I di dogmatismo, di “agitare i principi come cristalli senza vita”, di mancanza di “senso materialistico e dialettico”. L’Uci respinge ogni ipotesi federativa anche con altri gruppi m-l e costruisce rapidamente un apparato organizzativo meticoloso e rigidissimo. Anche nei confronti del movimento studentesco, l’Unione sceglie un isolamento completo e settario. 
Il decollo dell’Uci è immediato. Tra la fine del ’68 e l’inizio del ’69 può contare su un notevole numero di militanti e in molte città condiziona pesantemente le scelte del movimento. Un’ascesa bruciante a cui segue altrettanto un rapido declino. Nei primi mesi del ’69 la rottura tra il leader Brandirali e il gruppo proveniente dal movimento romano (Luca Meldolesi, Nicoletta Stame) priva l’Uci della sua componente più originale e intelligente. Il gruppo si isola sempre di più e nonostante il trionfalismo e la sempre più accurata organizzazione interna perde vertiginosamente capacità di richiamo. La durissima disciplina di partito allontana in pochi mesi molti militanti, e la scelta di non partecipare alle lotte taglia completamente fuori il gruppo di sollevazione operaia che domina il quadro sociale dalla primavera del ’69 in poi. 
L’esperienza dei gruppi marxisti-leninisti non esaurisce ovviamente l’incidenza del maoismo nella sinistra extraparlamentare italiana. Altri gruppi e altri studiosi cercano di raccogliere la lezione del comunismo cinese nei suoi aspetti meno pittoreschi e più determinanti, tralasciando lo sforzo imitativo in cui si è spesso risolta l’attività degli m-l. 
L’intera nuova sinistra degli anni ’70 è, in diversa misura e a diversi livelli di approfondimento, influenzata dall’esperienza cinese. Con la rilevante eccezione dell’operaismo, l’altro asse di dissenso a sinistra del Pci negli anni ’60.




mercoledì 14 novembre 2018

Dimenticare il «capitale umano»


«Aprire le porte. Per una scuola democratica e cooperativa», a cura di Piero Bevilacqua, per Castelvecchi


Devono essere valorizzati i nuclei di resistenza al processo di trasformazione neoliberista della scuola e dell’università, i luoghi dove il processo di trasformazione antropologica dell’essere umano in imprenditore di se stesso è stato – ed è tutt’ora – più feroce. Si tratta di un’intellettualità diffusa e critica, costituita principalmente da docenti di scuola e universitari, forgiata dalla lettura delle critiche crociane di Gramsci con le più avanzate decostruzioni di quella peculiare pedagogia del capitalismo oggi conosciuta sotto il nome di «governamentalità».

La nozione coniata da Michel Foucault è stata approfondita, e straordinariamente sviluppata, anche nell’ambito di una spietata critica alla società della valutazione e della certificazione che domina tutti i processi che hanno travolto, e trasformato, la scuola e l’università nell’ultima generazione, in Italia a partire perlomeno dal 1989, l’anno della riforma Ruberti continuata con quella Berlinguer-Zecchino del Duemila e proseguita con le «riforme» Moratti, Gelmini e, in ultimo, quella «Buona Scuola» con la quale Renzi e il Pd hanno chiuso il cerchio.

È QUESTO IL CASO di un libro, politicamente decisivo, curato da Piero Bevilacqua: Aprire le porte. Per una scuola democratica e cooperativa(Castelvecchi, pp. 187, euro 17,50) che raccoglie brevi e taglienti saggi di alcune delle figure che, in questi anni, hanno proseguito una critica inflessibile, e non solitaria, della scuola trasfigurata dall’ideologia del «capitale umano»: tra gli altri Rossella Latempa, Tiziana Drago, Laura Marchetti, Anna Angelucci, Gianluca Carmosino, Massimo Baldacci, Enzo Scandurra e molti altri.

Questo nucleo della resistenza non è l’unico. Va anche qui ricordato il ruolo che ha avuto, e ha tutt’ora, il sito Roars dove negli anni sono apparsi contributi fondamentali alla critica della «nuova ragione del mondo», il capitalismo in regime neoliberista che non è soltanto un fenomeno economico, ma un progetto che aspira a modificare l’essere umano, oltre che il governo e le sue istituzioni, sin dalla prima entrata in un’aula scolastica, accompagnando il soggetto fino alla tomba, in tutte le evoluzioni a cui obbliga la precarietà a tempo indeterminato, in quella che è stata definita la società che apprende: la learning society.L’imperativo è: apprendere ad apprendere come gestire un precariato concepito come realtà irreversibile. A questo corrisponde la trasformazione dell’istruzione in trasmissione di pacchetti di «competenze», la costruzione della vita in un’esistenza subalterna all’imperativo della perfomatività assoluta raccontata da Anna Angelucci.

Aprire le porte va letto come una breve, e esaustiva, guida al dibattito sulle premesse e le conseguenze dell’alternanza scuola-lavoro, ad esempio, il pilastro di quella riforma capitalista con la quale la scuola è stata trasformata definitivamente in uno snodo fondamentale delle politiche attive del lavoro. In questa cornice si spiega il furore ideologico con il quale si vogliono imporre i test Invalsi sin dagli anni della scuola elementare.

LA RICERCA che su questo tema sta conducendo Rossella Latempa è formidabile. Questo libro, come esorta Tiziana Drago, non è l’esercizio di un lutto, la pratica della rassegnazione, la celebrazione di una sconfitta dei moltissimi che si sono opposti nell’ultimo trentennio. Invita, fortinianamente, al buon uso «delle rovine», alla spietata clinica di ciò che siamo, aprendoci contemporaneamente alla ricerca di un possibile, senza sottoporci alle nuove autorità che dicono di agire per il nostro bene, mentre in realtà collaborano al nostro autosfruttamento.

L’ALTERNATIVA al soggetto imprenditore passa dalla riscoperta delle pratiche della cooperazione, concetto centrale presente già in copertina e sviluppato nel corso del libro. Cooperazione dei saperi, cooperazione della forza lavoro, cooperazione degli incontri – senza finalità imperative, economiche, idealistiche o gerarchiche – che possono nascere, qui e ora, già nelle classi. E affermarsi nella vita. Non è utopia, è prassi di una vita sognata e vissuta, in ogni momento.

pubblicato su Il Manifesto del 13 novembre 2018


domenica 11 novembre 2018

MARIO CAPANNA FERDINANDO DUBLA et alii a confronto sul ‘68


a partire dall’ultimo libro di Capanna “Noi tutti”, (Garzanti, 2018) 
l’INVITO

- L'associazione "Le belle città" ha il piacere di incontrare Mario Capanna in occasione della presentazione del suo ultimo libro "Noi Tutti", edito da Garzanti.
Interverranno:
Marcello Cotogni - Associazione "Le belle Città"
Pino Suriano - Giornalista
Lidia Martino - Docente di lettere
Ferdinando Dubla - Storico del movimento operaio
La presentazione del libro è aperta a tutti.
Seguirà un apertitivo con l'autore per il quale è necessaria la prenotazione.
Per prenotazioni contattare:
345 7994138
329 3166571



LAVORO POLITICO link






sabato 10 novembre 2018

Per una storia del marxismo-leninismo italiano (1)


La nebulosa marxista-leninista.(1)
Movimentata storia delle organizzazioni filocinesi
di Pierluigi Onorati- - dal fascicolo 1968 suppl. a Il Manifesto - - ottobre 2018


Negli anni che precedono il ’68 si forma in Italia un’intera galassia di gruppi marxisti-leninisti, filocinesi e molto spesso apertamente stalinisti. È un universo in continua fluttuazione,perennemente in fase di scissione sulla basa di identiche accuse reciproche. L’insistenza dogmatica sulla purezza ideologica è anche una reazione all’imborghesimento del PCI, al pragmatismo delle sue scelte politiche a cui si contrappone la fedeltà ai “testi sacri” e alla rivoluzione come unica via. Di fatto, dogmatismo e settarismo spinto fino al grottesco impediranno alle formazioni marxiste-leniniste di cogliere sia la portata innovativa di quanto avviene in Italia, sia glie elementi più fertili e rigenerati del maoismo.
Il primo giornale marxista-leninista italiano nasce a Padova nel ’62 e viene intitolato VIVA IL LENINISMO, come un importante opuscolo cinese in cui per la prima volta era messo sotto accusa il revisionismo dell’Unione sovietica. Fondano e dirigono il periodico Vincenzo Calò e Ugo Duse, che resteranno figure centrali nel serial degli incontri e scontri fra gruppi marxisti-leninisti per tutto il decennio. In diverse città italiane si sono già formati circoli filocinesi, in aperta dissidenza con il PCI, privi di ogni forma di collegamento. Il giornale di Duse e Calò non riesce a catalizzare le forze sparse dei vari circoli ed è costretto a interrompere le pubblicazioni dopo appena tre numeri.

Le Edizioni Oriente

L’anno seguente Maria Regis fonda a Milano le Edizioni Oriente che, al contrario, avranno un’importanza notevole, non limitata alla sola area m-l, nel formarsi di una cultura d’opposizione a sinistra del PCI. Le Edizioni Oriente, oltre alla rivista Vento dell’est, pubblicano gli scritti dei dirigenti cinesi e vietnamiti, i “Quaderni” e il “libretto rosso” con le citazioni di Mao.
Nel marzo ’64 i principali circoli m-l fondano il mensile NUOVA UNITÀ, con Duse direttore e Geymonat vicedirettore. Stavolta il colpo sembra andare a segno e il mensile a raccogliere intorno a sé l’intera nebulosa m-l. I nuclei principali sono concentrati a Milano,Roma,Padova e Pisa, ma fanno capo a Nuova Unita’ anche una quindicina di centri minori, tra cui alcune città del sud. Ma in meno di un anno la situazione degenera fino a determinare la chiusura del giornale. Il problema che divide in due fronti contrapposti l’intera area m-l è la diversa valutazione a proposito del PCI.
“Un corpo sano con una testa malata”, questo lo slogan che per molti militanti e dirigenti descrive sinteticamente la situazione del Partito Comunista. Giocano fattori sentimentali (si tratta per lo più di ex iscritti al partito), e dall’altra parte l’intera parabola della dissidenza m-l era iniziata nei primissimi ’60 con la circolazione all’interno del partito delle famose “lettere anonime”, redatte da dirigenti per promuovere una critica da sinistra alle scelte del vertice. Per un’altra ala del movimento, di cui si fa portavoce Giuseppe Mai, la radiografia è troppo ottimista e il PCI, per quanti possano esseri i “veri rivoluzionari” al suo interno, non può comunque rappresentare il proletariato rivoluzionario ma solo gli interessi corporativi dell’aristocrazia operaia qualificata.
Lo scontro porta, nel gennaio ’65, alla chiusura del giornale e alla scissione del gruppo redazionale. Duse guida gli intransigenti e fonda la rivista IL COMUNISTA. Da qui apre il fuoco sugli ex compagni, che intanto hanno dato vita a una seconda serie di Nuova Unità e che rispondono per le rime. Si afferma la pratica suicida della diffamazione reciproca, degli insulti e delle accuse più assurde, dei tentativi di linciaggio morale. Fortunatamente è solo una parodia dei metodi staliniani, che però impedirà sul nascere ogni sviluppo reale dell’area m-l.
Nel ’66 Il comunista e altri circoli m-l si fondono nella Federazione m-l d’Italia e iniziano le pubblicazioni di Rivoluzione proletaria. Duse però non aderisce e con un pugno di seguaci fonda la LEGA DEI COMUNISTI M-L, che dopo un fuggevole passaggio nel Manifesto rientrerà nel PCI alla vigilia  delle elezioni del ’72. La Federazione, a sua volta, esploderà letteralmente nel giro di due anni e intorno ai suoi frammenti si costituiranno non meno di dieci formazioni, ognuna fornita di un proprio organo di stampa. 


venerdì 9 novembre 2018

Il marxismo come filosofia olistica



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Il marxismo come filosofia olistica

La concezione materialistica della storia è unitaria/totale non totalizzante e/o totalitaria. Si basa sull’unita’ di teoria e prassi e sulla comprensione globale della storia e della società. (fe.d.)

- E’ più realistico accontentarsi di ravvisare nel corpo generale delle opere di Marx ed Engels l’espressione della sua totalità, apprezzando il fatto che in esse mano a mano i singoli elementi della totalità stessa –economia, politica, ideologia, teoria scientifica e prassi sociale –vanno progressivamente distaccandosi l’uno dall'altro; la critica dell’economia politica –ovvero la struttura –svolge appieno la funzione di elemento unificante del sistema, facendo in modo che esso non si dissolva mai in una sterile somma di scienze singole e garantendogli l’unità dei risultati. Una delle caratteristiche essenziali del metodo materialista dialettico consiste proprio nell’impossibilità di trarne conclusioni specialistiche, che possano sottrarsi alla comprensione globale dello sviluppo storico, e anche il nesso indissolubile tra teoria e prassi è formulato con tanta forza e chiarezza da far intendere la volontà di tutelarne la sussistenza anche negli eventuali sviluppi successivi del sistema.
Bisogna purtroppo constatare che quest’ultima preoccupazione fu in parte vana, perché –come d’altra parte c’era da aspettarsi –lo sviluppo del marxismo del secondo periodo nei suoi vari rami condusse necessariamente a varie forme di slegamento del sistema. Mentre secondo la concezione materialistica della storia non possono esistere singole scienze indipendenti –come non può esistere una ricerca pienamente teorica –molti marxisti dell’ultima parte del diciannovesimo secolo finirono per concepire il socialismo scientifico come una somma di conoscenze prive di nessi immediati con la prassi ; la concezione materialistica della storia, che in Marx ed Engels era stata essenzialmente dialettico-materialista, nei loro epigoni divenne qualcosa di essenzialmente adialettico. Il risultato fu il trasformare la teoria globale unitaria della rivoluzione in una critica scientifica dell’ordinamento economico borghese, dello Stato, dell’istruzione pubblica, delle religioni, dell’arte, della scienza e così via ; una critica destinata a sfociare in ogni sorta di ambizioni riformiste cui è estranea la critica radicale della società borghese e del suo Stato. Gli stessi Marx ed Engels biasimarono questa tendenza nelle evoluzioni del programma politico del partito socialdemocratico tedesco. In termini materialistico-dialettici, occorre dare atto agli sviluppi del secondo periodo di aver espresso le trasformazioni prodottesi nella prassi della lotta di classe. Non mancavano infatti i cosiddetti marxisti ortodossi, che tendevano a conservare l’impostazione teorica del primo periodo nel tentativo di frenare la deriva revisionista ; a conti fatti, però, furono proprio questi ultimi a rivelarsi più disarmati nei confronti dei grandi mutamenti storici che si stavano preparando. Per esempio, a fronte della maggior parte delle teorie revisioniste -le quali difficilmente si sarebbero potute definire marxiste, in quanto fondate su riforme destinate a cambiare lo Stato dall’interno -gli ortodossi si limitavano a respingere tali posizioni come un oltraggio, ma non offrivano risposte, e mentre l’azione rivoluzionaria veniva da loro collocata in un futuro sempre più trascendente, nell’immediato l’assuefazione alla politica revisionista si estendeva sempre più. Il crollo del marxismo ortodosso si sarebbe verificato con la guerra, nel momento in cui la questione della rivoluzione proletaria si impose all’ordine del giorno come questione reale e terrena di enorme portata ; allora fu chiara a tutti l’insensatezza di un’ortodossia teorica non sostenuta dalla prassi, e le nuove condizioni determinarono l’avvento di quel terzo periodo che dai suoi massimi protagonisti è definito di ripristinamento del marxismo. In realtà, più che un mero ritorno alle origini, ciò che teorici come Lenin e Rosa Luxemburg hanno effettivamente compiuto è lo svincolamento dal marxismo del secondo periodo, e si spiega con il fatto che in una nuova epoca storica rivoluzionaria non solo il movimento proletario di classe ma anche le posizioni teoriche dei comunisti dovevano riassumere la forma di una teoria rivoluzionaria.

- da “Comunismo e filosofia “ di Daniele Mansuino, eBook- - riassunto e adattamento di “Marxismo e filosofia” di Karl Korsch