Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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Gli studi subalterni

Gli studi subalterni permettono un’estensione delle categorie concettuali con cui si pensa, per agire politicamente, il presente storico, nè la loro reductio nè il loro dissolvimento. Il proletariato viene esteso ai gruppi subalterni e, da astrazione di classe presupposta, diventa reale motore della lotta delle classi, perchè inserito nella contesa egemonica. Che è il vero grimaldello che Gramsci offre nel Quaderno 25 - “Ai margini della storia-Storia dei gruppi sociali subalterni“  / Il passaggio dalla subalternità all’egemonia è dato però dall’autonomia, che è politica ma anche culturale. Che fa scaturire la “soggettivazione”, il soggetto storico agente nella prassi. Gramsci non è un filosofo “innocuo”, depotenziato della sua carica eversiva, genericamente nazional-popolare. Gramsci è un pensatore e uomo politico d’azione, marxista e rivoluzionario. / fe.d.

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ferdinando dubla
Già docente di scienze umane e filosofia presso i licei delle scienze umane di Manduria e Taranto, è ora condirettore del Centro Studi di Filosofia “Giulio Cesare Vanini” del centro messapico e ricercatore Subaltern Studies Italia
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lunedì 23 gennaio 2017

PIETRO CARUCCI da Martina Franca -- il partigiano 'Gregorio' -- il libro (1)


giorno della memoria --- la nostra memoria è per ogni giorno


dal libro “Da Martina Franca a Mauthausen. Diario del partigiano Gregorio” dell’autore Pietro Carucci con la prefazione di Armando Cossutta, edito dalla Nuova Editrice Apulia.

“Ci portarono in un ufficio e ci consegnarono una divisa di cotone a righe, un berretto, una giubba, un paio di mutande, un paio di pantaloni, ed un paio di zoccoletti in tela con suola in legno; niente calze né di estate che di inverno. Sulla mia divisa era cucito un numero 82.315. Quella piastrina la conservo ancora oggi. La si doveva portare legata al polso sinistro con un filo di ferro. Qualche mio compagno danaroso riuscì a corrompere uno dei kapò ed a farsi dare delle calde calze di lana per meglio superare i rigori invernali. Io non potei comprarmene e riportai un leggero stato di congelamento dei piedi, cosa che mi porto tuttora. Niente fazzoletti, niente asciugamani, la nostra divisa doveva servire a tutti i bisogni. Così iniziò la mia vita all’interno del lager , e quella di molti altri, con sulla giacca triangoli di diverso colore e segni di riconoscimento diversi a seconda della loro pericolosità nei confronti del nazismo.” 

presentazione a Martina Franca (TA), 18 aprile 2009 -- video
 


https://www.youtube.com/watch?v=nisY7NwF_Sg

 
Pubblicato da ferdinando dubla alle 08:38 Nessun commento:
Etichette: documentazione, storia

giovedì 19 gennaio 2017

A novantasei anni dalla fondazione del Pci ed a cento della Rivoluzione d'Ottobre occorre ripartire!


di Giancarlo Girardi -- red. Lavoro Politico-PCI-Taranto

Due anniversari per una discussione storica, di analisi e verifiche per l’oggi e per poter trarne indicazioni per il nostro futuro in un grave momento nazionale di disgregazione sociale, culturale e politica. Il 21 di gennaio, dalla nascita di un partito, il PCI che ha segnato per settanta anni la storia del nostro Paese sino al 1991. Le vicende politiche, sociali ed economiche di questi mesi, oltre alla presenza ancora di alcuni protagonisti, sono anche figlie della grande storia del Novecento fatta di tante conquiste ma anche di errori e tragedie. La stessa globalizzazione, con cui si intende oggi camuffare una presunta necessità di adeguamento a moderne leggi internazionali dell’economia con il libero arbitrio dell’impresa, rappresenta l’attacco antico ai diritti dei lavoratori duramente conquistati nel secolo scorso. La crisi dei partiti oggi, la loro continua ricerca di alleanze, di immagini apparentemente rinnovate, di cambiamenti di regole, mostra la mancanza di loro precise identità. L’assenza di una vera rappresentanza politica dei lavoratori nel parlamento italiano rende tutto oggi per loro più difficile, mentre la storia del secolo scorso vedeva nella sinistra e particolarmente nel Pci, nella sua capacità e “diversità”, tale fondamentale compito. Va ricordato, è fatto innegabile storicamente, il suo grande contributo alla lotta al fascismo, alla Resistenza, alla guerra di Liberazione, considerata da alcuni storici come il nostro secondo Risorgimento. Inoltre l’apporto alla scrittura della Carta Costituzionale, strumento fondamentale ancora oggi per la difesa dei diritti elementari dei cittadini, alla ricostruzione economica e sociale in Italia nel secondo dopoguerra, alle grandi battaglie per l’emancipazione dei lavoratori ed alla conquista dei diritti civili. Furono, per tante generazioni di operai, contadini, comuni cittadini, scelte di valori e di appartenenza ad un’idea ed un programma politico, un impegno continuo, militante, mai dettato, nella grande maggioranza dei casi, da aspirazioni personalistiche, per edificare una società più giusta. Poter dare qualcosa di sè, ritengo sia possibile ancora asserire, senza chiedere sostanzialmente nulla in cambio, ed affermarlo oggi può sembrare perfino incomprensibile o provocatorio ma cosi è stato! Il coinvolgimento all’attività di quel partito ed al suo progetto, per molti rappresentò, nel proprio piccolo, “una scelta di vita”, l’appartenenza ad una diversità che era vissuta soprattutto come discriminazione ingiusta da parte di altri e ciò inorgogliva ed era il collante morale dei suoi militanti, li rendeva ancora più uniti e protagonisti. Va ricordata l’influenza dei comunisti nelle organizzazioni dei lavoratori che allora veniva interpretata come misura di una “egemonia” intesa come direzione politica del movimento operaio. Anche il partito della Democrazia Cristiana, presente ed organizzata nella società civile, era altra cosa rispetto ai partiti di oggi. Con il suo interclassismo ed il grande consenso nella società dimostrava di volerlo cercare anche tra i lavoratori delle fabbriche. Il ruolo fondamentale dei comunisti veniva da tutti riconosciuto per l’alto senso della democrazia e delle istituzioni, dalla grande capacità di amministrare gli enti locali. Il suo, se è possibile definirlo tale, è stato l’ultimo storico, alto, tentativo nel secolo scorso di cambiare democraticamente ed in modo progressivo la società dal basso.  Il suo scioglimento significò anche rompere con la sua tradizione, la sua esperienza originale e soprattutto con la sua diversità, proprio nel momento in cui l’Italia implodeva nella “questione morale” e nel saccheggio della cosa pubblica.  Chi gli è succeduto si è rassegnato da tanto tempo a cambiare di continuo solo l’immagine di se stesso. La necessità, per loro, di lasciarsi sempre qualcosa alle proprie spalle rappresenta il segno di una continua ed inesorabile sconfitta. La ricerca ossessiva di un “nuovo” che sembra essere ogni volta destinato a diventare inevitabilmente vecchio e sorpassato dagli eventi.
(Giancarlo Girardi)
 
 
 
 
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Etichette: storia

martedì 17 gennaio 2017

LE TERRE DEL RIMORSO: origini e trasformazioni cultuali del rito della taranta fra Taranto e Lecce, Magna Grecia e Salento


Se lo stemma araldico antico di Taranto era lo scorpione, scelto da Pirro (vedi  “Scritti vari di Gennaro Bacile di Castiglione” Sito Araldica Civica: www.araldicacivica.it), non per questo bisogna inferirne che il rito della taranta abbia origini nel territorio della città dei due mari. Anche perché Pirro scelse quel simbolo per la conformazione tipologica della città e per simbolizzarne la capacità aggressiva, se attaccata, come l'aracnide, appunto. Ma nelle trasformazioni storiche avvenute nei secoli, plausibile appare, sulla traccia di Ernesto De Martino, il modello simbolico originario (la danza e la musica) divenuta terapia di un 'male di vivere' con implicazioni nella sessualità femminile e le modificazioni avvenute nell' Alto medioevo con la preminenza dell'esorcizzazione dalle tentazioni del 'peccato', e infine la definitiva 'cristianizzazione' nel Settecento con il culto paolino e dell'acqua risanatrice del pozzo di Galatina. I riti orfici e i culti dionisiaci, molto diffusi in Magna Grecia, si intrecciano con simbologie, stati di trance e liturgie del rito della taranta proprie del Salento visitato con la sua équipe da De Martino nel 1959 e poi resocontato nel suo testo, tra i più suggestivi, "La terra del rimorso", 1961. (fe.d.)
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I colori del Tarantismo
di Roberto Nistri (http://nistrikos.blogspot.it/search/label/Tarantismo)

Uno dei fenomeni più dibattuti nell’ambito degli studi antropologici è il tarantismo. Diverse sono le interpretazioni che si sono date del fenomeno. Per i più, sulle orme dei medici Epifanio Ferdinando e Giorgio Baglivi, il tarantismo è una malattia da ricondurre ad una sindrome tossica da morso di aracnide velenoso. Per Tommaso Cornelio, i tarantati non sono altro che dei dolci di sale. Per altri invece, al pari del medico Francesco Serao, il tarantismo è una falsa credenza popolare frutto della superstizione. C’è poi chi collega il fenomeno con la malinconia, e non mancano coloro che, come Ignazio Carrieri e Francesco De Raho lo riconducono ad una alterazione psichica dipendente o indipendente dall’aracnidismo. Ernesto de Martino, invece, grazie ai dati raccolti durante la ricerca sul campo nell’estate del 1959, sostiene l’irriducibilità del fenomeno a disordine psichico, e mette in risalto la sua autonomia simbolica, culturalmente condizionata, cioè un suo orizzonte mitico-rituale di ripresa e di reintegrazione rispetto ai momenti critici dell’esistenza, con particolare riferimento alla crisi della pubertà, e al tema dell’eros precluso e ai conflitti adolescenziali, nel quadro del regime di vita contadino.

Il tarantismo, secondo Ernesto de Martino, offriva l’occasione per evocare e configurare, per far defluire e per risolvere i traumi, le frustrazioni, i conflitti irrisolti nelle singole vicende individuali, e tutta la varia potenza del negativo che, rivissuta nei momenti critici dell’esistenza,veniva simbolicamente riplasmato come morso di taranta che scatena una crisi da controllare ritualmente mediante l’esorcismo della musica, della danza e dei colori.

Lontana dalle dotte disquisizioni, il tarantismo secondo la gente di Puglia, è causato dal morso di un animale, la taranta  che “pizzica” preferibilmente le donne, durante il lavoro nei campi, al piede, alla mano o al pube, nell’ardore dell’estate. Copiosa è la bibliografia sul tarantismo che negli ultimi decenni si è arricchita grazie soprattutto agli studi di Eugenio Imbriani, Roberto Nistri, Carlo Petrone, Rosario Quaranta, Anna Maria De Vittorio, Enza Musardo Talò e Giovanni Fornaro (..)

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(a cura di) Carlo Petrone, Il Morso Della Taranta A Taranto E Dintorni, Edizioni Giuseppe Laterza 2013, pp.426
recensione di Salvatore Esposito
 
 
Circoscrivere il fenomeno del Tarantismo al solo Salento, area in cui negli anni si sono concentrati gli studi sul tema, sarebbe un errore, e questo non solo perché le ricerche più recenti ne hanno attestato la presenza anche in altre zone europee, ma anche per la presenza di un’ampia letteratura, forse poco nota ai più, in cui viene presa in esame l’area tarantina. Se Ernesto De Martino, nella prefazione a “La Terra Del Rimorso, indicava in generale nella Puglia e nelle campagne dell'Italia Meridionale l’area in cui era radicato tale fenomeno, nel 1897 lo scrittore inglese George Gissing nei suoi appunti di un viaggio “Sulla Riva Dello Ionio”, scriveva che quest’area era caratterizzata da una profonda superstizione popolare, forza ritardatrice che non le ha consentito di adeguarsi, malgrado ogni sforzo, alla modernità ed al progresso. Le comunità contadine del tarantino come Manduria, Grottaglie, e Lizzano non erano estranee a questo antico rituale, e se è vero che “nomina sunt consequentia rerum” basterà porre attenzione alla comune radice “tar” per comprendere come possa esistere qualcosa di più di una connessione etimologica tra questa terra e il fenomeno del tarantismo. Un esempio ne è certamente Athanasius Kircher che, rifacendosi alla tradizione orale, fa derivare tarantula dal fiume Taro (Tara), sulle cui sponde non era difficile imbattersi in tarante, il cui morso, era ritenuto molto più pericoloso di quello di altri ragni, ma Tara, o Tarante, era anche il figlio di Nettuno, che secondo la leggenda ha fondato la città di Taranto, da cui prese il nome. A riguardo illuminanti sono gli studi di Roberto Nistri, che ha analizzato le connessioni etimologiche con il sanscrito e il greco nonché con la tradizione celtica, così come di particolare interesse sono le ricerche compiute da Antonio Basile e Carmelina Naselli, che rendono sostanzialmente plausibile un radicamento del tarantismo anche nell’area tarantina. A gettare nuova luce sul tema è “Il Morso Della Taranta. A Taranto E Dintorni volume antologico curato da Carlo Petrone, avvocato, pubblicista ed autore di testi in ambito giuridico e sociale, il quale ampliando il lavoro compiuto nel corso di un convegno in ricordo di Ernesto De Martino, promosso nel 2001 dal “Centro Ricerche e Studi Piero Calamandrei di Taranto”, ha compiuto una rigorosa ricerca documentale raccogliendo una serie di saggi di grande interesse che, in modo diverso, prendevano in esame il tema del Tarantismo, con particolare riferimento all’area tarantina. A riguardo spiega Petrone: “In queste pagine c'è la voce del Sud che sa raccontare. Ma anche la danza di donne che gridano un bisogno di riscatto sociale, tra rimorsi e ricerca di nuove dimensioni di vita. Il simbolico morso della Taranta scatenava una crisi che veniva controllata ritualmente mediante 'l'esorcismo' della musica, della danza e dei colori. La sconvolgente realtà di ieri forse si ripropone sotto nuove forme nell'epoca contemporanea. E tante storie continuano”. Ne è nato una corposa e ricca raccolta di saggi che nella sua prima parte ci consente di apprezzare gli attenti e meticolosi studi condotti da alcuni ricercatori tarantini come il già citato Antonio Basile, docente di Antropologia Culturale presso l'Accademia delle Belle Arti di Lecce con il prezioso contributo “Il ballo della taranta a Taranto e nei dintorni albanesi”, o il saggio “Il tarantismo: dal sintomo al simbolo dal sintomo al revival identitario” di Anna Maria Rivera, docente di Etnologia e di Antropologia sociale presso l'Università degli Studi di Bari. A tali contributi si aggiungono gli scritti di Roberto Cofano con una originale ricerca sui tour dei viaggiatori stranieri in Italia, dello storico Roberto Nistri con i due saggi “La musica strega e il ragno danzante” e “Memora orale e musica di tradizione da Diego Carpitella ad Alfredo Majorano”, nonché quelli di Vincenza Musardo Talò, studiosa attenta del folklore albanese, e Marco Leone, docente di Letteratura Italiana nell'Università del Salento. Preziosi ed illuminanti sono poi i saggi di Alberto Mario Cirese, Alfredo Majorano, Edmondo Perrone, e Giovanni Acquaviva, nonché “Il fenomeno del Tarantismo in Puglia”, pubblicato nel 1980 da Rosario Jurlaro su "Rassegna Salentina". La seconda parte del volume è dedicata ad alcuni testi storici sul tarantismo, con la novella ottocentesca “Lalla tarantata” di Alessandro Criscuolo, “Il ballo della tarantola” dello scrittore manduriano Giuseppe Gigli, il saggio che Michele Greco nel 1912 dedicò al tarantolismo, ed ancora il saggio “La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto” pubblicato da Anna Caggiano nel 1931 in una raccolta di studi sulle tradizioni popolari italiane. Completano il volume l’estratto da “Taranto… Tarantina” di Cosimo Acquaviva, il testo “Il fenomeno della tarantola nella nostra regione” pubblicato da Vincenzo Gallo nel 1935 su "Voce del Popolo", e un brano tratto da “Domenica in Albis” di Emanuele De Giorgio che, attingendo dai ricordi della sua infanzia racconta un colorito episodio di tarantismo di cui fu testimone. Giusto compendio del volume è il disco allegato, inciso per l’occasione dal gruppo I Febi Armonici, gruppo composto da Claudio De Vittorio (chitarra, violino, organetto e voce), Emanuele De Vittorio (tamburelli, percussioni e voce), Annamaria Caliandro (voce e castagnole), Tonino Palmisano (chitarra battente), i quali attraverso nove brani hanno offerto un piccolo spaccato della tradizione musicale tarantina. Durante l’ascolto scopriamo brani come “Mariella”, trascinante pizzica di San Marzano di San Giuseppe in cui spicca l’organetto di Massimiliano Morabito, gli stornelli “Ballati”, che sembrano rimandare alle fronne napoletane, o ancora la serenata “Vulia Cu Ti Li Docu” in dialetto leporanese. Il vertice del disco arriva però con “La Taranta Sbruvegnate” scritta da Saverio Nasole e qui riproposta insieme alla pizzica pizzica “Santu Paulu”, a dimostrare la stretta connessione tra il fenomeno del tarantismo nel Salento e nel Tarantino. 
 

 stemma della provincia di Taranto
 
 
  

 

Pubblicato da ferdinando dubla alle 09:50 Nessun commento:
Etichette: antropologia culturale

lunedì 9 gennaio 2017

il "DOPPIO SGUARDO" DI ERNESTO DE MARTINO


un saggio sull'"umanesimo etnografico" di Ernesto de Martino di Marcello Massenzio, storico delle religioni italiano. Il 'doppio sguardo' (sé e gli altri da sé, interno ed esterno), indispensabile oggi per un approccio verso le altre culture: è l'uomo ad essere il centro della propria storia, sempre, la coscienza individuale e collettiva che risolve la 'crisi della presenza' (categoria demartiniana) si determina attraverso la cultura e le simbologie (sacre e profane) della cultura popolare. E' possibile un'attualizzazione dell'umanesimo antropologico, oggi? (fe.d.)

risorsa disponibile su Treccani

L’atto di nascita di Ernesto De Martino (1908-1965) come antropologo e storico della cultura è Naturalismo e storicismo nell’etnologia: un’opera pubblicata nel 1941 in cui l’autore si confronta con alcuni dei più rilevanti studiosi di civiltà ‘primitive’, inquadrandoli all’interno delle rispettive scuole di pensiero ‒ Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) e la scuola sociologica francese; Edward Burnett Tylor (1832-1917) e l’evoluzionismo inglese; padre Wilhelm Schmidt (1868-1954) e la scuola storico-culturale viennese. De Martino non entra ancora in rapporto diretto con le civiltà d’interesse etnologico, non ne esplora l’universo culturale – il cui segno distintivo più appariscente è costituito dalla magia – con l’ausilio di proprie categorie interpretative, ma le esamina attraverso gli occhi di altri osservatori; al centro del suo interesse è la definizione del ruolo che l’etnologia deve assumere per trovare una propria collocazione nell’ambito dello storicismo.

leggi tutto

http://www.treccani.it/enciclopedia/ernesto-de-martino-e-l-antropologia_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Filosofia)/

Pubblicato da ferdinando dubla alle 03:27 Nessun commento:
Etichette: antropologia culturale

domenica 8 gennaio 2017

LA DESTORIFICAZIONE DEL NEGATIVO IN ERNESTO DE MARTINO


Presentazione: La categoria di Ernesto de Martino, di “destorificazione del negativo”, molto complessa dal punto di vista filosofico ed antropologico, collegata all’”ethos del trascendimento” e “crisi della presenza”e applicata alle culture subalterne, in specifico alla civiltà contadina lucana e ai fenomeni del tarantismo pugliese, può essere riattualizzata a partire dal concetto di “alienazione” in Marx (il Marx dei Manoscritti del ’44), piuttosto che inserita nelle suggestioni esistenzialiste e fenomenologiche proprie di quando fu categorizzata, già oltre il concetto di alienazione presente in Feuerbach e riferito alla religione. Qui Amalia Signorelli la estende ad alcuni fenomeni sociali contemporanei, rivitalizzandola in senso sociologico e dunque resa disponibile per l’intero campo delle scienze umane in chiave di interpretazione del presente. (fe.d.)
 
LA DESTORIFICAZIONE DEL NEGATIVO IN ERNESTO DE MARTINO
(Amalia Signorelli)

Il mito, con il suo linguaggio simbolico, ci assicura che il controllo del negativo è possibile là, in un luogo mitico, fuori dalla storia; il rito, anch’esso con il suo linguaggio simbolico, ci guida nell’operazione di trasferire fuori dalla storia, cioè di destorificare, il negativo che ci minaccia. In questa operazione non è il negativo che ci assilla o ci minaccia a essere risolto: è la crisi della presenza a essere posta sotto controllo, è la possibilità di non esserci più al mondo a essere scongiurata attraverso l’esorcismo mitico - rituale. Esso garantisce la possibilità di tornare a operare, di affrontare “realisticamente” il negativo “reale”: certo, non necessariamente di risolverlo. Ma come tutti sappiamo per esperienza, il risultato “reale” non è l’unico risultato che in questi contesti importa raggiungere. Altrimenti non si verificherebbe così spesso che un gesto o una serie di gesti, una formula verbale, il possesso di un oggetto, riesca così bene, al contrario dell’analisi e l’argomentazione razionale, a controllare l’angoscia esistenziale. La destorificazione del negativo è così cruciale nel pensiero demartiniano, perché apre a tutta la problematica dell’efficacia dei simboli. Vale a dire che si torna alla questione originaria, allo spinoso rapporto tra razionalità e irrazionalità che al giovane De Martino fu proposto da Vittorio Macchioro. Gli universi simbolici, che i gruppi umani hanno prodotto fino a oggi nella loro lunga e non sempre facile lotta per esserci nel mondo, hanno avuto in maggioranza contenuti culturali magico – religiosi. Senza affrontare qui il dibattito sulla genesi e sulla natura della magia e della religione, dibattito che ovviamente ha fornito a De Martino molti dei materiali e dei problemi sui quali ha lavorato, limitiamoci a constatare che magia e religione poggiano già di per sé sull’idea dell’esistenza di un mondo parallelo, trascendente rispetto a quello in cui noi siamo, e tutto simbolico.

Un mondo ideale per collocarvi la destorificazione delle evenienze negative, un mondo popolato di “forze”, “poteri”, “spiriti”, “divinità”, che si pongono essi stessi come adiuvanti dell’operazione di destorificazione e, dunque, come garanti del suo concludersi con la reintegrazione della presenza minacciata. Di più: il mondo magico- religioso è di per sé un grande mito, che ne contiene e ne alimenta migliaia di altri, a ciascuno dei quali corrisponde o può corrispondere un rito, una pratica rituale; di conseguenza tutto l’universo magico- religioso si pone come un inesauribile repertorio di narrazione e di pratiche utili per la destorificazione del negativo. Nelle società contemporanee che si pretendono secolarizzate, la destorificazione del negativo attraverso il simbolismo magico –religioso non è affatto scomparsa: è addirittura integrata e rafforzata da una ricca fioritura di linguaggi simbolici che investono gli ambiti dell’economico (il consumo vistoso, il consumo simbolico), del politico (i progetti apocalittico- millenaristici, ma anche la figura del leader e il suo carisma), della ricreazione e del tempo libero (la popolarità e il suo fascino, l’appartenenza di gruppo e il conflitto “eufemistizzato” per esempio nello sport, l’esibizionismo narcisistico e il conseguimento “simbolico” del successo, del protagonismo, dell’affermazione individuale). Si potrebbe, anzi si dovrebbe continuare. Qui ho voluto soltanto accennare in modo estremamente sommario come nelle riflessioni demartiniane si trovino gli strumenti euristici ed epistemologici per indagare fenomeni tanto significativi nella storia umana, quanto cruciali e onnipervasivi nella storia contemporanea.

 da Amalia Signorelli: Ernesto de Martino-Teoria antropologica e metodologia della ricerca, L’asino d’oro ed., 2015, pgg. 88/89
 
Amalia Signorelli
Si è laureata nel 1957 discutendo una tesi diretta da Ernesto de Martino, che un anno dopo la chiamò a far parte dell’équipe di ricerca impegnata nello studio sul campo del tarantismo pugliese. Ha studiato i processi di cambiamento culturale nell’Italia meridionale, segnatamente le migrazioni, il clientelismo, la condizione femminile, le trasformazioni urbane. È stata professore ordinario di Antropologia culturale nelle università di Urbino, Napoli “Federico II”, Roma “La Sapienza” e professore visitante nella E.H.E.S.S. di Parigi e nel Departamento de Antropología de la Universidad Autónoma Metropolitana - Iztapalapa de México D.F. È stata consulente della CEE e dell’ILO per l’emigrazione. Tra le sue numerose pubblicazioni, ha dedicato all’opera di Ernesto de Martino alcuni saggi, ha scritto l’Introduzione e ha curato in collaborazione con Valerio Panza la pubblicazione di Etnografia del tarantismo pugliese (2011).
 
 
 

Risorse:

Presentazione di "Ernesto De Martino" di Amalia Signorelli - IBS ...

▶ 1:29:17



"Nella foto, scattata da Franco Pinna a Bella (Potenza) il 10 luglio 1959, sulla via del ritorno a Roma, sono riconoscibili tutti i membri dell'équipe tranne Diego Carpitella. Dall'alto in basso e da sinistra a destra si riconoscono, dopo i due bambini di Bella, Annabella Rossi, Giovanni Jervis, un notabile locale, Letizia Comba, Giuseppe De Sina - geometra di Bella, abituale informatore di de Martino -, Amalia Signorelli, Vittoria De Palma, un altro signore non ben identificato con il libro Sud e magia in mano, e infine, in primo piano, Ernesto de Martino" (E. de Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959. A cura di Amalia Signorelli e Valerio Panza. Lecce, Argo, 2011, p. 56)
 
 
 

Associazione internazionale Ernesto de Martino    

 

 

 
 
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mercoledì 4 gennaio 2017

Curzio Maltese: abbiamo la scuola peggiore d’Europa e una ministra con la laurea inventata


Sulle pagine del "Venerdì" di Repubblica dello scorso 30 dicembre, l'editorialista Curzio Maltese critica aspramente la situazione della scuola pubblica.

Nel breve pezzo, dal titolo "Abbiamo la scuola peggiore d’Europa e una ministra con la laurea inventata", lo scrittore e giornalista scrive così: "Una ministra dell’istruzione, Valeria Fedeli, che trucca il proprio curriculum di studi inventandosi una laurea, rappresenta almeno un tocco comico nella tragedia dello smantellamento della scuola pubblica italiana. Un processo che va avanti da decenni, con vari governi, e non si arresta neppure davanti alla consapevolezza ormai diffusa che nel nuovo mondo la ricchezza delle nazioni dipende dal sapere, come mai prima nella storia.
I giovani italiani, è il messaggio, lavorano poco e studiano troppo. Ed è invece l’esatto contrario. I pochi che hanno un posto, lavorano quasi il doppio di un coetaneo tedesco o francese, ma guadagnano la metà perché, fra l’altro, non hanno studiato abbastanza. Abbiamo meno laureati, in proporzione, della Slovacchia e a quei pochi non riusciamo a trovare una collocazione adeguata in un sistema produttivo obsoleto. In compenso, è vero, riusciamo a fare ministri dell’Istruzione quelli che non hanno il diploma. 
Sono soddisfazioni per noi genitori. Nell’ultima finanziaria è previsto un altro taglio di 3,9 miliardi all’istruzione, mentre il governo ha deciso di stanziare 20 miliardi per il salvataggio delle banche che si sono giocate le risorse e i risparmi dei cittadini nei casinò della speculazione finanziaria.
Senza neppure la garanzia che i nuovi generosi capitali non siano tradotti in fiches per tornare al tavolo della roulette. Per far ingoiare ai cittadini simili assurdità la propaganda liberista lavora da anni alla distruzione morale della scuola pubblica italiana, che al contrario ha incarnato a lungo, almeno in alcuni settori, un modello da esportazione.
Si dice che spendiamo troppo per gli stipendi, quando i nostri insegnanti sono i meno pagati d’Europa. Si fa l’elogio dell’ingresso dei privati, che dovrebbe avvicinare i giovani al mondo del lavoro. E da quando si privatizza e si liberalizza, la disoccupazione giovanile è schizzata alle stelle. Nella divisione del lavoro in Europa è deciso che i giovani del Sud debbano prepararsi a un futuro di camerieri e i nostri governi eseguono l’ordine, firmando accordi con McDonald’s per mandare 10 mila studenti a servire gratis ai banconi del junk food.
Con entusiasmo, per giunta, perché la differenza è questa. Che almeno in Spagna, Portogallo o Grecia questi tagli alla scuola vengono ormai presentati per quello che sono, medicine amare imposte da fuori. In Italia invece sono grandi moderne riforme. Siamo l’ultima frontiera dell’ideologia liberista anni Ottanta. La meraviglia è che studenti, docenti e genitori non si ribellino".

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martedì 3 gennaio 2017

IL TENTATO FURTO DI DEMOCRAZIA


dal sito del PCI, un'analisi di Michelangelo Tripodi, resp.naz. Enti locali, sul tentato furto di democrazia da parte delle oligarchie politiche. (fe.d.)

PROVINCE E CITTÀ METROPOLITANE SENZA CITTADINI, ISTITUZIONI SENZA DEMOCRAZIA

La straordinaria vittoria del NO al referendum costituzionale del 4 dicembre non solo ha respinto la pesante aggressione alla Costituzione promossa da Renzi e dal PD, ma ha anche fatto emergere tutte le gravi incongruenze, contraddizioni, carenze e scelte sbagliate che sono il prodotto della politica di Renzi che e’ fallita miseramente con la bocciatura del suo progetto di controriforma.
Sono innumerevoli i buchi istituzionali che lascia aperti il disastro renziano che aveva costruito un certo tipo di assetto dello Stato e delle istituzioni, dando per scontata la vittoria del Si al referendum.
Il fatto più macroscopico e preoccupante e’ la mancanza di una legge elettorale per il Senato, visto che il famigerato Italicum vale, Corte Costituzionale permettendo, solo per la Camera.
E’ il capolavoro di Renzi: ha lasciato una grande democrazia senza una legge per poter votare.
Ma non finisce qui. C’è un’altro aspetto, non meno paradossale, che desta un forte allarme democratico e riguarda le province e le città metropolitane.
Infatti, in vista dell’abolizione delle province, inserita nella controriforma costituzionale, hanno approvato la legge n. 56 del 7 aprile 2014, nota come “legge Delrio”, con la quale hanno mantenuto le province e le citta’ metropolitane ma hanno cancellato i cittadini, eliminando l’elezione diretta di questi enti. Nel loro delirio di onnipotenza si sono portati avanti con il lavoro, pensando che l’abolizione delle province fosse già cosa fatta. Le cose sono andate diversamente e anche la scelta di Renzi e del Pd di abolire le province e’ stata sonoramente sconfitta dalla volontà popolare.
Adesso si tratta di rispettare il risultato del referendum e di ripristinare a tutti i livelli la sovranità popolare, così come si farà direttamente per il Senato della Repubblica che continuerà ad essere eletto a suffragio universale.
E suffragio universale dovrà essere anche per l’ elezione dei presidenti delle province e dei consigli provinciali nonché dei sindaci metropolitani e dei consigli metropolitani per restituire ai cittadini il diritto di scegliere i propri amministratori e consiglieri nelle province e nelle città metropolitane e per favorire il massimo di democrazia e partecipazione nella gestione dei servizi fondamentali per la popolazione.
Il PCI ritiene assolutamente necessario ridare la piena legittimità costituzionale a tutti gli enti ricompresi nell’art. 114 della Costituzione, che e’ stato confermato a furor di popolo.
L’ art. 114 recita: “La Repubblica e’ costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Citta’ metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Citta’ metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princıpi fissati dalla Costituzione.”
Ebbene la vittoria del No al referendum richiede un’immediata risposta politica ed istituzionale.
Pertanto, ci rivolgiamo al Presidente della Repubblica affinché si faccia realmente garante del rispetto della Costituzione e chiediamo che venga abrogata o quantomeno profondamente cambiata la famigerata “legge Delrio” che ha introdotto l’elezione di secondo grado per province e città metropolitane.
In tal senso sarebbe auspicabile procedere fin da subito alla sospensione dei rinnovi degli organi delle province previsti a partire dal prossimo 8 gennaio 2017, con elezioni di secondo grado che escludono i cittadini e calpestano la democrazia.
Per i comunisti non ci debbono essere più, province e città metropolitane senza cittadini e istituzioni senza democrazia.

Roma, 30.12.2016
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ALEPPO – ANKARA – BERLINO. GLI ORRORI DELL’IMPERIALISMO


dal sito del PCI, un'analisi chiarificatrice di Fosco Giannini, resp. naz. Esteri, sulle responsabilità imperialiste nello scacchiere mediorientale che va a fondo del fenomeno del terrorismo di matrice fondamentalista oltre i luoghi comuni e la retorica imposta dai mass media. (fe.d.)
 
All’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, Andrey Karlov, segue immediatamente l’orrenda strage dei mercatini natalizi di Berlino. Cosa unisce questi due, tragici, eventi? Li unisci Aleppo. Per meglio dire, li unisce la sconfitta dell’ ‘Esercito Libero” e filo imperialista siriano ad Aleppo e la liberazione, da parte dell’asse Siria-Russia (Assad-Putin) della più importante città della Siria, assieme a Damasco. Sia nelle folli parole ( folli, ma proiezioni di uno “spirito” e di una politica imperialista) dell’attentatore dell’ambasciatore russo, che nelle prime rivendicazioni Isis della strage di Berlino, la vendetta per la sconfitta delle forze “ribelli” e jihadiste ad Aleppo appare chiaramente essere il motivo degli orrori di Ankara e Berlino.

E in quale contesto, in quale fase si collocano i due, sanguinosi, eventi? In quella caratterizzata dalla sconfitta che stanno vivendo “Gli Amici della Siria Libera” ( USA, Francia, Germania, Gran Bretagna, la prima Turchia assieme alle petrolmonarchie sunnite del Golfo) e dalla grave battuta d’arresto che l’intero progetto di dominio imperialista su tutta l’area del Medio Oriente subisce in seguito alla perdita di Aleppo e al ritorno all’indipendenza siriana attorno al legittimo potere di Assad.

I media dell’Unione europea e tutto il pensiero mainstream occidentale segue un percorso univoco, così identico da sembrare concordato ( in verità reso uguale dall’egemonia livellatrice della cultura imperialista dominante): alla denuncia per l’orrore dell’assassinio dell’ambasciatore russo e dei morti di Berlino, si assomma la denuncia per “ l’orrore provocato dai bombardamenti siriani e russi su Aleppo”. Una perversione analitica che da corpo ad un folle corto circuito mediatico, secondo il quale – infine – l’orrore jihadista equivale a quello russo-siriano e solo un “soggetto” viene fuori, dal quadro, esente ed innocente: l’imperialismo, USA e Occidentale.

Vale la pena, di fronte a tanta, “goebbelsiana”, falsa propaganda (come affermava proprio il ministro hitleriano: “una menzogna più volte ripetuta diviene verità”) impegnarsi a ristabilire la realtà delle cose.

Come si giunge al fuoco di Aleppo? Questa domanda ne presuppone altre, precise: come si arriva al conflitto siriano? Quando, in quale contesto ? Chi ha organizzato, sollecitato questo conflitto? Per quali obiettivi? Perché la Siria? E quanto sangue, orrore, distruzioni hanno prodotto coloro che hanno voluto il disastro siriano?

Il conflitto siriano si apre nel corso del 2011. Prima di esso vi erano stati i due attacchi imperialisti contro l’Iraq ( il primo dall’agosto 1990 al febbraio 1991 e il secondo dal marzo 2003 sino al dicembre 2011 ) e la guerra condotta da uno sterminato fronte imperialista contro la Libia, guerra iniziata il 19 marzo 2011.

Gli USA, rimasti l’unica potenza mondiale dopo la caduta dell’URSS, forzano ogni confine per allargare il proprio dominio politico, economico e militare su scala planetaria. In Medio Oriente, primo loro complice Israele, scatenano – dalla prima Guerra del Golfo in poi – un vero e proprio trentennio di fuoco e di sangue. L’Iraq è distrutto, attraverso una guerra infinita, perché non subordinato a Israele e agli USA; la Libia di Gheddafi è messa a ferro e a fuoco perché in prima linea per un progetto di Africa libera, indipendente e antimperialista. La Siria di Assad è poi, agli occhi degli USA, la peggiore in campo, il vero e proprio avversario irriducibile, per la sua natura antimperialista e anti israeliana. La Siria non è ricca di materie prime: nulla a che vedere con i giganti energetici della regione: Iraq, Iran, monarchie del petrolio. Ma la Siria, sotto la guida del Partito Bat’th ( Arabo Socialista), svolge un ruolo storico e politico centrale in tutto il Medio Oriente, sia per il suo antimperialismo, che impedisce che in tutta quella regione del mondo si estenda il dominio incontrastato degli USA e di Israele, sia per l’appoggio, di straordinaria forza, alla lotta del popolo palestinese, sia per essere culla storica e culturale del nazionalismo arabo e, dunque, sorgente viva dell’unità panaraba antimperialista, legata prima all’URSS e al campo socialista e, poi, al mondo in crescita esponenziale dei BRICS.

La Siria, dopo la distruzione dell’Iraq e l’attacco devastante alla Libia, è l’altro, grande ostacolo al progetto imperialista di dominio in quell’area del mondo. Occorre distruggere Assad. Hillary Clinton ha un piano, quello imperialista classico: attaccare militarmente, portare gli stivali dei marines a calpestare il suolo siriano. Far fare ad Assad la stessa, orrenda fine già fatta fare a Saddam Hussein e Gheddafi.

Ma Obama gioca a fare il Presidente nero e democratico, contrario all’attacco militare in terra. Utilizza, ai fini degli interessi americani, “ la primavera araba”; impara dalle “rivoluzioni arancioni”, riproponendone la prassi ( imperialista, “golpista”, ultraliberista, filo-NATO, filo occidentale, filo Unione europea e anche fascista) anche per la Siria. Le “rivoluzioni colorate” e dirette dagli USA nella Serbia dell’ottobre 2000; nella Georgia ( “rivoluzione delle rose”) del 2003; dell’Ucraina del 2004, del 2005 e del 2014 ( sfociate nella piazza nazifascista di Kiev, Maidan); la “rivoluzione dei tulipani” nel Kirchizistan sono esperienze di controrivoluzioni filo americane indotte che Obama fa proprie e rilancia contro Assad, il nemico numero uno dell’imperialismo USA in Medio Oriente, l’irriducibile che va tanto più demonizzato, in Occidente, e caricaturizzato come un satrapo e un dittatore sanguinario medio orientale, quanto più la Siria di Assad è, in verità, il Paese più laicizzato della regione, un Paese in via di sviluppo industriale, in via di profonda democratizzazione politica e istituzionale e dalla grande e capillare cultura.

Come si concretizza la “rivoluzione arancione” in Siria, progettata da Obama?

Scatta, innanzitutto, la prima parte di quell’imponente “piano psicologico”( il cosiddetto “ Psypos”, per il quale lavorano speciali unità delle forze armate e dei servizi segreti USA), volto alla demonizzazione del “regime di Assad”. E’ lo stesso Pentagono a definirne il lavoro: “ Operazioni pianificate per influenzare, attraverso determinate informazioni, le emozioni dell’opinione pubblica ( americana e mondiale) e il comportamento di organizzazioni di massa e governi stranieri, così da indurre rafforzare atteggiamenti favorevoli ai nostri obiettivi ”.

Si inizia, dunque, costruendo per i media dell’intero mondo occidentale la figura demoniaca di Assad. Iniziando poi a costruire, sul territorio, la “rivoluzione arancione” siriana. In pratica, vuol dire che gli USA e le potenze arabe dei petroldollari – con l’Arabia Saudita e il Qatar alla testa- mettono a disposizione milioni e milioni di dollari affinché si organizzi, si doti di intellettuali e dirigenti ( da trovare anche nell’immensa diaspora e polverizzazione sociale conseguenti alla distruzione irachena) di attenzione e appoggio mediatico nazionale e internazionale un movimenti di massa anti-Assad, filo americano e filo Unione europea. Un movimento arancione e di massa in Siria, insomma.

E quando l’onda colorata si solleva, puntando ad una piazza Maidan di estensione nazionale , puntando a cacciare Assad e ad assumere il potere a nome degli USA , e quando a tutto ciò l’esercito di Assad, legittimamente, si oppone, è già l’ora, per gli USA, per Obama, per la NATO, per un’Unione europea complice ( come in Ucraina) e per gli stati arabi filo americani di costruire “ l’Esercito Libero Siriano”. Con i dollari e i petroldollari. Con i generali, gli ufficiali, i soldati dell’ex esercito iracheno, con il popolo degli sbandati iracheni, libici, africani che le guerre imperialiste hanno prodotto. Persino con i cosiddetti foreign fighters, partiti dall’Europa per combattere a fianco dell’ “Esercito Libero Siriano” e con i jihadisti contro Assad e poi tornati in Europa a colpire le capitali, come in questi giorni Berlino. E’ il sonno della ragione, indotto dall’imperialismo USA e Occidentale, che genera mostri.

E’ nel luglio del 2012 che l’ “Esercito Libero Siriano” – appoggiato dalle manifestazioni dell’onda arancione – sferra il suo attacco più duro contro Assad. Il 18 luglio una bomba distrugge il quartier generale della Sicurezza Nazionale. Nell’attentato muoiono alti dirigenti militari e del governo. La contemporanea offensiva ribelle verso le aree centrali della città fa presagire un imminente crollo del regime.

Ma il popolo siriano, proprio in questa, tragica occasione, dimostra di non stare dalla parte dei “ribelli” o degli “arancioni”: il popolo di Damasco non solo non si arruola con l’ “Esercito Libero”, ma entra in lotta contro di esso e favore di Assad. I ribelli non riescono a consolidare le posizioni conquistate e le forze armate siriane riescono ad organizzare una controffensiva che li spinge verso le zone periferiche della città, di cui riescono a mantenere il controllo. La “Battaglia di Damasco”,molto prima dell’intervento dell’esercito russo a fianco di Assad, rappresenta un colpo durissimo per l’”Esercito Libero” e per gli USA. Questa stessa sconfitta apre forti contraddizioni anche nel movimento arancione. L’esito Maidan si allontana.

Ma, giunti a questo punto, facciamo parlare non un comunista, non uno dei “soliti” intellettuali italiani che militano nel campo antimperialista. Lasciamo la parola a Mostafa El Ayoubi, leggiamo dei passaggi di un suo articolo pubblicato non dalla “Pravda”, ma da “Nigrizia”, il mensile italiano dei missionari comboniani dedicato al continente africano, ove scrive anche Alex Zanotelli.

Scrive El Ayoubi, il 1° novembre del 2013: “ Sono passati più di due anni e mezzo dalla guerra “civile” in Siria. Il bilancio è drammatico: oltre 110 mila morti e 5 milioni di sfollati; danni alle infrastrutture per oltre 350 miliardi di dollari. L’economia è in ginocchio e si soffre la fame. All’opinione pubblica internazionale è stato raccontato, dai media mainstream, che il colpevole di tutto ciò è il regime siriano, che avrebbe soffocato nel sangue la rivolta pacifica per la democrazia. Ma con il passare del tempo questa narrazione ha iniziato a sgretolarsi. La realtà- che oggi i grandi media faticano ad ammettere – è che la guerra contro la Siria era già allo studio per far cadere il regime al-Assad e sostituirlo con uno servizievole, come già accaduto in Iraq e in Libia. Pochi giorni dopo l’inizio della rivolta di Dar’a, nel marzo 2011, scesero in campo il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia a sostegno della rivoluzione arancione. Dietro a questi Paesi, ovviamente, c’era la regia del governo americano e dei suoi alleati occidentali; in particolare Gran Bretagna e Francia che, nell’accordo Sykes Picot del 1916, si spartirono la Grande Siria. Una delle prime mosse è stata la sospensione della Siria dalla Lega Araba ( altro strumento di controllo del mondo arabo da parte della Casa Bianca) e la creazione del Consiglio Nazionale Siriano ( CNS) con sede a Istanbul. Successivamente, sotto l’egida del governo di Ankara, è stato creato l’ “Esercito Libero Siriano”…La propaganda mediatica contro l’establishment siriano è stata affidata all’Osservatore Siriano per i Diritti Umani ( OSDU) con sede a Londra e divenuto la fonte principale per Al Jazeera ( del Qatar), di Al Arabiya ( dell’Arabia Saudita) e anche per i colossi mediatici occidentali…Sul piano pratico l’ “Esercito Libero Siriano” non è stato in grado di conquistare Damasco . Ciò ha indotto l’alleanza occidentale anti-Assad a ricorrere ai jihadisti e ai mercenari reclutati da ogni dove. In particolare la scesa in campo dei jihadisti – desiderosi del martirio – è stata determinante nella caduta di molte città e villaggi in mano ai “ribelli”. Il movimento qaedista Jabhat al Nusra ha in pratica scavalcato l’ “Esercito Libero Siriano” e oggi domina gran parte delle zone conquistate”.

Quest’ultima parte dell’articolo tratto da “Nigrizia” è particolarmente significativo, poiché attesta l’unità d’azione – in senso filo imperialista e anti Assad – tra l’ “Esercito Libero Siriano” e gli stessi jihadisti.

L’intervento militare della Russia a fianco di Assad è stato risolutivo nel liberare la Siria e nel liberare Aleppo. Se non ci fosse stato l’intervento russo – è ciò che riferiscono tutte le testimonianze da Aleppo e dalla Siria – i cittadini di Aleppo sarebbero stati tutti massacrati dai “liberatori” anti – Assad. Il conto finale dei danni provocati dalla guerra imperialista in Siria supera, oggi, di gran lunga, quelli descritti nell’articolo citato di “Negrizia”: siamo a 300 mila morti e 700 mila profughi siriani. La vittoria dell’asse Russia-Assad è una sconfitta bruciante per il progetto imperialista volto a scalzare Assad e costruire anche in Siria l’ennesimo governo Quisling. E’ a partire da questa cocente sconfitta che vanno decodificati i racconti dei media occidentali, tutti volti a raccontare solamente i supposti massacri indiscriminati dei bombardamenti russi su Aleppo e – viceversa- tutti pronti nel rimuovere il senso di quei bombardamenti , volti a liberare Aleppo dal dominio oscurantista e sanguinario dell’esercito “ribelle”, unico nome, ormai, col quale i giornalisti americani ed europei – confusamente, ipocritamente – chiamano l’insieme dei soldati dell’ “Esercito Libero Siriano” filo americano e i jihadisti del Califfato. “Esercito Libero Siriano” e jihadisti uniti nel tentativo di prolungare il loro dominio su Aleppo: questo è il nemico contro il quale combattono russi e siriani. Un nemico così repellente da consigliare anche ai media occidentali di non nominare. “Ribelli”, debbono chiamarsi. Ma è lo sconcerto per la sconfitta che confonde gli USA, gli Stati dell’Ue e i media filo imperialisti che, proprio attraverso questa loro confusione politica e psicologica, tradiscono in verità quello che è stato e sarebbe ancora il loro più profondo desiderio: mantenere l’unità d’azione militare sul territorio tra “Esercito Libero Siriano” e jihadisti, ad Aleppo e in tutta la Siria. Per allargare il dominio, oltre l’Iraq e la Libia. Pagando, magari, anche il prezzo di un rovesciamento della rivoluzione arancione in regime della Shari’a in Siria, come già accaduto, peraltro, in Afghanistan, dove gli USA preferirono al potere comunista il regime dei talibani. Inventandosi al Qaida.

Ma la Russia, e Assad, hanno vinto. E, per i popoli, un destino finalmente benigno ha voluto che Hillary Clinton perdesse le elezioni negli USA. Se no, sarebbe stata probabilmente una nuova Grande Guerra.
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