L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla
L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla
La pedagogia come rapporto tra felicità e futuro
Se l’intento educativo è intenzionalità pedagogica, esso ha a che fare con i concetti di felicità e di futuro. Entrambi si trovano nel limbo del dover-essere; la felicità è un’aspirazione che nel momento in cui si attua non produce piena consapevolezza di sé: per cui si è stati felici e mai si è felici. Il futuro non c’è mai, si progetta, ma quando viene si concretizza come presente. La pedagogia è progetto di vita, di istruzione, di formazione, che ricerca felicità e futuro. La scommessa della pedagogia di ispirazione marxista è una felicità sociale collettiva e un futuro costruito con le proprie mani e nell’autodeterminazione di soggetti a cui sono stati forniti gli strumenti culturali emancipativi, che si pensano e agiscono come totalità sociale che, affermava il Lukacs di Storia e coscienza di classe (1923), rompono il dilemma dell’impotenza: “il dilemma tra il fatalismo delle leggi pure e l’etica della pura intenzione”.
Già docente di scienze umane e filosofia presso i licei delle scienze umane di Manduria e Taranto, è ora condirettore della Scuola di Filosofia “Giulio Cesare Vanini” del centro messapico e ricercatore Subaltern Studies Italia
Colpito al cuore il sistema della precarietà. La corte di giustizia europea: il governo italiano stabilizzi il personale Ata e i docenti che lavorano da più di 36 mesi con contratti a termine. Giannini rassicura: «148 mila in ruolo nel 2015 e 40 mila con un concorso». Per i sindacati è insufficiente: «La decisione riguarda anche gli altri 100 mila esclusi dal governo»
Roberto Ciccarelli su Il Manifesto (articolo integrale)
La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha colpito
al cuore il sistema del precariato nella scuola in Italia. Con una sentenza
attesa da tempo ieri la corte di Lussemburgo presieduta dal giudice sloveno
Marko Ilesic ha dichiarato illegali i contratti di lavoro a tempo
determinato stipulati in successione oltre i 36 mesi (tre anni). Da
oggi i docenti precari e il personale Ata, che hanno superato un
concorso nel 1999, o hanno ottenuto un’abilitazione, hanno diritto ad
essere assunti nella scuola. La Corte ha riportato sui binari del diritto un
paese che ha cercato con tutti i mezzi di restare nell’illegalità con il
Dl 368 del 2001 che permette un numero illimitato di rinnovi contrattuali
solo nella scuola.
L’Italia sarà così obbligata,
pena risarcimenti milionari e decine di migliaia di ricorsi ai giudici
del lavoro, a tornare a far parte dello stato di diritto comunitario
dopo quindici anni.
La sentenza ha un valore epocale
perché vale sia per il lavoro pubblico che per quello privato. Dunque sia
per la scuola e la pubblica amministrazione sia per le imprese. Questo
significa che la riforma Poletti (la prima parte del Jobs Act) che ha cancellato
la cosiddetta «causalità» dei contratti a termine può essere considerata
non valida poiché contravviene alla direttiva europea 70 del 1999. Quella
che vieta i rinnovi dei contratti a termine oltre i tre anni,
ma che il governo Renzi non ha rispettato. Contro questa «riforma»,
i giuristi democratici, la Cgil e l’Usb hanno già presentato
una denuncia alla Commissione Europea. In caso di parere positivo, il
ricorso passerà alla Corte che, alla luce della sentenza di ieri, non potrà
che confermare il suo orientamento. Nel frattempo in Italia, i giudici
del lavoro saranno costretti ad applicare la sentenza nella scuola
o negli enti di ricerca e nella P.A.
La Corte ha smontato uno degli
alibi usati dai governi per non fare le assunzioni: quello dei concorsi pubblici.
Una rarità ormai, di recente riscoperto in maniera caotica e iniqua dal
ministero dell’Istruzione. Ebbene, i lavoratori dovranno essere assunti
subito senza aspettare l’epletamento delle procedure concorsuali.
La sentenza fa inoltre traballare
le basi sulle quali è stato costruito l’edificio della precarietà sin
dal 1997, quando il centro-sinistra di Prodi approvò il famigerato «pacchetto
Treu». Risolutivi sembrano i punti 100 e 110 della sentenza
a favore di otto docenti e collaboratori amministrativi napoletani
che hanno lavorato per il ministero dell’Istruzione per non meno di 45 mesi
su un periodo di 5 anni. Il primo stabilisce che il contratto
a tempo indeterminato è «la forma comune dei rapporti di lavoro» anche
in settori come la scuola dove il tempo determinato rappresenta «una caratteristica
dell’impiego». Il secondo punto smentisce le politiche dell’austerità con
le quali i governi hanno giustificato il blocco delle assunzioni in
tutto il pubblico impiego: il rigore del bilancio non può giustificare il
«ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo
determinato». Bisognava aspettare l’Europa per affermare la certezza di
questi principi. A tanto è arrivata la barbarie politica
e giuridica nel nostro paese.
Ieri il governo Renzi ha provato a fare il vago. La risposta
del ministro dell’Istruzione Stefania Giannini era prevedibile: la
«buona scuola» prevede l’assunzione dei 148 mila docenti precari nelle graduatorie
ad esaurimento e il concorso per 40 mila nel 2015. Tutto a posto
allora? Per nulla. La sentenza della Corte chiarisce la fondamentale
discriminazione compiuta dal governo ai danni di almeno altre 100 mila persone
che non verranno assunte a settembre, pur avendone i titoli. Si
tratta dei docenti abilitati Pas e Tfa, oltre che del personale Ata
(almeno 15 mila). La maggior parte ha lavorato più di 36 mesi nella scuola.
Si parla di 70 mila, ma anche di 100 mila.
Sui numeri
non c’è certezza perché manca un censimento serio, l’unico strumento per
procedere ad un vero piano per le assunzioni. La sentenza è infine un
colpo tremendo, anche finanziario, alla politica degli annunci
dell’esecutivo. Se, com’è prevedibile, continuerà sulla sua strada, allora
dovrà prepararsi a pagare milioni di euro in risarcimenti. Nei tribunali
italiani giacciono almeno diecimila ricorsi in attesa della sentenza della
Corte. Da oggi i processi di moltiplicheranno a dismisura
e si concluderanno con una condanna. Renzi si trova davanti a questa
alternativa: assumere fino a 300 mila persone nella scuola, oppure iniziare
a pagargli i danni.
Tutti
i sindacati della scuola stanno affilando le armi giuridiche.
L’Anief, che tra i primi ha iniziato a percorrere questa strada,
prepara una valanga di nuovi ricorsi per imporre il pagamento degli scatti di
anzianità ai precari, nonché le loro mensilità estive per un totale di 20
mila euro. «È una pagina storica – ha detto Marcello Pacifico, presidente
Anief – Ora è assodato che non esistono ragioni oggettive per discriminare
chi è stato assunto a tempo determinato nella scuola dal 1999». La
Gilda di Rino Di Meglio ha recapitato una diffida al governo. Se entro dicembre
non avvierà la stabilizzazione dei precari percorrerà fino in fondo la
via giudiziaria.
«La questione
precariato è esplosiva – sostiene Massimo Di Menna della Uil Scuola –
Conferma la miopia di una gestione del personale attenta al risparmio anziché
al rispetto dei diritti dei lavoratori». Piero Bernocchi dei Cobas chiama
alla mobilitazione contro il governo che, come i precedenti, preferirà
pagare le multe piuttosto che rispettare il diritto: «Con il suo piano Renzi
voleva espellere il 50% dei docenti mettendo precari contro precari, fasce
contro fasce. Non c’è riuscito. Ora bisogna estendere questa conquista
a tutto il pubblico impiego». «Non bisogna illudere i precari,
non possono aspettare gli anni del dibattimento nelle aule legali —
sostiene Cristiano Fiorentini(Usb) — La sentenza non determina assunzioni
immediate. Ci vuole una norma per la stabilizzazione».
«Il
governo ha sostenuto che la Cgil difende i lavoratori stabili
e discrimina quelli precari — sostiene Mimmo Pantaleo, segretario
Flc-Cgil — La sentenza della Corte di Giustizia europea sulla scuola ha
ribaltato questa falsità e dimostra come il nostro sindacato si stia
battendo per i precari. Questa sentenza rafforza le ragioni dello
sciopero generale del 12 dicembre». Giunta all’indomani dell’approvazione
alla Camera del Jobs Act, la sentenza colpisce uno dei pilastri della
riforma targata Renzi-Poletti: vieta cioè di rinnovare infinite volte il
contratto a termine: «Ora devono scegliere — continua il sindacalista
— O affrontano migliaia di ricorsi, e li perderanno, oppure stabilizzano
tutti i precari e non solo quelli iscritti nelle graduatorie
a esaurimento».
La sentenza
della Corte Ue è uno di quei «casi in cui diciamo meno male che l’Europa
c’è — ha commentato la segretaria Cgil Susanna Camusso — Non c’è dubbio
che questa sentenza sia un precedente per i precari della P.A. e sul
decreto Poletti. Il governo deve rispondere sul fatto che non procede alla
stabilizzazione dei precari».
1^ posto (+1)
"Per un insieme di valori, non chiamateci minori"
-Dinoi Michele.
Liceo delle Scienze Umane F. De Sanctis, Manduria
Classe 3 AS/UM
AutoMotivazione:
L'alunno in seguito spiega la scelta del motto appena sopra elencato e spiega che con l'evoluzione della società, si stanno tralasciando alcuni valori principali della vita del fanciullo,la definizione di minore non aiuta la società a integrare e rendere partecipe le opinioni,i sentimenti e il pensiero di questi fanciulli.Il termine minore nell'accezione comune è inteso come più piccolo e siccome al giorno d'oggi con l'ignoranza si è coinquilini,un termine un po' più adatto per questi fanciulli renderebbe per loro e per tutti una concezione di bambino adeguata al contesto.
2^ posto (+0,5)
"Lasciati guidare dal bambino che sei stato"
"Non ho nulla da rimproverare alla mia coscienza perché ho agito sempre per costrizione e non per libera scelta; ma la società non ha voluto accogliermi nel suo seno. Mi consegno alla giustizia dopo aver invano sognato per me e per voi un mondo più giusto e più umano. Il mio nome echeggia tragicamente in tutta la Provincia: sappiate però che don Ciro è innocente di tanti delitti che gli sono addossati. Addio!"
(..)
Don Ciro, tra due fila di soldati, seguiva il cataletto incedendo a testa alta e quasi noncurante di quanto accadeva intorno. Ovunque soldati in assetto di guerra e perfino qualche cannone... Sugli archi della caserma sventolavano, in alto, la bianca bandiera borbonica e, al di sotto in stridente contrasto, la bandiera nera dei Decisi. Don Ciro, dopo aver allontanato ancora un sacerdote, fu condotto davanti agli archi e, nonostante le sue rimostranze, bendato e con le spalle rivolte al plotone. Un silenzio gelido si stese sulla piazza e risuonarono sferzate le parole della sentenza letta da un sottufficiale prima che l'ordine di fuoco venisse impartito. La luna in quel momento si fece spazio tra le fredde nuvole di febbraio e sovrappose il suo colore funereo ai lumi e alle fiaccole; le campane mandavano all'intorno rintocchi di morte. Atterrita e spaurita, la gente attese come una liberazione il suono della tromba: una scarica di fucileria laceró il silenzio della sera dissolvendo il mito di don Ciro Annicchiarico.
(..)
Da: Rosario Quaranta ~ Un prete brigante - Don Ciro Annicchiarico (1775-1818)
ed. Del Grifo, 2005
Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia
LaConvenzioneONU sui Diritti dell'infanzia fu approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre1989. Essa esprime un consenso su quali sono gli obblighi degli Stati e della comunità internazionale nei confronti dell'infanzia: -Tutti i paesi del mondo (eccetto Somalia e Stati Uniti) hanno ratificato questa Convenzione. -La Convenzione è stata ratificata dall'Italia il 27 maggio 1991 con la legge n. 176. -Oggi aderiscono alla Convenzione 193 Stati. -La Convenzione è composta da 54 articoli. -La Convenzione è uno strumento giuridico e un riferimento a ogni sforzo compiuto in cinquant'anni di difesa dei diritti dei bambini. La creazione della convenzione è ricordato ogni anno, il 20 novembre, con la commemorazione della Giornata internazionale per i diritti dell'infanzia e dell'adolescenza.
Sul numero odierno de Il Manifesto, in edicola a 20€ per sostenere l'acquisto della testata da parte della cooperativa dei giornalisti, uno stralcio dell'articolo di Alberto Burgio su Pasolini........
Se ieri Pasolini lamentava che il Pci fosse un centro
di potere, che direbbe oggi – lui comunista – di una sedicente «sinistra»
insediata nelle stanze più ambite del Palazzo e febbrilmente impegnata in una
guerra senza quartiere non solo contro la verità (la politica ridotta a trasmissione
di spot a reti unificate) ma anche contro il lavoro, per radicalizzarne
la subordinazione? Difatti sussistono, per contro, anche elementi di
inattualità di quella denuncia, che proprio da qui discendono.
Intanto: dove scriverebbe oggi Pier Paolo Pasolini? Allora poteva sferrare
attacchi ad alzo zero contro i potenti dalla prima pagina del principale
quotidiano italiano che già da due anni ospitava le sue inaudite provocazioni.
Lì poteva dirsi orgogliosamente comunista. E praticare la libertà
dell’intellettuale senza riguardi per diplomazie e opportunità. La sua
scandalosa presenza rifletteva e approfondiva contraddizioni irrisolte
in un sistema di potere che si sarebbe blindato solo nel corso degli anni
Ottanta, al tempo della strutturale crisi di espansività del capitalismo
maturo. Oggi sarebbe forse immaginabile un Pasolini editorialista del
Corriere della sera o di Repubblica? Ciascuno conosce la risposta, se
appena ha contezza del desolante paesaggio dell’informazione italiana. Che
non è un ambito distinto e separato, ma lo specchio fedele della decadenza
intellettuale e morale del paese e della corruzione di tutta una classe
dirigente.
Come l’istruzione sia concepita dal punto di vista di
un’ideologia di destra è comprensibile, e ben noto, al lettore
anche solo un po’ attento alla politica. Ma sull’università il discorso
è ancora più semplice e si potrebbe riassumere così: roba da ricchi.
E pazienza se qualcuno particolarmente geniale riesce a «bucare» il
blocco proveniendo dai ceti inferiori. Uno su mille ce la fa, cantiam pure
anche noi.
Del resto è la tesi palesemente
dichiarata da molti. Un solo esempio: in «Facoltà di scelta», di Ichino
e Terlizzese, si sostiene candidamente che l’istruzione superiore
è un lusso che deve essere pagato dagli utenti. Dunque è, appunto, roba
da ricchi.
Una visione di sinistra come
dovrebbe essere?
Anche qui, per ragioni di spazio,
ricorriamo a uno slogan: l’università come ascensore sociale. Manca la
canzonetta, ma speriamo che prima o poi qualche nostro cantore provveda.
Per sostenere questo assunto non c’è bisogno di fare riferimento
a posizioni di accentuata sinistra: è più o meno quanto si
dice nella pacata formulazione degli artt. 3, 33 e 34 della Costituzione.
Basta cioè un approccio, vogliamo dir così, illuminista?
Ora, come è messa la nostra
università pubblica?
La più recente analisi Ocse ci
descrive agli ultimi posti nell’investimento sull’istruzione superiore, nel
rapporto docenti/studenti, nel numero di atenei, e con una percentuale
di laureati che ci vede ultimi in Europa. La spesa per studente è sotto
la media, mentre sono in costante aumento i costi scaricati sulle famiglie.
Non ci meraviglia che l’Italia sia al terzultimo posto per percentuale di
giovani laureati. E la scuola? Peggio ancora. Ben al di sotto della
media Ocse in relazione a tutti gli indicatori, compresi gli indici di
inclusione sociale, tranne rare e disomogenee eccezioni: un sistema
scolastico fortemente polarizzato e con una situazione di reale
emergenza al Sud, maglia nera per i numeri della dispersione.
E intanto gravano gli ulteriori tagli previsti dalla legge di stabilità
per il 2015.
Se ne dovrebbe concludere che,
per arrivare a un simile disastro, ci siano voluti almeno vent’anni di
soli governi e ministri di destra. Ma la storia ci dice tutt’altro.
determinare la disarticolazione del sistema nazionale
dell’istruzione pubblica è la legge istitutiva dell’autonomia scolastica
(Bassanini, 1997) che istituisce tanti centri di istruzione separati
e in competizione tra loro quanti sono gli istituti scolastici. Con
l’autonomia il preside diventa manager e promuove la sua scuola sul mercato.
L’autonomia si nutre di vuoto didatticismo («saper essere»), di formule burocratico-pedagogiche
(«imparare ad imparare»). La rinuncia a una cultura complessa, profonda
e disinteressata, viene suggellata dai cantori dell’autonomia con
l’ideologia delle competenze.
La progressiva
diminuzione delle spese per l’istruzione inaugurata da Bassanini si accompagna,
con la legge Berlinguer sulla parità, a un costante aumento dei finanziamenti
alle scuole private, perlopiù cattoliche. A partire dal 2000, col
plauso del governo D’Alema I, Confindustria e Santa Sede, il dettato
costituzionale verrà sistematicamente eluso e gli oneri dello stato
nei confronti delle scuole private cosiddette paritarie aumenteranno
progressivamente.
Anche per
il 2015, a fronte dei tagli per scuola e università statali, 200
milioni di euro verranno loro generosamente elargiti. La riforma federativa
del Titolo V della Costituzione (governo D’Alema II) spazza via le
ultime incertezze in materia: regionalizza l’istruzione e permette
alle Regioni di istituire voucher per le scuole paritarie.
Insomma,
con Berlinguer e D’Alema chi manda i figli alla scuola cattolica
viene pagato, mentre nelle scuole statali i termosifoni non partono
e i soffitti crollano. Altro che carta igienica.
Irretito
dalla strategia del mosaico, nello stesso «anno d’oro delle riforme», Berlinguer
mette mano agli ordinamenti universitari: il 3 + 2, concepito
a Parigi e partorito a Bologna, lungi dal determinare le
magnifiche sorti e progressive dell’università italiana, produce
un’insopportabile proliferazione di corsi di laurea e sedi decentrate,
e una drammatica frammentazione e dequalificazione del percorso
formativo. Il tutto senza che diminuisca il numero di abbandoni dopo il
primo anno, o che cresca il numero dei laureati, ancora di 15 punti percentuali
al di sotto della media europea.
Pochi anni
e qualche «ministro per caso» dopo, eccole déluge: Gelmini, strumento
cieco dell’occhiuto Tremonti, darà all’intero sistema il colpo di grazia,
riformando e depauperando (da centrodestra) scuola e università,
col plauso dell’illustre predecessore (di centrosinistra), da cui ha ben
appreso l’arte della descolarizzazione, della disarticolazione,
dell’aziendalizzazione, della governalizzazione.
Vaniloquio?
Chiunque abbia un figlio, un nipote o un vicino di casa a scuola
o all’università sa di cosa stiamo parlando.
Oggi Stefania
Giannini, che ha concepito il suo incarico di ministra come trampolino
per un’elezione europea miseramente fallita, lungi dal difendere ciò che
resta di scuola e università, fa il defilè per Renzi e tenta la quadratura
del cerchio, promuovendo la definitiva dismissione dell’istruzione pubblica,
consegnata al mercato senza neppure un briciolo di rammarico.
La consultazione
fasulla è già finita nelle maglie di una legge di stabilità che prefigura
per il 2015 una scuola privata della possibilità minima di sussistenza.
Una scuola, appunto, privata.
La ricetta
Renzi è perfettamente sovrapponibile alle 100 proposte di Confindustria:
arretramento dello stato, tanto volontariato, benevoli finanziamenti privati,
in nome di un malinteso richiamo al principio di sussidiarietà, certo non
applicabile a un’istituzione della Repubblica.
Et voilà, la scuola-azienda, stipendi da fame
e condizione di lavoro servile, è servita.
Gli studenti
nostalgici che ancora invocano il «diritto allo studio» imparino dai loro
docenti della scuola pubblica le competenze del terzo millennio: pensiero
unico, flessibilità, precarietà, delocalizzabilità, silenzio.
Ma sì, che
diavolo: come ci insegnano i cattoliberisti di Confindustria
o del Pd, istruzione e cultura son roba da ricchi.
Anna Angelucci, Maurizio Matteuzzi,Il Manifesto3.11.2014