Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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sabato 30 aprile 2022

IL ROJAVA APPARTIENE A NOI

 

Il Rojava è il luogo dove ha preso vita tutta l’esperienza accumulata dal movimento di liberazione curdo in 40 anni di lotta. Il Rojava è il luogo dove s’infrangono le vecchie convinzioni. Dove si mostra quanto la rivoluzione sia un fatto reale. È il luogo che dice al politico «non puoi più fare politica come prima», al combattente «non combatterai più come prima», al giornalista «non puoi più scrivere come prima». È il tempo di cambiare. Perché questi sono i giorni della rivoluzione. Il Rojava è il luogo dove il veterinario è il medico primario, dove la donna anziana con famiglia e figli è giudice nei tribunali popolari, dove una casalinga è comandante delle Ypj (Unità di protezione delle donne), dove una giovane donna diventa coordinatrice accademica, insomma il luogo dove «ognuno può essere ogni cosa». Il luogo in cui la persona è tale in ogni suo aspetto. Il Rojava è il luogo che rende eroi le persone qualunque e rende persone qualunque gli eroi. Il Rojava è il posto dove l’immaginazione è diventata realtà. È il potere dell’immaginazione. Il Rojava è l’eredità di tutti i Paramaz, delle Arin, dei Kader, dei Mazlum, Erkan, Oguz, delle Sarya Mahir, gli Emre, i Coskun, le Amara, i Bedrettin, Jyan, Xebat e Beritan che hanno camminato verso l’immortalità per il sogno di libertà comune a tutta l’umanità. Il Rojava appartiene a noi. E noi al Rojava.

 

da Arzu Demir La rivoluzione del Rojava - In diretta dai cantoni di Jazira e Kobane: come e perché la resistenza curda in Medio Oriente sta cambiando lo stato di cose presente © 2016 Red Star Press [cit. da e.book]


INTERNAZIONALISMO ATLANTISTA vs. INTERNAZIONALISMO DEMOCRATICO E SOCIALISTA

testimonial Confederazione Rojava / Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est

Rêveberiya Xweser a Bakur û Rojhilatê Sûriyey

Rojava (/roʒɑˈvɑ/)(/occidente/)

 

KOBANE È QUI

 

C’è tanto da lavorare per ricostruire e fare ripartire la società. L’obiettivo comune non è solo ricostruzione della città, ma fondare una società con una coscienza ambientale, una società che creda nella parità per tutti, minoranze e non, in un’economia ecologica e sociale. Una visione che rispetta gli equilibri naturali e le risorse del territorio. Tutto con un’ottica che non guarda ai confini degli stati ma ai diritti. Obiettivo fondamentale di un percorso di questo tipo non può che essere aperto alla convivenza. Nel Rojava, in città come Cizire, la maggioranza della popolazione è curda, ma vivono anche arabi e si parlano tre lingue, tra cui quella assira. Sono tante anche le minoranze religiose presenti. Anche ad Afrin e Kobane, le persone vivono liberamente la loro identità culturale, etnica e religiosa. Le donne hanno un ruolo molto importante. Questo significa che c’è il giusto terreno per affrontare le questioni più spinose, come quella religiosa, oltre alla parità dei diritti senza distinzione di genere, i processi di rappresentanza, l’ambiente e altro ancora attraverso un sistema di democrazia diretta, per dare autonomia ai luoghi partendo dalle istanze elencate. È nostra convinzione che per risolvere i problemi sul territorio il sistema migliore è quello della democrazia diretta e dell’autonomia democratica. Inoltre il termine autonomia per noi non è un limite geografico, ma una proposta progettuale che si può manifestare e organizzare in ogni angolo del mondo.


dall’Introduzione di Yilmaz Orkan a: Ivan Grozny Compasso, Kobane dentro. Diario di guerra sulla difesa del Rojava, Agenzia X, 2016 - cit. da e.book

 

- Comitato di sostegno alla Confederazione democratica del Rojava “Un altro Occidente”, Taranto





 


giovedì 21 aprile 2022

LA SOGLIA E L'ALTROVE (De Martino, Chambers, Teti)

 

IL SENSO DI APPARTENENZA e L'ANGOSCIA DELLO SRADICAMENTO SULLA SOGLIA DELL' ‘ALTROVE’


  Ernesto de Martino, Iain Chambers, Vito Teti


È possibile stabilire un nesso tra il ‘senso di appartenenza’ e il viaggio continuo nel mondo (l’”altrove”)? /Subaltern studies Italia


“Su questo ciglio, lungo questo confine fra tranquillità e dispersione, si palesa uno spazio distruttivo, un territorio esotico, una soglia in cui la comprensione precedente cede il posto a una nuova configurazione.” , Iain Chambers, Sulla soglia del mondo. L'altrove dell'Occidente. Meltemi, 2003 (1.ed.or. 2001), pag.204

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Riproponiamo uno dei passi più celebri de “La fine del mondo“ di Ernesto de Martino, la confortante ombra del campanile di Marcellinara (CZ) per il vecchio pastore attaccato alla sua terra.

 

- Ricordo un tramonto percorrendo in auto una strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una «patria perduta». Giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma, e scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori della tragica avventura che lo aveva strappato allo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice, possono patire di angoscia quando viaggiano negli spazi, quando perdono nel silenzio cosmico il rapporto con quel «campanile di Marcellinara» che è il pianeta terra, e il mondo degli uomini: e parlano, parlano senza interruzione con i terricoli, non soltanto per informarli del loro viaggio, ma per non perdere «il senso della loro terra».

Ernesto de Martino, La fine del mondo, ed. Einaudi 2002, pp. 480/81.

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 “Il problema centrale del mondo di oggi appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al Campanile di Marcellinara, ma all’intero pianeta terra” Ernesto de Martino, ivi

 

 

/ IL VIAGGIO NELL’ APPARTENENZA di VITO TETI /

 

- Prologo. Del restare

“Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni”. L’incipit di Tristi Tropici di Lévi-Strauss è forse la frase più celebre e più avvincente di tutta la letteratura antropologica, e ricorda come il viaggio e lo spaesamento rappresentino i tratti costitutivi dell’esperienza antropologica.

Nulla più dell’idea del “restare” potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del sapere antropologico e dell’etnografia. Restare sembra l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla scoperta, all’incontro.

Ma davvero l’idea e la pratica del restare sono inconciliabili con l’esperienza antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un viaggiare separatamente dall’esperienza del restare e davvero il restare va accostato all’immobilità, alla scelta di non incontrare l’altro e di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio, l’alterità? Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più scioccante del viaggiare? (..)

Sono nato in una terra in cui partenza e attesa hanno costruito una nuova mentalità, una nuova identità. L’emigrazione è fatta di dolore della partenza e di dolore dell’attesa, di speranza, di fallimenti, di successi di chi parte e di speranze, fallimenti, successi di chi resta. (..)

Anche il viaggio dell’antropologo è intrinsecamente legato all’esigenza di tornare, di raccontare, di spiegare ai rimasti e forse, prima di ogni cosa, al se stesso rimasto. La scrittura e la narrazione antropologica- almeno come bisogno- nascono ancora prima di andare sul campo.

 

Vito Teti, Pietre di pane - Un’antropologia del restare, Quodlibet Studio, 2011, (2^ ed.2014), pp.9-11





martedì 12 aprile 2022

MERIDIONALI QUAESTIO ET COLONIIS. Presentazione (Misefari, Cinanni, Zitara)

 

- Subaltern studies Italia ripropone, come tema non più latitudinario, ma in chiave postcoloniale, la cessata quaestio meridionale, che Gramsci tematizzò nell’autunno del 1926, poco prima dell’arresto arbitrario avvenuto l’8 novembre di quell’anno. Il saggio sarà poi pubblicato per la prima volta a Parigi nel gennaio del 1930 su «Lo Stato operaio». + Nei quaderni scritti a Turi e poi a Formia Gramsci ritorna sulla “quistione”, in particolare inquadrandola nelle vicende risorgimentali del nostro paese e ponendo il tema dell’egemonia.

+ Il manoscritto gramsciano reca come titolo “Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici“. Il periodo di realizzazione è l’ottobre come Gramsci stesso fa presente alla moglie Giulia in una lettera da Roma del 20 ottobre 1926: «Io continuo a lavorare abbastanza alacremente: sto ultimando un lavoro di una certa lena, che forse riuscirà abbastanza interessante e utile» (A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino, 1992, p. 468; nella nota di commento, il curatore fa presente che, «con tutta probabilità» (ivi, p. 469), l’allusione è allo scritto sulla questione meridionale).+

Si comparano dunque suggestioni del meridionalismo storico, quello comunista dello stesso Mezzogiorno e della critica postcoloniale: per le prime, Enzo Misefari (noto anche negli anni ‘60 e ‘70 come animatore di movimenti e organizzazioni marxiste-leniniste) e Paolo Cinanni, dirigente comunista calabrese che pagò con l’emarginazione il suo dissenso dalle tesi di Amendola. Cinanni e Misefari, a loro volta, avevano polemizzato fra loro all’uscita del libro di Cinanni “Lotte per la terra e comunisti in Calabria 1943/1953“, Feltrinelli, Milano, 1977, sul come considerare la natura delle lotte nel Mezzogiorno d’Italia, spontaneismo vs. organizzazione, primitivismo e coscienza di classe, partito e movimento (di Enzo Misefari si veda “La liberazione del Sud: con particolare riferimento alla Calabria“, Pellegrini, 1992).

Il metodo comparativo investe anche le suggestioni della critica postcoloniale meridionale di Nicola Zitara, i suoi scritti degli anni ‘70, prima dell’approdo all’indipendentismo strumentalizzato dal neoborbonismo: e infatti Vasapollo li riconduce all’impianto marxista e conseguentemente gramsciano attraverso la categoria di ‘colonialismo interno’.

 

1. Misefari e Cinanni 

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2022/04/la-resistenza-meridionale-per-la.html

 

2. Nicola Zitara  

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2022/04/classe-e-mezzogiorno-nicola-zitara-e.html




sabato 9 aprile 2022

SCOTELLARO E SUBALTERN STUDIES: le tracce

 

TRACCE IN ELENCO E NON PIÙ IN ELENCO

 

L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un «conosci te stesso» come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.

 (Antonio Gramsci, Quaderno 11 par.12, ed. Gerratana, Einaudi, 1975, pag.1376).

 


”Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale.”,

(Antonio Gramsci, Q.25, ed. Einaudi, 1975, pag. 2284)

 

L’inchiesta sociale, infatti, è narrazione senza mediazione, prezioso documento per lo storico di tracce in elenco e di quelle che in elenco non ci sono più o non ci sono mai state.

 /Subaltern studies Italia/

 

SUBALTERNITA' E SUBALTERN STUDIES

 

di Piero Onida


- Riprendendo il discorso relativo agli studi storici, che risulta essere ad oggi la branca più estesa ed approfondita dei Subaltern studies, è necessario porsi la questione riguardante l’impostazione metodologica data alla ricerca delle fonti storiche per la costruzione di una storia della subalternità. La difficoltà nella ricostruzione storica sta nel trovare voci subalterne autentiche, testimonianze non adulterate od edulcorate. La necessità primaria è legata alla riscoperta di fonti alternative o trascurate o, ancora, oscure agli ambienti degli studi accademici poiché facenti parte esclusivamente degli ambienti subalterni, distanti dalla critica e dal lavoro delle università. I membri del collettivo di Nuova Delhi propongono la riscoperta di fonti desuete (o improprie secondo parte della storiografia classica) quali i racconti orali, la memoria popolare o documenti scritti trascurati e frammentari. Posto ciò, la difficoltà sta nel trovare gli strumenti adatti all’interpretazione storica di testimonianze non propriamente accettabili come fonti storiche, si voglia a causa della loro frammentarietà, della loro non tracciabilità, della loro scarsa referenzialità ad altre fonti od autoreferenzialità. Oltre all’impostazione di dubbio sul rigore delle nuove fonti, gli studiosi della subalternità si pongono in atteggiamento critico anche per quanto riguarda le fonti ufficiali della narrazione storica egemone: se lo scopo del lavoro è quello di ricostruire la storia riconoscendo l’importanza di ogni strato sociale, è necessario rielaborare il discorso storico generalmente accettato, disconoscendo e rielaborando i punti di vista rappresentati, spesso celebrazione delle classi dominanti in salsa neocoloniale.


da Piero Onida, Subalternità e Subaltern studies, Relazione finale del corso Storia del colonialismo e della decolonizzazione, Università degli studi di Cagliari, 2014, pag. 5

 

ACCOSTAMENTI

 

In questa direzione l’opera rimasta incompiuta di Rocco Scotellaro, “Contadini del Sud” (pubblicata postuma da Laterza nel 1954) può essere riletta in questa chiave, relegando in secondo piano le critiche che furono mosse riguardo la metodologia utilizzata per essere considerato un testo sociologico di attendibilità accademica. [cfr.anche Alessandra Reccia, Rocco Scotellaro. Contadini del Sud. (pubblicato in «Il Ponte», gennaio 2011, pp. 103-110)] reperibile in 

https://www.academia.edu/11023851/Rocco_Scotellaro_Contadini_del_sud?email_work_card=view-paper




CLASSE e MEZZOGIORNO: NICOLA ZITARA e l’analisi postcoloniale del Sud

 

1. LA CLASSE del MEZZOGIORNO: NICOLA ZITARA, (Siderno, 1927/2010) o dell’analisi postcoloniale del Sud italiano

 

- Giornalista e “animatore” meridionalista, il suo giusnaturalismo teorizzava l’autodeterminazione dei popoli per diritto naturale. Non riuscì a coniugare compiutamente la ‘questione sociale’ della sua formazione socialista (nel 1964/1965 ricoprì la carica di segretario del PSIUP di Catanzaro) con la ‘questione politica’ dell’indipendenza/secessionismo (il suo eclettismo teorico, presente negli scritti dei ‘Quaderni calabresi’, rivista diretta dal giudice Francesco Tassone a Vibo Valentia, portò al fallimento del ‘Movimento meridionale’). La “nazione meridionale” fu la risposta sbagliata a un’esigenza giusta, che lo Zitara aveva solo intravisto nelle modalità postcoloniali della riunificazione italiana, con la patina retorica della ‘patria’ a coprire l’ineguaglianza strutturale dei modelli sociali capitalisti a egemonia finanziaria, che pure furono oggetto della sua analisi. Il fantasma neoborbonico non aleggiava ancora agli inizi degli anni ‘70, il periodo più interessante della scrittura dello Zitara postcoloniale, con la categoria di ‘proletariato esterno’, la critica all’’eurocentrismo’ coniugato al ‘colonialismo interno’; la perdita di più vasta portata che il Mezzogiorno subisce infatti, è rappresentata dalla spoliazione dell’energia creatrice di ogni ricchezza: le braccia e i cervelli umani. L'autosufficienza delle campagne è stata falcidiata dall'onda lunga del mercato capitalista, le ferite di una falsa industrializzazione coloniale sono presenti come monito indelebile, mentre i guasti ecologici riportano al paradossale conflitto tra lavoro e ambiente.

Sulla figura e le tesi ‘giovanili’ di Zitara, Subaltern studies Italia tornerà esaminando la sua opera prima, “L'Unità d'Italia: nascita di una colonia”, 1971, Jaca Book.

 

2. CAFONI e INDIOS, i SUD della TERRA e la costruzione di un’altra idea della modernità


Luciano Vasapollo, Dagli Appennini alle Ande. Cafoni e Indios, l'educazione della terra, Jaca Books, 2011

/scheda/

La situazione attuale ci obbliga a recuperare e inventare nuove e diverse modalità di convivenza, con processi educativi, culturali e politici che riconsiderino radicalmente il concetto stesso di sviluppo, praticando un cambiamento di paradigma: dal capitale fondato sulla crescita esponenziale dei profitti che si concentrano in poche mani alla valorizzazione dei fattori umani, sociali e ambientali di cui le civiltà contadine e i popoli originari, da sempre, sono promotori. Le loro forme di organizzazione sociale, basate su un sistema di coesistenza tra natura e uomo, non sono state liquidate perché incompatibili con il progresso o la modernità, ma perché incompatibili con la concentrazione dei beni in base alle leggi di mercato, che ancora oggi continuano a voler sopprimere l'educazione e il mondo socio-economico contadino, i popoli indigeni, la loro cultura, la loro natura, il loro socialismo precapitalista, la Madre Terra. Facendo la spola tra le due sponde dell'Oceano, attraverso un volo ideale dagli Appennini alle Ande, raccontando storie e pratiche secolari dei cafoni del nostro Meridione e degli indios boliviani, emerge in queste pagine lo spaccato di un'educazione e una pratica sociopolitica di popoli capaci di un equilibrio produttivo con la natura, di saggezza redistributiva nell'amministrazione di ricchezze e risorse, portatrici di un'idea alternativa di progresso che non si appiattisce sulla ricerca del profitto./

 

3. IL COLONIALISMO INTERNO 


“Francesco Tassone e Nicola Zitara stanno certamente segnando un pezzo forte e centrale della storia intellettuale e di trasformazione del meridionalismo militante del nostro paese. Al di là di quelle che possono essere a volte differenze di impostazione, condivido con loro l'idea di un popolo meridionale in cerca di giustizia sociale e di democrazia, di internità alle classi popolari, ai contadini, agli artigiani che vivevano e vivono un doppio regime di sfruttamento, quello del mondo di produzione capitalistico e quello di una oppressione coloniale, ancora irrisolto. È per questo che il libro di Nicola Zitara “L'unità d' Italia: nascita di una colonia” rappresenta a tutt'oggi un caposaldo della letteratura di classe su quella " questione meridionale" che rimane dentro una lunga agonia iniziata già all'alba del processo di unificazione nazionale. La questione contadina, che rappresenta la parte più viva della stessa "questione meridionale", parte proprio dalla voluta esclusione delle terre del Sud al processo risorgimentale e quindi allo stesso percorso complesso e contraddittorio dell'unificazione nazionale. (..)

storia delle rivolte contadine del nostro Sud, già da quelle innescate dalla conquista garibaldina, in risposta alla quale il brigantaggio dà forma alla rivolta attraverso l'azione di numerose bande armate contadine e si fa movimento duraturo per tutto il decennio 1860-1870, dalla Puglia alla Calabria, dalla Basilicata alla Campania fino a raggiungere il Molise, il Lazio e gli Abruzzi. (..)

Tribunali speciali, giudizi sommari, fucilazioni sul posto trasformano la rivolta sociale in una faccenda puramente repressiva e militare; metodo questo molto spesso usato anche dai giovani della cosiddetta democrazia parlamentare post-Resistenza negli anni '50,'60,'70 del XX secolo, per non parlare delle forme più sofisticate ma non meno dure e repressive che anche oggi colpiscono movimenti sociali e sindacali e esprimono con la loro conflittualità la volontà della trasformazione radicale e il superamento dell' "Italia dei padroni ". (..)”

(..)

"l'unità d'Italia è identificata proprio dalla nascita di questa colonia; tematica tutta politica ben interpretata e analizzata sino in fondo da Antonio Gramsci nel suo fondamentale scritto del 1930, Alcuni temi della questione meridionale. Gramsci evidenzia che l'alleanza di classe capitalista del Nord e del Sud identifica, nelle sue diverse forme, il blocco agrario-industriale imposto dalla borghesia italiana per soffocare i movimenti rivoluzionari contadini e operai; e l'unica risposta a ciò era necessariamente la proposta di una altrettanto forte alleanza di classe tra gli operai sfruttati del Nord e i contadini sfruttati del Meridione, creando così quel blocco sociale di classe rivoluzionario che avrebbe potuto rompere l'assetto socio-economico capitalistico imposto con l'unità d'Italia".


da Luciano Vasapollo, Prefazione a Nicola Zitara, “L’unità d’Italia - Nascita di una colonia, Jaca Book, 2010, (1^ ed. 1971), pp. 10/11/12/13


Nicola Zitara (Siderno, 1927/2010)

Luciano Vasapollo [Arena (VV),1955]


sabato 2 aprile 2022

LA RESISTENZA MERIDIONALE PER LA LIBERAZIONE DEL SUD: ENZO MISEFARI e PAOLO CINANNI

 

INSORGENZA E COSCIENZA, PARTITO E SUBALTERNI


Questi concetti non sono nostri: si rintracciano nella lettura di Antonio Labriola del 30 marzo 1891 a Engels. Certo una rivoluzione sociale non può realizzarsi se non opera, più oltre una coscienza organizzata e maturata della successione della stessa rivoluzione: "...tra questi fenomeni spontanei e la coscienza sviluppata della rivoluzione proletaria manca in Italia un anello di congiunzione che è appunto la cultura". Nel 1891 quest'anello mancava nel paese: nel 1945, è doveroso sottolinearlo, nel Sud è ancora assente. Come, quindi, ascrivere a una federazione o ad alcuni compagni, la colpa di non avere, a meno di mesi dal crollo del regime fascista, promosse azioni che avrebbero chiesto una coscienza sviluppata e maturata della rivoluzione sociale, quali quelle di massa "ampie, legali, ordinate e disciplinate"? Le popolazioni del Sud, in più alto grado quelle della Calabria, erano immerse fino al collo nella fame, nelle privazioni, nel caos della guerra e per giunta nelle premeditate provocazioni dei fascisti e dei monarchici che gli anglo-americani istigavano sotto sotto ad agire, fornendo loro protezione e mezzi.

Enzo Misefari, La liberazione del Sud - con particolare riferimento alla Calabria, ed. Pellegrini, Cosenza, 1992, pp.164/165

 

 

- Nello storico testo di Enzo Misefari [Palizzi, 1899 - Reggio Calabria, 1993]

 

(cfr. voce Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Enzo_Misefari?fbclid=IwAR1rx4njPrKJxc1WXbTMFBbvWDZi8lZxBzSF-t3m050lFJq35d5YqK6YW5E)

 

tra i maggiori protagonisti del movimento antifascista e comunista della Calabria, dopo il 1964 tra i più impegnati dirigenti nell’organizzazione dei movimenti marxisti-leninisti italiani, la documentazione dell’ insorgenza nel Mezzogiorno per la liberazione dalle condizioni di subalternità e dal fascismo, a cui seguirono le lotte per la terra e la repressione delle speranze di riscatto in continuità con il regime, ad opera delle classi dirigenti del nostro paese.

- Il testo è di memorialistica storica, avendo il Misefari vissuto di persona gli avvenimenti narrati, e ricostruisce il periodo dal settembre 1943, mese in cui gli Alleati angloamericani, nella loro risalita della Penisola, liberarono la regione calabrese, a tutto il 1945. Forte è la polemica contro l’impostazione data da Paolo Cinanni in “Lotte per la terra e comunisti in Calabria, 1943/1953” (Feltrinelli,1977), che liquida l’”insorgenza” meridionale come spontaneistica e priva del necessario supporto ideale che ne segnerebbe, come prevalentemente contadina, i livelli di coscienza antagonista, a facile ‘infiltrazione’ di mafie e figure banditesche (che furono documentate e provate per lo sbarco degli Alleati in Sicilia e l’appoggio logistico per le armi nella stessa Calabria). Diverso fu invece, nelle lotte contadine per la terra nel dopoguerra, per merito della direzione assunta dai partiti della sinistra storica, il PCI e il PSI. L’esito, però, a prescindere dal dibattito sulla natura del movimento di resistenza e insurrezionale, secondo Misefari, fu la sconfitta. E ciò fu dovuto alla sostanziale continuità del dominio di classe e del blocco storico reazionario e conservatore tra fascismo (al sud ad egemonia degli agrari latifondisti) e gli assetti politico-sociali classisti della ricostruzione democratico-repubblicana ad egemonia democristiana.

“I fatti, le lotte che Misefari ricostruisce, mostrano non solo l’esistenza di una buona rete clandestina (liquidando così le tesi spontaneiste di Cinanni, ma anche, e con grande evidenza, la decisa volontà dei comandi alleati di chiudere ogni spazio politico all’iniziativa delle sinistre, contrastando duramente le occupazioni delle terre, vanificando ogni tentativo di governo con loro, e scatenando contro il movimento dei lavoratori i carabinieri e gli uomini, opportunamente riciclati, del regime fascista, mettendo insomma in atto una grande operazione gattopardesca perchè tutto cambi senza che nulla cambi. “

dalla presentazione di Arturo Marzotti, ivi, pag.7.

Almeno dal punto di vista subalternista, dei contadini, dei salariati fissi, delle raccoglitrici di olive, e della loro acuta sofferenza, l’analisi documentaria del Misefari è più chiara ed eloquente del dibattito politico e accademico su quella che una volta veniva chiamata “questione meridionale”.

Nel testo anche un paragrafo riguardante la Repubblica “rossa” di Caulonia e la figura controversa del suo animatore, Pasquale Cavallaro.

 

PAOLO CINANNI, o la “questione meridionale” come “questione agraria”

 

- Sua fu la strategia di lotta dello ‘sciopero a rovescio’, ma fu emarginato da incarichi di direzione dal PCI per contrasti con Giorgio Amendola.

 

- Calabrese di Gerace, emigrato in Piemonte, dirigente del Pci, impegnato sui temi dell’emigrazione, in prima fila nella lotta per le terre in Calabria dal ’43 al ’53: quando i “cafoni” penetrarono nella storia, sfidando a viso aperto e disarmati la prepotenza dei latifondisti. (..) [Minato nel fisico per l’amputazione della gamba sinistra a 15 anni per un incidente stradale, stringe legame di amicizia con Cesare Pavese e conosce Ludovico Geymonat e Leone Ginzburg, ndr]. Il suo ruolo nella Resistenza sarà enorme. Dall’organizzazione delle brigate partigiane nel cuneese agli incarichi di direzione a Milano tra le fila del Fronte della Gioventù, guidato da Eugenio Curiel. Il 25 aprile lui è lì, nel capoluogo lombardo, partecipa all’insurrezione, occupa insieme ad altri compagni del Fronte la tipografia della Gazzetta dello Sport e stampa il primo giornale della Milano liberata, mentre per le strade ancora si spara.

A guerra finita Cinanni entra nel Comitato Centrale del PCI (fu Giorgio Napolitano a comunicargli la nomina), occupandosi di problemi legati al mondo contadino. Sono gli anni delle occupazioni delle terre e della riforma agraria, anni di dure lotte e di pesanti repressioni. E’ in questo contesto che Cinanni teorizza anche per la questione agraria la formula dello “sciopero a rovescio”, già sperimentata comunque in altri ambiti, sia lavorativi che geografici. L’idea è questa: se un operaio, per protestare, deve astenersi dal lavoro, un disoccupato sciopera lavorando. Nel caso dei contadini, calabresi e non solo, lo “sciopero alla rovescia” si attua marciando sulle terre incolte dei latifondi, picchettando i terreni per suggellarne la presa di possesso, iniziando al tempo stesso ad ararli ed a seminarli.

Cinanni si occupò della questione agraria non solo organizzando le lotte dei contadini, ma scrivendone da “intellettuale organico”, che nel frattempo era diventato. La sua idea era che a quelle lotte, spesso cruente, non era seguito un mutamento reale del regime proprietario e delle condizioni di vita dei contadini, ma solo degli aggiustamenti funzionali, che servirono peraltro ai governi democristiani del tempo per consolidare ed estendere il proprio potere di condizionamento elettorale presso le larghe masse di contadini meridionali bisognose di risposte immediate. (..) per Cinanni le lotte contadine che si svilupparono nell’immediato dopoguerra dovevano costituire il grimaldello per il raggiungimento di obiettivi più generali, e, nello specifico, dovevano condurre ad una più organica riforma agraria per allargare la base lavorativa e produttiva della regione. Non fu così. Dopo i fatti di Melissa del 1949, come lo stesso Cinanni ricorderà, il governo De Gasperi fu “costretto” a prendere in considerazione il problema della “riforma”, ma non andò in profondità nella lotta al latifondo e nella riparazione delle usurpazioni demaniali seguite all’eversione della feudalità. Né il Pci se la sentì di spingere più di tanto su questo versante. Quelli del “centro”, peraltro, erano refrattari a riconoscere una “specificità” meridionale nell’ambito delle lotte operaie e contadine, pensando primariamente ad una dimensione nazionale della lotta di classe. Questa diversità di veduta sul ruolo delle classi subalterne del Sud nella più ampia articolazione del conflitto di classe su scala nazionale sarà alla base di non poche incomprensioni tra Cinanni e il partito. E con Amendola in particolare. (..) Diversamente dal dirigente napoletano, Cinanni pensava che quelle lotte dovessero avere una valenza “progettuale”, servire, in altri termini, ad una più complessiva rinascita del Sud. La sua idea era che la lotta per l’occupazione delle terre dovesse diventare funzionale ad un raccordo del Mezzogiorno col resto del paese, col nord industriale ed operaio, nell’ottica di una “effettiva unificazione delle due Italie”. Rimase isolato. (..) Nel 1965 è chiamato a Roma da Giancarlo Pajetta, nel frattempo nominato direttore di Rinascita. Cinanni si sarebbe aspettato un coinvolgimento nella redazione, ma dovette accontentarsi di un incarico di “promozione e diffusione” del giornale. Lo dirà chiaramente qualche anno più tardi: “Ritenevo forse un po’ ingenuamente, che il partito avesse interesse ad introdurre nel collettivo di intellettuali di Rinascita un compagno di origine proletaria e meridionale, che aveva accumulato una certa esperienza in grandi lotte di massa”.

L’anno dopo fu escluso dal Comitato Centrale e il suo impegno, politico ed intellettuale, si diresse verso le problematiche dell’ emigrazione. E proprio da membro dell’Ufficio emigrazione del Pci, insieme a Carlo Levi, diede vita nel 1967 alla Federazione Lavoratori Emigrati e Famiglie (FILEF). Levi ne diventerà presidente e Cinanni vicepresidente. Questa esperienza comune li legherà in una “vivificante amicizia”, come lo stesso Cinanni scrisse più tardi, fino alla morte del noto scrittore e pittore, sopraggiunta nel 1975. (..) Nel 1967 uscì per i tipi di Editori Riuniti il saggio Emigrazione e Imperialismo, che rappresenta senza dubbio il momento più alto della sua riflessione sulla storia e le condizioni materiali di vita delle classi subalterne. Il libro sarà tradotto nel 1972 anche in tedesco. La tesi di Cinanni sull’emigrazioneè questa: si è trattato di un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Italia e dal Mezzogiorno ai paesi di destinazione, senza niente in cambio. Le stesse “rimesse”, secondo l’autore, non incisero più di tanto sulle condizioni generali del Mezzogiorno.

Ma Cinanni non si ferma al rapporto tra emigrazione e sistema paese nel suo complesso: pregnante è anche la sua analisi dell’esodo alla luce del divario tra nord e sud della penisola. Un’analisi che muove proprio dalla Calabria, presa a riferimento per dimostrare come lo Stato unitario non abbia mai operato per un superamento reale del gap tra Mezzogiorno e resto d’Italia. (..)

Negli anni Settanta Cinanni si dedica quasi completamente allo studio, alla ricerca, all’analisi dei fenomeni sociali e politici che già l’avevano visto interessato negli anni passati. Nel 1973 inizia a collaborare con l’Istituto di Filosofia dell’Università di Urbino, subito dopo dà alle stampe un nuovo saggio, Emigrazione e unità operaia, con prefazione di Carlo Levi. Gira molto in questi anni, anche all’estero, partecipando a seminari e convegni in altri paesi d’Europa, tra cui principalmente la Germania. Non a caso negli anni Ottanta l’Università di Berlino gli conferirà il prestigioso incarico di compilare alcune voci dell’Enciclopedia del marxismo.

Cinanni muore nel 1988, a San Giovanni in Fiore.

 

estratto da LUIGI PANDOLFI E ROMANO PITARO, Quando Paolo Cinanni, il nemico numero uno del latifondo, fu isolato dal Pci. Alla radice dei problemi per comprendere i disagi del Mezzogiorno, 15 gennaio 2014, sta in Calabria on web

https://www.calabriaonweb.it/news3/societa/2481-quando-paolo-cinanni-il-nemico-numero-uno-del-latifondo-fu-isolato-dal-pci-alla-radice-dei-problemi-per-comprendere-i-disagi-del-mezzogiorno-3?fbclid=IwAR3iFZj1C770YKTYelnuo2zHi6l_aAPPNl-wUE7-ltthKBjp21RZtEwcyso


Enzo Misefari (1899/1993)

Paolo Cinanni (1916/1988)