Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 26 aprile 2023

Il Gramsci di Turi

 

Antonio Gramsci giunse a Turi il 19 luglio del 1928, ed aveva conosciuto già il carcere di Regina Coeli (isolamento assoluto), il confino di Ustica e il carcere di San Vittore. Era stato arrestato l’8 novembre del 1926, nonostante l’immunità parlamentare e condannato il 4 giugno 1928 dal tribunale speciale del fascismo a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Fu la sua malattia, l’uricemia cronica, a destinarlo alla casa penale speciale di Turi di Bari, in Puglia, che lascerà solo il 19 novembre del 1933, seriamente compromesso nella sua fragile sanità fisica.

Eppure, fu proprio a Turi che Gramsci appuntò la maggior parte delle sue note in quaderni scritti in maniera fitta, quel capolavoro noto successivamente come i “Quaderni dal carcere”, che pur elaborati in maniera non organica, costituiscono uno dei lasciti storico-politici e filosofici di portata mondiale ed epocale.

 

<<Il Gramsci di Turi>> Testimonianze dal carcere

a cura di Ferdinando Dubla e Massimo Giusto, Chimienti ed., 2008

C’è stata la Puglia di Gramsci ed era purtroppo la cella ristretta della casa penale di Turi, dove il grande dirigente comunista venne recluso dal luglio 1928 al novembre 1933. Un legame doloroso, dunque: ma anche i legami dolorosi possono diventare legami forti, intensi. Fu proprio in quella cella che Gramsci scrisse quel capolavoro di note e saggi poi raccolto successivamente nei “Quaderni dal carcere”, opera di raro e acuto ingegno che ancora oggi, specialmente oggi, viene studiata in tutto il mondo, un po’ meno in Italia, paese dove il revisionismo storico e politico ha corroso più di una coscienza. Quali erano le coatte condizioni che il detenuto in isolamento Gramsci doveva soffrire? Quale fu il rapporto con gli altri detenuti, i compagni, con il partito, con la sua famiglia? E’ possibile, attraverso testimonianze dirette, raccordare il personale al politico, che per Antonio, sardo coriaceo e marxista con gli ampi orizzonti dell’universo-mondo, “grande e terribile”, come scrisse lui stesso, erano fusi in un’unica e indissolubile unità? E’ quanto si cerca di stabilire in questo agile libretto, che riedita testimonianze preziosissime: quelle di Giovanni Lai, Sandro Pertini, Angelo Scucchia, Bruno Tosin, precedute da schede dei curatori che si soffermano sulla attualità estrema delle riflessioni gramsciane in chiave fortemente meridionalista  (<<Gramsci a Turi>>), sulla validità di un impianto sociologico moderno dei “Quaderni” (<<Il pensiero gramsciano. Una prospettiva sociologica>>), un preciso inquadramento storico per i rapporti con il PCd’I (<<Gramsci a Turi e il partito>>); e concluso da una preziosa sitografia aggiornata.

Questo studio vuole essere un troppo piccolo risarcimento della Puglia a quel suo grande ospite nei nefasti anni della dittatura fascista, e, come ha scritto Colaninno nella presentazione, “un contributo utile a favorire il risveglio delle coscienze, in primo luogo di quelle dei giovani”.

GRAMSCI A TURI E IL PARTITO
(1928/1933)

(presentazione di Ferdinando Dubla - testimonianze di Giovanni Lai, Sandro Pertini, Angelo Scucchia, Bruno Tosin)

La detenzione di Gramsci a Turi fu dolorosa non solo per l’aggravarsi delle condizioni di salute del detenuto, ma anche per le difficoltà di rapporto con il partito. Difficoltà oggettiva: i detenuti politici che venivano inviati alla casa penale, dopo poco tempo venivano trasferiti dalla direzione del carcere per impedire a Gramsci di comunicare con il proprio partito tramite intermediari. Ma alla difficoltà oggettiva si intersecò la difficoltà tutta politica dell’interpretazione della linea politica del PCI, nonostante continuasse la campagna internazionale per la sua liberazione tramite il “Soccorso Rosso” e un Comitato parigino presieduto da Roman Rolland ed Henry Barbusse, che ebbe un’impennata nel 1933. Il VI Congresso del Comintern, che si era tenuto dal luglio al settembre 1928, aveva posto come base analitica la categoria di "fascistizzazione della socialdemocrazia" e della dura battaglia da intraprendere contro l'opportunismo che, con il riformismo, rischiava di penetrare nelle fila del movimento operaio: la lotta contro la socialdemocrazia e il fascismo diventa, per i comunisti, tutt'uno. Le indicazioni cominterniste saranno confermate al X Plenum nel luglio 1929. In Italia, il mese successivo, viene convocato l’Ufficio Politico e si inizia a manifestare un’opposizione, in particolare in merito all’organizzazione politica conseguente alla cosiddetta “svolta del terzo periodo”. La linea uscita dal X plenum, quella della crisi finale del capitalismo e della radicalizzazione delle masse, era quella da sempre propu­gnata dalla Federazione giovanile comunista (Fgc). Così è Longo ad elaborare tutta una serie di proposte tese a adeguare l’attività del partito alla politica dell’Internazionale, note come “progetto Gallo” (Gallo è lo pseudonimo di Longo), che trovano la massima espressione nella richiesta della ricostruzione di un centro interno. A questa ipotesi si oppongono Tresso, Leo­netti e Ravazzoli che presentano un controprogetto, noto come “contro­progetto Blasco” (Blasco è, all’epoca, il nome di battaglia di Tresso). I rapporti tra la maggioranza e l’opposizione degenerano in breve tempo fino alla espulsione dei “tre” (a cui si aggiunsero Teresa Recchia e Mario Bavassano) sancita nel Comitato Centrale del 9 giugno 1930 per essersi messi in contatto con i trotskisti, aver condotto una campagna calunniosa contro il Pci e per avere una “errata valutazione delle prospettive del regime fascista”.


Gramsci conosce poco di queste vicende; ma, come si era preoccupato già delle divergenze in seno al PCUS (il gruppo Trotzkij-Kamenev e Zinoviev e Stalin-Bucharin) con la celebre lettera al CC dell’ottobre del 1926 in cui si appellava all’unità derivante da un senso di responsabilità storico del gruppo dirigente sovietico, lettera mai inoltrata da Togliatti, che allora rappresentava a Mosca il partito italiano nell’Internazionale; così matura convincimenti forti sulla natura della fase politica italiana e si fa assertore di una “politica di transizione” dal fascismo al socialismo, passando per un’Assemblea Costituente e un’alleanza con le altre forze politiche antifasciste. Gramsci cerca di comunicare questa sua posizione, che intanto gli vale un progressivo isolamento, tranne l’assoluta fedeltà dei giovani comunisti Giuseppe Ceresa ed Ercole Piacentini e del socialista Pertini, ed incomprensioni dolorose nelle difficili condizioni carcerarie:

il 16 giugno 1930, attraverso il fratello Gennaro, che tuttavia non riferirà le sue effettive posizioni a proposito della "svolta" e dell'espulsione dei "tre", poi invitando Athos Lisa, amnistiato, che gli dice di essere ora convinto della giustezza della sua prospettiva, a battersi presso il Centro estero "per la linea politica da me enunciata". Ancora, incaricando Giuseppe Ceresa, anch'egli amnistiato, di riferire - se gli fosse stato possibile espatriare - al Centro estero le sue effettive posizioni sulla situazione italiana, ciò che Ceresa fa già nel corso del 1933 o più probabilmente del 1934. E infine, poco prima di morire, attraverso Pietro Sraffa, chiedendogli di "trasmettere la sua raccomandazione che si adottasse la parola d'ordine dell'Assemblea costituente”. Inoltre si proponeva, come si evince dal rapporto che Athos Lisa scrisse il 22 marzo del 1933 per il Centro del Partito appena uscito dal carcere di Turi, di formare nuovi quadri dirigenti comunisti fermi e determinati nei principi come nell’azione, ma contro il massimalismo sterile e dottrinario (il “soggettivismo dei sognatori”). Ha scritto Aldo Natoli:

“La fase piú acuta della crisi nei rapporti tra Gramsci e il partito, da non confondersi con una rottura formale o con l'interruzione dell'azione di solidarietà, si delinea negli ultimi mesi del 1932, per raggiungere il momento piú drammatico nel febbraio 1933: in questa crisi si intrecciarono inestricabilmente motivi politici e personali, il riemergere dei dubbi e delle ossessioni del passato (il significato nascosto nella lettera di Grieco del 1928) e il crescente senso di isolamento e anche di estraneazione di Gramsci nei confronti del Pcd'I, ma anche l'inarrestabile aggravamento delle condizioni di salute, il timore del venir meno delle proprie forze di resistenza, la sensazione dell'irreversibile dissoluzione dei rapporti con la moglie Giulia e dei legami familiari.” [in Gramsci in carcereStudi Storici nr.2, aprile-giugno 1995].

 

La tensione pare sfoci anche in un episodio particolarmente grave: Gramsci nell’ora d’aria per un soffio non viene colpito da un sasso in fronte nascosto in una palla di neve. Ma chi fu a lanciare il sasso? A Turi nel 1933 sono rinchiusi numerosi detenuti politici, tre anarchici e diciotto comunisti; tra essi, Francesco Lo Sardo, Ezio Riboldi, Athos Lisa, Enrico Tulli, Giovanni Lai. Ma dalla testimonianza di Sandro Pertini, l’episodio, nonostante l’astio del comunista Scucchia, viene addebitato ad altri gruppi di detenuti, presumibilmente agli anarchici.

Le speculazioni sulla rottura tra il partito e Gramsci sono state fin troppe. In realtà l’evoluzione della situazione politica e sociale porterà proprio Togliatti a perseguire una politica gramsciana, dopo l’avvento del nazismo in Germania nel 1933 e dopo il VII Congresso del Comintern nell’estate del 1935 (i “fronti popolari”).

Fu il fascismo ad uccidere Gramsci. E fu il Partito Comunista di Togliatti, Longo, Secchia, Scoccimarro a renderlo vivo e non un’icona imbalsamata. E ancora oggi, queste stesse testimonianze, ce lo rendono ancor più vivo, come tutta la sua elaborazione e riflessione storico-politica e filosofica. Dal carcere di Turi, Bari, al mondo “grande e terribile”.

 

Vedi anche Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, Laterza, Roma-Bari 1966, e poi in Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Editori Riuniti, Roma 1977, aggiornato in una nuova edizione a cura de “l’Unità” editrice, Roma 1988;  A. Lisa, Memorie. Dall'ergastolo di Santo Stefano alla casa Penale di Turi di Bari, Milano, 1973; testimonianza di Ercole Piacentini riportata in Istituto Ernesto De Martino, Gramsci raccontato. 8 testimonianze raccolte da Cesare Bermani, Gianni Bosio e Mimma Paulesu Quercioli, a cura di Cesare Bermani, Roma, Edizioni Associate, 1987.

Su questo blog: 



GRAMSCI a FORMIA: subalternità e margini della storia (da Angelo D'Orsi, Gramsci.Una nuova biografia)


Su Academia.edu:

https://www.academia.edu/43399444/Gramsci_a_Turi_il_partito_e_la_testimonianza_di_Sandro_Pertini



la cella di Gramsci a Turi - foto 2009 licenza @Ferdinando Dubla per Wikipedia






cartolina casa penale di Turi, 1909




giovedì 20 aprile 2023

ULTIMA FERMATA: EBOLI - ROCCO SCOTELLARO, INTELLETTUALE GRAMSCIANO

 

Il 2023, bi-anniversario della nascita (19 aprile 1923) e della morte (15 dicembre 1953) di Rocco Scotellaro.

 

Fioccano iniziative, video, patrocini per i 70 anni dalla morte (e 100 dalla nascita) dello scrittore di Tricarico, che in vita fu rinchiuso in carcere per un’ingiusta accusa di peculato, in realtà per aver organizzato da giovane Sindaco (il più giovane d’Italia, 23 anni) le lotte per la terra del suo territorio; considerato dai più saccenti e dall’accademia troppo ingenuo e primitivo, come i contadini che cantava con dolente malinconia in cerca di un loro riscatto (“siamo entrati in gioco anche noi, con le facce e i panni che avevamo”), Rocco prefigurava anche un nuovo paradigma di civiltà legato alla terra e al lavoro. E alla libertà, innanzitutto dal bisogno e dalla sofferenza. La stessa accademia oggi lo incensa per imbalsamarlo, cercando anche di renderlo balocco remunerativo per esotico turismo. Ma Scotellaro, da socialista del Mezzogiorno dell’”arretratezza”, incarnava la figura di intellettuale ‘organico’ gramsciano, proprio di quella classe contadina che finora secondo il filosofo marxista sardo, non ne produceva autonomamente, se non per delega agli intellettuali tradizionali. ‘Organico’ alla classe, non a un partito e men che mai a una linea politica. Ebbe tra i suoi mentori sostenitori Carlo Levi, che per questo dovette anche lui nel medio periodo sopportare critiche sull’”arretratezza” <stracciona> di certo meridionalismo, legato troppo alla terra e poco alle mirabilie industrialiste che avrebbero portato ‘progresso’ e ‘civiltà’, nonchè centralità della classe operaia. Per questo e per altro ebbe tra i suoi critici aspri Mario Alicata, alla morte di Scotellaro responsabile cultura del PCI, in nome dell’emancipazione necessaria a quell’”arretratezza” rassegnata e indolente, inseguendo la linea politica dell’italiana strada verso il socialismo. Nel famoso articolo di critica, però,

(vedi ‘Cronache meridionali‘ nr. 9 del 1954 - link http://www.etesta.it/materiali/2018_19_Alicata_1954.pdf),

Alicata giudicava “stroncature rabbiose quanto idiote” quelle pubblicate dalla Gazzetta del Mezzogiorno, allora organo pugliese della Democrazia Cristiana, a firma di tal Gustavo D’Arpe in data 5 e 11 agosto 1954. È la stessa testata oggi punta di diamante delle ricorrenze 100-70.

 

- Molti lo scoprono e lo ri-scoprono dunque oggi che si celebra un bi-anniversario, 100anni dalla nascita 70anni dalla morte. A Matera, Tricarico, suo paese d’origine, altrove, anche al nord, nonostante l’egemonia della falsa cultura dell’autonomia differenziata. Ma quello che fu definito ‘poeta contadino’ (con buone intenzioni, Carlo Levi voleva valorizzarlo e porlo all’attenzione sia del mondo culturale che di quello politico, nel crogiolo di quella che era definita la ‘quistione’ e l’analisi ‘meridionalista’ storica) non fu ‘vate’ di una civiltà che stava per morire, fra miseria, sofferenze, religiosità superstiziosa e rassegnazione, ben rappresentata, tra l’altro, proprio dal Levi del “Cristo si è fermato ad Eboli”, opera pubblicata nel 1945, ma intellettuale critico e organico, gramsciano perchè “persuasore permanente”, organizzatore di lotte, ricercatore-attivista del riscatto (il demartiniano escatòn) a partire dalla terra, la propria, e dalle sue radici culturali, senza sposare acriticamente la sostituzione del ‘paradigma’ della civiltà rurale con quella industrialista-sviluppista che era tipica della sua cultura politica di riferimento, socialista e comunista, marxista, e di cui la critica (posteriore) di Alicata, in qualche modo, fu l’emblema. La centralità della classe operaia come soggetto motore della lotta di classe e della trasformazione rivoluzionaria, si sovrapponeva alla creazione dello stereotipo industria-progresso-civiltà e alla marginalizzazione del mondo contadino, ‘arretrato’ per antonomasia, senza propri organici intellettuali, come aveva sottolineato proprio Gramsci, perchè formato da gruppi sociali popolari frammentati e ‘primitivi‘. La poesia (e l’azione), la inchiesta sociale (‘Contadini del Sud’) portarono la mediazione politico-culturale di Rocco Scotellaro alle radici della modernità, al confronto con gli strumenti interpretativi dello storico meridionalismo latitudinario per riscrivere una ‘quistione’ allargata all’intero mondo ‘grande e terribile’. Davvero l’ultima fermata era stata Eboli. / fe.d. - per i cento anni di Rocco Scotellaro.

 

- LA ‘MEDIAZIONE CULTURALE’ dell’intellettuale che si fa ‘organico’ alla classe

-Originale, pertanto, fu la responsabile consapevolezza del fatto che, per ragioni di classe, si desse, tra l’intellettuale formatosi nei licei classici di Matera, Potenza e Trento, e gli strati subalterni, uno iato inevitabile, e che il lavoro culturale di mediazione dovesse pertanto risiedere nel tentativo di accorciarlo, senza l’illusione buonista di eliminarlo, in un inesausto sforzo di approssimazione alle esigenze popolari, di identificazione con il punto di vista dei dimenticati e di interpretazione sintetica di un nuovo modo di rappresentarne il protagonismo politico. Insomma, la cifra distintiva del modello-Scotellaro, al di là delle artefatte mitologie sortegli attorno, sta nella coscienza realistica della regressione, vissuta tuttavia non come diminutio del proprio statuto culturale, ma come opportunità di allargamento dei confini ristretti dell’idea stessa di sapere e letteratura.

 

Marco Gatto, Rocco Scotellaro e la questione meridionale - Letteratura, politica, inchiesta, Carocci, 2023, pag.17.




Rocco Scotellaro a sx con Giulio Einaudi, a dx con Amelia Rosselli, 1950, foto tratte da "Album di famiglia di Rocco Scotellaro", a cura di Carmela Biscaglia, Grenzi ed., 2019


Ferdinando Dubla - in morte di Rocco Scotellaro -Telero 61 di Carlo Levi - Palazzo Lanfranchi, Matera 







martedì 11 aprile 2023

LA CONTRONARRAZIONE DEL SUD: noi non siamo il non-nord

 

A partire da un confronto laboratoriale e sperimentale stimolato dal dibattito, vogliamo ricostruire nuove contronarrazioni situate che interroghino il Sud, come uno spazio fluido, politico e in divenire, attraverso cui decostruire le categorie dominanti che per secoli hanno passivizzato il margine e la marginalità considerate ‘sottosviluppate’ e arretrate culturalmente.

 

NOI NON SIAMO IL NON-NORD

 

Dobbiamo conservare o abolire il termine meridionalismo? La storica narrazione meridionalistica, ha detto e scritto Conelli, si è rivelata insufficiente a spiegare il Sud a partire dai subalterni, dalla critica al paradigma sviluppista del capitalismo e dalla complicità delle élites meridionali funzionali alle classi dominanti che imponevano la disuguaglianza sociale strutturale. - Ancora una volta, con Gramsci, è necessaria una ricollocazione “organica” degli intellettuali, a partire dall’elaborazione di un pensiero meridiano, in cui in unico Sud c’è tutto il mondo, perché ogni Sud del mondo è il mondo stesso. La ’vecchia’ quistione è finita, ne è nata una nuova, non geolatitudinaria, ma globale, circolare, orizzontale - longitudinale. / fe.d.

 

MEZZOGIORNO ’FORCLUSO’

 

Decostruire l’idea di Mezzogiorno a partire dai suoi margini. Rovesciare il paradigma, con una lettura postcoloniale globale della “quistione”.

Francesco Festa recensisce Carmine Conelli e il suo “Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno“, Tamu Edizioni, Napoli, 2023, pp. 237

 

- In effetti un libro che parli del Mezzogiorno d’Italia ha poche alternative: o è un libro scomodo, che punta dritto al cuore sferrando l’attacco dalle retrovie, da dove non ti aspetti e va a colpire un fianco aperto, oppure è un deja vu, qualcosa di già letto. Se è quest’ultima la china, il discorso procederà con le lamentele e le recriminazioni, sulla “questione meridionale”, su ciò che è stato fatto, o non fatto, i soldi investiti e quelli sperperati o spariti, quanto sia responsabilità della classe dirigente oppure sulla responsabilità della cultura dei meridionali. Un testo del genere condurrà il lettore al cul-de-sac dove sono esposte la responsabilità, l’assenza di senso civico e di cultura della modernità dei meridionali.

Il rovescio della nazione, per fortuna, fa piazza pulita di questi discorsi depotenzianti, dei cliché e degli stereotipi, anzi, se ne tiene ben distante. È un libro scomodo, innanzitutto, che partendo dal margine meridionale cerca di indagare su ciò che può essere un punto di vista autonomo, altro, sul Meridione. È stato volutamente scritto per una facile divulgazione, superando gli specialismi, tralasciando – a ragione – l’infrastruttura bibliografica che sorregge l’impianto teorico delle categorie in esso utilizzato e che ha lavorato, almeno negli ultimi venti anni, come una talpa per decostruire e ricostruire l’idea di Mezzogiorno.

Sbrogliata la matassa dei discorsi depotenzianti, nel libro si coglie una stratificazione bibliografica, composta di saggi, articoli e libri pregressi i cui echi sono percepibili solo da chi ne conosce i rimandi; infatti, al lettore comune Il rovescio della nazione appare come un’opera straordinariamente originale, poiché ne elude la genealogia.

Vale la pena però qui ripercorrere la stratificazione bibliografica e risalire a quanto nel “presente storico” del Meridione, per dirla con Marx, vi sia il frutto di un lavoro di rovesciamento di paradigma, ciò non solo per ripercorrere la genealogia de Il rovescio della nazione ma tutta l’opera di studiosi e di collettivi che negli ultimi vent’anni hanno lavorato per smontare il regime di verità costruito sul Meridione, segnalando il rimosso, il non detto, il forcluso della storia italiana, ciò che Miguel Mellino chiama l’“inconscio coloniale delle strutture del sentire nazionale”.

Francesco Festa [estratto, leggi tutto al link

https://www.carmillaonline.com/2023/03/10/decostruire-e-ricostruire-il-mezzogiorno-a-partire-da-il-rovescio-della-nazione/?fbclid=IwAR1hS7q5YBgxavRzDOHXNA35OJBSJuSN0Y_AhVNvte4UCIO3bbWXty4OlsY]

 

#MeridianoSUD    Can the subaltern’ speak?

 

<Per il "vero" gruppo subalterno, la cui identità è la sua differenza, non c'è soggetto subalterno irrappresentabile che possa conoscersi e parlarsi; la soluzione dell'intellettuale non è astenersi dalla rappresentazione>, Gayatri Chakravorty Spivak

 

POSTCOLONIAL GRAMSCI

 

- Anche le rappresentazioni storiografiche del Risorgimento evidenziano il mancato coinvolgimento delle masse, in particolare di quelle meridionali, nella neonata formazione nazionale. Gramsci osserva come la storiografia a lui contemporanea avesse prodotto una visione lineare e omogenea della nazione italiana, raccontandone l’epopea in forma di «biografia nazionale» o «storia feticistica»: in questa raffigurazione, caratteri mitologici e astratti come Unità, Rivoluzione, Italia diventavano i protagonisti della storia, e il passato era interpretato alla luce del presente. Il presupposto di questa linearità deterministica, che si proponeva di rafforzare il sentimento nazionale proprio tra gli strati sociali più bassi, era per l’appunto la loro esclusione dall’epopea. Il fallimento delle istanze democratiche aveva contribuito ulteriormente a dare forma al divario nord-sud. Un rapporto che Gramsci immagina simile a quello tra una grande città e una grande campagna: «Essendo questo rapporto non già quello organico normale di provincia e capitale industriale, ma risultando tra due vasti territori di tradizione civile e culturale molto diversa, si accentuano gli aspetti e gli elementi di un conflitto di nazionalità». Come ha rilevato Adam Morton, la rivoluzione passiva deve dunque essere considerata anche in termini di una metafora spaziale, come una «strategia di spazializzazione emergente che ha strutturato e modellato il potere dello stato in Italia». La matrice geografica del rapporto tra nord e sud è una delle intuizioni più felici di Gramsci, e la ritroviamo, qualche decennio dopo, nella Gran Bretagna di Stuart Hall e attraverso l’Oriente decostruito da Edward Said.  - Carmine Conelli

 

#SubalternStudiesItalia, 9.04.2023

 

Dibattito circolare alla cooperativa Robert OWEN, sabato 8 aprile 2023. Si è parlato di #MeridianoSUD e del ‘rovescio della narrazione’, richiamandosi al testo di Carmine Conelli ‘Il rovescio della nazione - La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno’ edito da Tamu edizioni (in foto)

“Non possiamo più limitare la nostra comprensione del Mezzogiorno all’interno degli schemi dualisti che hanno condannato l’intero Sud al ruolo omogeneo di non-ancora-Nord. Allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere la colonialità delle categorie di pensiero che vengono utilizzate - e che spesso inconsciamente replichiamo - per raccontare il Mezzogiorno. Non possiamo più considerare la nostra visione come un mero riflesso dello sguardo esterno.” (Carmine Conelli, il Rovescio della Nazione)

“Lotte queer e meridionalismo possono trovare una intersezione nella marginalità e nella comune rivolta contro il Padre, cioè contro la cultura patriarcale, da una parte, e la patria e il nazionalismo, dall’altra.” (Davide Curcuruto, Queer Meridionalismo, Menelique)

“Lavoro, ambiente e salute non dovrebbero essere alternative tra cui scegliere, ma diritti ugualmente rispettati. A Taranto purtroppo non è stato così. Oggi la politica vede nel turismo l’unico futuro possibile per questa città, ma per superare questo processo di deculturazione abbiamo bisogno di una rielaborazione critica del passato e di un pensiero meridiano” (Stefano Modeo, Pensare Il Sud, Menelique).




IL DIBATTITO CIRCOLARE è una metodologia che permette l’abbattimento delle gerarchie, anche di ruolo, e avvia un confronto reale su contenuti che hanno necessità del gramsciano intellettuale collettivo. Il seminario permanente può assumere l’autoformazione come elemento caratterizzante per i processi di emancipazione e liberazione dagli stereotipi di potere, al modo della pedagogia degli oppressi di Paulo Freire. Collettivi politici di base, comunità di “fedi” o rituali plurali di base, assumono il dibattito circolare come riferimento di una prassi trasformativa delle relazioni, dunque rivoluzionaria.
foto Cooperativa Owen, assemblea circolare sul ’Sud - il rovescio della narrazione’, 8 aprile 2023 - San Giorgio Jonico (TA)













sabato 8 aprile 2023

TEORETICA e TEORETICA MARXISTA, la dialettica storica che non può avere ortodossia

 

Che cos’è la teoretica? È la filosofia ‘prima’, aristotelicamente costituita dai fondamenti di un’idea, di un pensiero, i suoi elementi portanti, essenziali, perchè senza essenza, non c’è quella cosa di cui si predica l’esistenza (“essere in quanto essere”). Per i marxisti, non può esistere teoretica senza la prassi, perchè l’individuazione degli stessi fondamenti scaturisce da un costante esame della realtà, per comprenderla e trasformarla. ‘Lineamenti fondamentali’ è uno dei titoli ed espressione di Marx: segue la critica, cioè l’analisi attraverso procedure scientifiche perchè verificabili, l’esame ‘decostruttivo’ dei fenomeni e la finalità esplicita della trasformazione rivoluzionaria. Dunque se è vero che senza prassi non vi sarebbe alcuna teoretica, se non quella astratta di un’immaginazione metafisica, è anche vero che senza teoretica non vi sarebbe prassi, quella del mutamento storico. La dialettica è qui, nella storia, non può avere ortodossia, se non la critica costante degli stessi fondamenti con cui si interpreta il presente che appare per ciò che è e per ciò che non è. Nella storia c’è sia la natura, intesa come natura antropologica nelle sue tendenze permanenti ma sempre determinate dalle materiali condizioni dell’esistenza; e sia il rapporto uomo/natura esterna e la cultura, che non è nè riflesso nè sovrastruttura, ma espressione dello sguardo emotivo delle relazioni sociali. Questo è anche il filo comune che lega tutte le opere di Marx al netto delle presunte ’rotture epistemologiche’ althusseriane oppure, viceversa, delle letture per una ‘teoria dei bisogni‘ (la Agnes Heller degli anni ‘70), il peccato di ‘oggettivismo’ o di ‘soggettivismo’, giovane Marx o maturo Marx. Questa è anche l’interpretazione di Cesare Luporini, vedi anche “Il problema della soggettività“, «Annali del dipartimento di filosofia dell’Università di Firenze», n. s., V, 2002, pp. 9-21 (relazione al convegno con Sartre del 1961) - 

Ferdinando Dubla, scritto originale per wikipedia - immissione alla voce ’Cesare Luporini’ - monitoraggio e controllo aggiornamenti.

- Cesare Luporini (1909-1993) ha tenuto la cattedra di Filosofia morale all’Università di Firenze dal 1960 fino al 1979 



su questo blog vedi anche 

La prassi





a cura di Ferdinando Dubla



Cesare Luporini (Ferrara,1909-Firenze,1993)


Cesare Luporini, Dialettica e materialismo, Editori riuniti, 1978


giovedì 6 aprile 2023

LA STAFFA E IL DESTRIERO - su Rodolfo Morandi, Raniero Panzieri, Ernesto de Martino e Rocco Scotellaro

 

I 'QUADERNI ROSSI', CHE NACQUERO NELLE PROVINCE MERIDIONALI

Rodolfo Morandi elabora [dopo il 1946+, ndr] un'idea di partito che attraverso un mutamento qualitativo, basato cioè sulla formazione dei quadri, avrebbe potuto tessere un fitto legame con le masse e liberare, in tal modo, il partito dai legami clientelari che ancora lo condizionavano.  (..)

Panzieri viene inviato alla federazione socialista di Bari [x1] perchè avrebbe dovuto collaborare con la corrente di sinistra in previsione di una scissione socialdemocratica, che poi avverrà. Qui entra in contatto con gli esponenti della sinistra locale come Anna Macchioro De Martino, Paolo Franco, Mario Potenza , ma soprattutto ha l'occasione di approfondire la conoscenza con la personalità più eminente del gruppo, ovvero l'antropologo Ernesto De Martino, con cui aveva già avuto modo di stringere rapporti al Centro di studi sociali per la pubblicazione di Mondo magico, che però non avvenne perchè Lombardi giudicò lo storicismo di De Martino come impigliato a metà strada tra la "staffa crociana" e il "destriero marxista". De Martino era in effetti ancora influenzato da Croce e fu interesse di Panzieri orientarlo alla lettura dei "sacri testi". Ma chiaramente, per l'enorme spessore culturale di De Martino, l'influenza non potè che essere reciproca ed entrambi contribuirono allo sviluppo di quel particolare modus operandi  che negli anni successivi al '56, e per tutti gli anni Sessanta, verrà denominato "conricerca" o "inchiesta"; una metodologia culturale che tenterà continuamente di reagire a un marxismo ortodosso "citazionistico" (l'espressione è di Stefano Merli, nota in calce); proponendosi di riempire quel vuoto politico tra la base e il vertice che caratterizzerà tutta la critica panzeriana alle organizzazioni storiche del movimento operaio e che rappresenterà, nella fase matura di Panzieri, il metodo tout court del lavoro teorico-politico culminato nell'esperienza dei "Quaderni rossi".

Marco Cerotto, «Raniero Panzieri e i 'Quaderni rossi'. Alle radici del neomarxismo italiano», DeriveApprodi, 2021, pp.20-21.

+ Dall’11 al 16 aprile 1946 si era tenuto a Firenze il XXIV Congresso nazionale del PSIUP che aveva visto le dimissioni del Morandi dalla carica di segretario nazionale. Dopo il Congresso, insieme al giovane Panzieri, si era impegnato nella rivista del partito “Socialismo”. Un periodo caratterizzato dal dissidio con Lelio Basso.

x1. In vista del congresso successivo, gennaio 1947.

 

Recensione di Francesco Festa a «Raniero Panzieri e i 'Quaderni rossi'. Alle radici del neomarxismo italiano» di Marco Cerotto, pubblicato da DeriveApprodi, 2021 - il rapporto con Scotellaro e de Martino e il metodo della ”conricerca”.

su Il Manifesto, 4 giugno 2021

[integrale]

Cos’hanno in comune Raniero Panzieri e Rocco Scotellaro? Di primo acchito, niente. Molto, nella formazione politica. Entrambi hanno forgiato la propria militanza nelle campagne meridionali. Il poeta contadino denunciò, nel vivo delle lotte per la terra del dopoguerra, «la cultura italiana» che «sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento, colto nel suo formarsi e modificarsi presso l’azione».

DISTANZIANDOSI dalla stessa cultura italiana, Panzieri volle toccare con mano quei contadini. Chissà, forse, ne intravedeva in nuce la potenza, sebbene fossero classi subalterne frammentate, disunite, irretite dall’egemonia della cultura italiana esercitata dagli intellettuali borghesi, tanto crociani-gentiliani quanto togliattiani.

Nel 1947, Panzieri si trasferì a Bari presso la Federazione Socialista e conobbe lo «spessore culturale di De Martino», con cui sviluppò un particolare «modus operandi»: un’inchiesta sociale in grado di interagire con la cultura profonda, le convinzioni e le condotte personali, e negli anni ’60 sarà denominata «conricerca».

METODOLOGIA che, l’anno dopo, Panzieri sperimentò in Sicilia, durante le lotte contadine, e dopo il ’56 contro la cultura italiana e il marxismo ortodosso, riempiendo il vuoto tra la base e il vertice delle organizzazioni del movimento operaio, e che sarà «il metodo tout court» dei «Quaderni rossi». In Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle radici del neomarxismo italiano di Marco Cerotto (DeriveApprodi, pp. 128, euro 10), viene fuori un profilo molto interessante di Panzieri. Un volume agile che indaga tratti biografici trascurati dalla storiografia passata e da quella prodotta per i quarant’anni dalla sua morte.

L’AUTORE SVOLGE uno scavo archeologico sulla formazione di Panzieri: ne illumina aspetti del percorso giovanile che appaiono fondamentali per comprendere la prassi e la teoria sviluppati negli anni ’50. In particolare, l’apprendistato nel Mezzogiorno. Il che spiega le scelte professionali e politiche successive, come quella di pubblicare – poi rigettata dall’Einaudi tanto da costargli il posto – un’inchiesta coraggiosa di Goffredo Fofi sulla nuova classe operaia, L’immigrazione meridionale a Torino. Oppure l’avvicinarsi con metodi innovativi alla conoscenza degli operai meridionali a Torino: la «rude razza pagana», la nuova composizione operaia, irriducibile alla disciplina del Pci e alla cultura italiana, con cui ha interagito, seppur velocemente, ma senza perdersi l’entrata in scena dell’operaio massa nella rivolta di piazza Statuto del luglio ’62.

UN FIL ROUGE innestato nel tronco dell’operaismo, che lo ritroviamo nelle organizzazioni e nelle lotte operaie degli anni ’70, e nello studio magistrale di Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, sulla formazione della classe operaia a partire dal Sud.

Il libro di Cerotto ha un enorme pregio: illuminare il passato panzieriano, dove si trovano le radici della lettura innovativa del Capitale e dell’operaismo («neomarxismo»). E si chiude con un capitolo sintesi del primo operaismo e della parabola dei «Quaderni rossi»: Divergenze teoriche tra Panzieri e Tronti. Le ragioni potrebbero sembrare inverosimili, ma i dissapori si reggevano su una profondità teorica oggi inconcepibile. La consapevolezza di vivere una fase storica completamente diversa in cui s’imponeva una continua ricerca sia del capitale che della classe operaia: da una parte, la posizione di Panzieri, sulla «scientificità del marxismo dall’altra, quella trontiana, sulla «rivoluzione copernicana». 

 

Essa stessa dogmatica, ché vedeva nella classe operaia un antagonismo per antonomasia, non il «capitale variabile»; invece Panzieri sapeva come il passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé», non era automatico, richiedeva un metodo scientifico d’inchiesta (conricerca). Metodi simili li aveva visti all’opera, nel suo passaggio a Sud, scoprendo «la storia autonoma dei contadini»; dove, forse, conobbe Scotellaro, attorno al quale nel ’54 promosse a Matera il convegno «Intellettuale del Mezzogiorno».

Con questo libro Panzieri è riportato lì dove si forma la sua militanza eretica. E se l’operaismo si sviluppa fuori i cancelli di Mirafiori, la sua ontologia è nelle province meridionali.

 

a cura di Subaltern studies Italia


Rodolfo Morandi (1902-1955) e Raniero Panzieri (1921-1964)

Il nr.1 di Quaderni rossi e Rocco Scotellaro






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lunedì 3 aprile 2023

PAOLO FERRERO: Raniero Panzieri, l'iniziatore dell'altra sinistra

 

L’INCHIESTA SOCIALE DI CLASSE COME METODO DI RICERCA COLLETTIVA

 

L’inchiesta sociale è lo strumento di ricerca principe dei collettivi Subaltern Studies, in quanto metodologicamente capace di comprimere l’interpolazione delle fonti dirette al solo gruppo di lavoro che ha esplicita la finalità di recidere la mediazione della cultura dominante. / #SubalternStudiesItalia

 

Etichette come neomarxismo e marxismo ortodosso non ci piacciono e crediamo in un loro ”superamento” nella visione di un marxismo come ricerca collettiva aperta senza ulteriori aggettivazioni. Di qui anche l’accostamento tra la riflessione di Panzieri e l’esortazione maoista all’inchiesta per il ‘diritto di parola’. Panzieri mutua da Rodolfo Morandi, originale figura di leninista libertario, il legame tra l’organizzazione e la spontaneità delle forme e dei modi della classe, tra la strutturazione in partito e la con-formazione della base sociale per la trasformazione rivoluzionaria.

 “Il solido classismo e il ripudio di ogni politicismo sono quindi elementi della lezione morandiana che Panzieri ha assorbito nel corso della sua militanza da dirigente socialista e su queste basi matura un distacco dalla sinistra interna.”, Paolo Ferrero (a cura di) Raniero Panzieri l'iniziatore dell'altra sinistra - Postfazione di Marco Revelli, ShaKe ed., 2021, e.book pos. 97 di 518

 

L’origine della conricerca di Panzieri è meridionalista, in una modalità che era stata sperimentata dai “Contadini del Sud” di Rocco Scotellaro (opera incompiuta pubblicata postuma nel 1954).  Nel metodo e nei contenuti, il ricercatore sociale analizza l’oggetto di studio senza preliminare interpretazione soggettivista ma con una finalità esplicita per poter dare voce a chi voce non ha con la sua stessa voce. L’oggetto di studio è la classe operaia e la sua composizione; oltrepassando quello che sarà chiamato ‘operaismo’ (il gruppo di Tronti e di ‘Classe operaia’) in una attualizzazione estensiva, l'inchiesta riguarda i gruppi subalterni nel quadro strutturale dei rapporti di produzione come posizione all’interno dei rapporti sociali e il loro stato nelle relazioni umane. Come posizione conflittuale nella società capitalista e la sua scaturigine immediata nella coscienza singola, ‘mediata’ nella coscienza critica di massa ed emancipata come coscienza di classe proprio per il legame che deve crearsi tra organizzazione e classe. /fe.d.

 

RANIERO PANZIERI. L’INIZIATORE DELL’ALTRA SINISTRA

di Paolo Ferrero

Cento anni fa nasceva Raniero Panzieri. In questo libro, venti persone che lo hanno conosciuto ce lo raccontano con testimonianze e approfondimenti sulla sua elaborazione. Panzieri merita di essere ricordato per come ha vissuto, per le scelte che ha fatto e per come le ha fatte. Ci dice Franco Fortini: “Di destini come quello di un Panzieri – noi abbiamo bisogno. (…) che Panzieri, per noi, molto più di quello che egli è stato, è quel che non è stato. Egli è stato innanzitutto diverso dagli altri, il diverso da quelli. Chi cerca le proprie amicizie tra gli invisibili diviene presto invisibile. Questo ha saputo Panzieri attuare inflessibilmente.” Panzieri merita di essere scoperto per il suo contributo teorico e politico. A partire dalla grande svolta del ‘56, negli anni che precedono il ciclo di lotte del 68-69, elabora un metodo analitico, una cultura politica e una strategia che attualizza il tema della rivoluzione in Occidente. Una elaborazione che molto ha da dirci oggi, in un tornante storico simile a quello scandagliato da Panzieri perché caratterizzato dalla sconfitta di un ciclo di lotta precedente, dalla modifica complessiva della composizione di classe e dal salto tecnologico e organizzativo del capitale. Panzieri è quindi un vero e proprio classico e ci fornisce molti spunti per andare oltre la situazione in cui siamo impantanati. Infine, questo libro vuol affrontare un equivoco. Panzieri viene sovente presentato come il padre dell’operaismo, ma questo non è vero. L’operaismo nasce in reazione agli stessi problemi da cui muove Panzieri: dalla crisi del movimento comunista in seguito al disastro dello stalinismo all’inefficacia dell’impostazione togliattiana nell’affrontare lo sviluppo del neocapitalismo per arrivare alla centralità politica dello scontro tra capitale e lavoro. Su questa base comune Panzieri e alcuni di coloro che diventeranno operaisti, danno vita insieme ai Quaderni rossi. Però le strade presto si divaricheranno. Panzieri ruppe con loro e segnatamente con Tronti – il vero padre dell’operaismo – appena questi andò precisando la sua teoria e la sua proposta politica da cui poi nacque la rivista “Classe Operaia”. La grandezza di Panzieri consiste proprio nel non limitarsi a un rovesciamento della tesi che contesta ma di aprire una strada nuova, superando in avanti il fallimento dello stalinismo e la crisi del togliattismo senza cadere nella metafisica operaista. Una strada che ha avuto alcuni elementi di concretizzazione nelle lotte a cavallo degli anni Settanta, ma che è in larghissima parte da sviluppare. Nelle pagine che seguono potrete leggere una stringatissima biografia di Panzieri e la presentazione di alcuni nodi del suo pensiero. Buona lettura e un’ultima sottolineatura: la spaccatura della redazione di “Quaderni rossi” avvenne senza che i principali esponenti della stessa perdessero mai la stima reciproca. Mi pare una lezione di stile attualissima e lo spirito partigiano di questo libro vorrebbe collocarsi in quel solco.

da Paolo Ferrero (a cura di) Raniero Panzieri l'iniziatore dell'altra sinistra - Postfazione di Marco Revelli, ShaKe ed., 2021

a cura di Subaltern studies Italia

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