Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 28 luglio 2021

INSORGENZA e APPARTENENZA

 

Un’intervista sull’insorgenza meridionale datata dicembre 2013, ora su You Tube,  nella manifestazione Manufacta di Martina Franca (TA) in cui venne letta la poesia di Scotellaro LA TERRA MI TIENE (testo in calce). Se il senso di appartenenza a un mondo storico è infatti il tratto culturale dell’identità antropologica di un popolo, lo straniamento è alla radice dell’alienazione; per cui diventa centrale il rapporto, che è atavico e ancestrale insieme, con la terra e il proprio territorio.

- Oggi, si dice, c’e’ un’insorgenza di carattere culturale, per un diverso paradigma di civiltà di riaccostamento alla terra, e in cui il meridionalismo storico può essere riposizionato in termini non latitudinari ma universalistici, a partire dalle identità di appartenenza, per il riscatto, liberazione e trasformazione rivoluzionari.                                                                      ~ Ferdinando Dubla

LA TERRA MI TIENE
Lunga strada seppur deserta
dove puoi menarmi non vedo
punto d’arrivo.
Scordarmi i vivi per ritrovarli
con tutto il peso che mi porto
della vita che m’è nata
i fiori son cresciuti
la luce li accende.
Sradicarmi? la terra mi tiene
e la tempesta se viene
mi trova pronto.
Indietro / ch’è tardi
ritorno
a quelle strade rotte in trivi oscuri.
Rocco Scotellaro, Tivoli, 1942

ringraziando la FGCI di Martina Franca, video del servizio televisivo e dell’intervista qui 

Ranajit Guha: l”adattamento” di Gramsci nei Subaltern studies

 

La dicotomia della mobilitazione nazionalista era soltanto un sintomo della politica e della vita indiana in generale. C'era una spaccatura strutturale che attraversava l'intera società. Identificare questa spaccatura di base in termini di ricerca empirica e concettualizzarla in una teoria è stato ciò che ha dato ai Subaltern Studies il loro posto nel mondo accademico dell'Asia meridionale e, forse, negli studi su altre società e culture che condividono la nostra esperienza. In questa importante parte del nostro progetto, Gramsci è stato la nostra guida. Da lui abbiamo preso alcune parole e idee chiave; ma è stato grazie alla loro adattabilità alla situazione indiana che abbiamo potuto beneficiarne. Il pensiero di Gramsci possiede un'apertura che invita e incoraggia l'adattamento. Io considero questo il tratto forse più influente e rilevante del pensiero gramsciano. Nella sua lettura di Machiavelli, lo stesso Gramsci riconosce in tale apertura un inequivocabile segno di forza. Nella prima frase del Quaderno 13, scrive: «Il carattere fondamentale del Principe è quello di non essere una trattazione sistematica ma un libro "vivente"» (Quaderno 13 § 1, Q, p. 1555). Ciò vale anche per la sua stessa opera. Contrariamente a quegli autori che erigono sistemi, Gramsci lascia ai suoi lettori una grande libertà di pensare, assorbire e fare proprie le sue idee. Il curatore della versione inglese dei Quaderni del carcere esprime il proprio disagio per quello che definisce il loro carattere incompiuto e frammentario. Per noi questo non è affatto un problema: al contrario, può essere il modo in cui Gramsci ci dice che ogni progetto è necessariamente incompiuto e che il lavoro deve andare avanti. Il nostro umile progetto dei Subaltern Studies è appena iniziato e ha ancora una lunga strada davanti a sé.

(traduzione di Cristina Coldagelli)

da: Gramsci le culture e il mondo, a cura di Giancarlo Schirru, Viella, 2009, in collaborazione con Fondazione Istituto Gramsci onlus e International Gramsci society Italia, cit. da 1ed. e.book 2011

(2. fine) (1.precedente cfr. blog 8 luglio 2021)

Acribia filologica e filologia vivente

Il nostro appello è a non circoscrivere lo studio di Gramsci alla critica accademica, pur importante, ma dove spesso prevale l’”acribia filologica” e anche il pedantismo, ma aprire laboratori collettivi di ricerca per far respirare il nostro tempo alla riflessione teorica, e rendere saldo l’impegno sociale e politico con la “filologia vivente” dei testi e dell’analisi gramsciani, per una trasformazione rivoluzionaria in chiave di riscatto e liberazione delle classi subalterne. Crediamo sia questo il significato di “adattamento”, categoria utilizzata da Ranajit Guha, promotore dei Subaltern studies indiani, nei confronti di Gramsci, cioè l’adattabilità testuale ai determinati con/testi storico-politici oggetto dell’indagine con le loro specificità, purché si dia voce ai costruttori della storia senza
narrazione.

Subaltern studies Italia




lunedì 26 luglio 2021

Recensione a "Naturalismo e storicismo nell'etnologia" (1941) di Ernesto de Martino

 


di Marco Valisano

Ernesto de Martino (1908-1965) è stato uno studioso difficilmente inquadrabile. Ad oggi, infatti, lo si trova etichettato tanto come etnologo quanto come storico delle religioni; il più delle volte come antropologo, più raramente come filosofo. La cosa non ha, ad ogni modo, alcun interesse, perché ognuna di queste denominazioni coglie aspetti decisivi del suo lavoro (basta sfogliare le prime pagine di Naturalismo e storicismo nell'etnologia per rendersene conto). Quel che però non è in nessun modo lecito è qualificarlo come un raccoglitore di usi popolari, come studioso di folklore. Leggerne l'opera in questa chiave richiederebbe, peraltro, uno sforzo interpretativo davvero titanico. Ernesto de Martino fu anzitutto un intellettuale organico, e certamente fu filosofo se la filosofia è, nella meravigliosa definizione di Foucault, una politica della verità.

 

L'interesse di de Martino è stato volto principalmente alla comprensione del ruolo esistenziale di quello che chiamava "nesso mitico-rituale", e cioè dei modi in cui si-dicono e si-fanno le cose. È di questo che si è sempre occupato, almeno sin da Il mondo magico e di seguito per tutta intera la cosiddetta "trilogia meridionalistica" (Morte e pianto ritualeSud e magiaLa terra del rimorso). A valergli la qualifica di antropologo sono state principalmente queste tre opere, delle quali raramente si è messo in evidenza il portato più schiettamente teorico. La vena filosofica dell'indagine demartiniana tracimerà però prepotentemente nei due volumi usciti postumi, ovvero La fine del mondo e Scritti filosofici, fornendo così valide chiavi di lettura per l'intero suo percorso di ricerca. Nella fattispecie, queste consentono di guardare alla ricerca demartiniana come a un tentativo di costruire una teoria della singolarità e delle istituzioni partendo dal concetto esistenziale di crisi della presenza.

 

Marco Valisano

extract. da LiberCensor

http://www.libercensor.net/contenuti/naturalismo-e-storicismo-nell-etnologia

Quattro saggi intimamente legati

 Il volume è composto da quattro saggi che, il linea di principio, sono autonomi, e possono perciò leggersi anche separatamente. Ma non conviene. Essi sono infatti intimamente legati da una comune volontà di analisi, dal medesimo obiettivo teorico: mostrare le insufficienze metodologiche delle scuole etnologiche allora in voga, tanto di quelle che usavano un metodo eminentemente naturalistico (pp. 63-116) quanto di quelle che rivendicavano un metodo storicista (pp. 151-198).

(..)

Il primitivo come un prima, il primitivo come un fuori

(..)

  1. coloro che usano il concetto del primitivo nel senso della cronologia (cfr. Frazer [1890] 1994), certo riconoscono una continuità tra il nostro mondo e quello dei "primitivi" (anche noi eravamo così). Ma così facendo confondono le acque, perché le comunità "di interesse etnologico" sono a noi contemporanee; inoltre, dare per buono che sia più primitivo ciò che viene prima renderebbe necessario reputare l'alto Medioevo meno "primitivo" dell'Atene classica. Il concetto del "primitivo" non può dunque essere usato così;
  2. coloro che, invece, usano il concetto del primitivo al fine di denotare una differenza qualitativa tra quel mondo e il nostro (cfr. Lévi-Bruhl [1927] 2007), se hanno il merito di mettere a fuoco lo scarto vigente tra esperienze del mondo tra loro lontane (ognuno ha il suo modo d'intendere il mondo e il suo senso), contemporaneamente creano però uno iato così ampio tra il "primitivo" e il "moderno" che diviene impossibile riuscire a spiegare come sia potuto accadere che un bel giorno si sia passati dal primo al secondo.

Il primitivo come categoria logica

Bisogna fare perciò uno sforzo interpretativo d'altro tipo. È necessario considerare il concetto di primitivo in un senso puramente logico, ovvero come una dimensione antropologica primaria che, lungi dal poter venire archiviata, sta sempre quale più o meno tacita componente dell'umano. (..) Nelle pagine che de Martino dedica al concetto di prelogismo coniato da Lucien Lévy-Bruhl per dar conto della "mentalità primitiva" (..)

(..)

Sviluppi della ricerca di de Martino

(..)

  1. Il primitivo come categoria logica – Questo punto verrà definitivamente in chiaro con Il mondo magico, specialmente con la meditazione che de Martino farà delle critiche mossegli da Benedetto Croce ed Enzo Paci (Croce [1949]; Paci [1950]). Non riuscendo in nessuna maniera a trattare l'arcaico come un'epoca storica, de Martino dovrà considerarlo in maniera sempre più netta come una costante antropologica. Andando a fondo, non è forse una forzatura sostenere che de Martino arriverà a coniare il concetto di "crisi della presenza" proprio in relazione a questo sostrato primitivo, considerandolo quale un originario spaesamento del nostro esserci (cfr. Mazzeo 2009). Ciò che ci è di più intimo è l'arcaico, ciò che più ci è vicino è il crollo rovinoso dell'essere-nel-mondo;
  2. Opposizione individuo/società vs. dialettica singolo-istituzione – Questo crollo rovinoso verrà legato a doppio filo con la crisi delle istituzioni di una comunità, istituzioni che de Martino chiama si-fa-così. Si tratta di modalità istituite in cui si-fanno le cose, e che nella ricostruzione del filosofo napoletano risultano essenziali al processo di riscatto da una primitiva crisi dell'esserci (cfr. specialmente de Martino [1961] 1996; Id. [1977] 2002). Si tratta di uno spaesamento originario, che per poter essere gestito e dar luogo a una vita umana necessita di una presa in carico istituzionale. La società, con i suoi moduli stereotipati d'azione, non inibisce né avalla l'agire, ma lo fomenta, consentendo la fuoriuscita da questa crisi arcaica. La sfera dell'individuale, lungi dal prescindere dalle istituzioni sociali, si configura come una modalità irripetibile di modulazione delle stereotipie (Id. [1958] 2000).

Marco Valisano per LiberCensor

https://unimore.academia.edu/MarcoValisano?from_navbar=true

 

 

Bibliografia, riferimenti e suggerimenti di lettura

  • Croce, Benedetto [1949] Intorno al magismo come età storica. In Ernesto de Martino [1948] (1998) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Introduzione di Cesare Cases. Torino: Bollati Boringhieri.
  • De Martino, Ernesto [1948] (1998) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Introduzione di Cesare Cases. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Durkheim, Émile [1895] (2008) Le regole del metodo sociologico. Trad. di Fulvia Airoldi Namer. Torino: Einaudi.
  • Frazer, James [1890] (1994) The Golden Bough. A Study in Magic and Religion. Edited with an Introduction by Robert Fraser. London and New York: Oxford University Press.
  • Lévy-Bruhl, Lucien [1927] (2007) La mentalità primitiva. Trad. di Carlo Cignetti. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Mazzeo, Marco (2009) Contraddizione e melanconia. Saggio sull'ambivalenza. Macerata: Quodlibet.
  • Paci, Enzo [1950] Il nulla e il problema dell'uomo. In Ernesto de Martino [1948] (1998) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo. Introduzione di Cesare Cases. Torino: Bollati Boringhieri.

Pubblicato Wednesday 18 April 2018

Modificato Thursday 2 January 2020

 

leggi tutto l'articolo-saggio qui

http://www.libercensor.net/contenuti/naturalismo-e-storicismo-nell-etnologia




domenica 18 luglio 2021

Così morì la brigantessa Michelina

 

STORIE DAL SUD RIBELLE di briganti e subalterni


«Erano le 10 di sera, pioveva a dirotto ed un violentissimo temporale accompagnato da forte vento, da tuoni e lampi, favoriva maggiormente l'operazione, permettendo ai soldati di potersi avvicinare inosservati al luogo sospetto; da qualche tempo si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si perdeva la speranza di rinvenire i briganti, quando alla guida [Giovanni De Cesare, cugino di Michelina] venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona. […] Dopo aver scorto due briganti appoggiati agli alberi secolari, il capitano Cazzaniga si gettò all'attacco: afferratone uno pel collo, lo stramazza al suolo e con lui addiviene ad una lotta a corpo a corpo, finché venne dato ad un soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere […] Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, ed il compagno che con lui s'intratteneva, appena visto l'attaccò, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pizzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s'imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato. Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina De Cesare druda del Guerra […]»

da Fulvio D'Amore, Michelina Di Cesare, brigantessa per amore. Le gesta eroiche della brigantessa tra Campania, Lazio, Abruzzo e Molise (1862-1868), Controcorrente edizioni, 2012, p. 352.

Cfr. anche Archivio di Stato di Caserta,PrefetturaGabinetto, b. 273, fasc. 3064, Comando Generale delle Truppe per la Repressione del Brigantaggio nelle Provincie di Terra di Lavoro, Aquila, Molise e BeneventoDistruzione della Banda di GuerraCaserta 6 Settembre 1868


- Nata poverissima a Caspoli, frazione di Mignano Monte Lungo, nella provincia di Terra di Lavoro, oggi in provincia di Caserta, Michelina Di Cesare ebbe un'infanzia disagiata. Nel 1862 conobbe Francesco Guerra, ex soldato borbonico e disertore verso l'esercito italiano, il quale si diede alla macchia aggregandosi alla banda di Rafaniello, fino a diventarne capo nel 1861 alla morte di costui. Michelina ne divenne la donna e in seguito lo raggiunse in clandestinità. La banda di Michelina, talvolta singolarmente, talvolta in unione ad altre note bande locali, operò per parecchi anni (dal 1862 al 1868) nel territorio tra le zone montuose di Mignano e i paesi del circondario, compiendo assalti e sequestri. Nel 1868 fu inviato in quelle zone il generale Emilio Pallavicini di Priola con pieni poteri per dare una stretta decisiva alla lotta contro il brigantaggio. All'azione armata il Pallavicini seppe efficacemente aggiungere le ricompense per le delazioni e le spiate, e fu proprio una spia che fece sorprendere nel sonno Michelina e il suo uomo. La donna venne prima ferita dal medico del Battaglione mentre tentava di fuggire, per poi essere finita da un gruppo di soldati.

I loro corpi, messi a nudo, furono esposti nella piazza centrale di Mignano a monito della popolazione locale.
Era il 30 agosto del 1868.


- La guerra al brigantaggio fu condotta anche con i media, facendo un uso capillare ed esteso della fotografia, che in quegli anni conosceva le sue prime diffusioni su larga scala. I fotografi al seguito delle truppe unitarie venivano chiamati sul posto della cattura o a seguito dell'uccisione di briganti.

Le informazioni riprese da Wikipedia sono riprese da e verificate su:

 - Maurizio Restivo, Ritratti di Brigantesse, Manduria (TA), Piero Lacaita Editore, 1997.

- Valentino Romano, Brigantesse, Napoli, Controcorrente Edizioni, 2007.


A Michelina Di Cesare il cantautore Eugenio Bennato ha dedicato la canzone "Il sorriso di Michela".


Queste e altre foto nella sezione “studi culturali“ della pagina Pinterest dei Subaltern studies Italia

https://www.pinterest.it/ferdinandodubla/subaltern-studies-italia/

 


(a cura di Ferdinando Dubla per @Subaltern studies Italia)









giovedì 15 luglio 2021

Come morì il brigante Ciro Annicchiarico

 

STORIE DAL SUD RIBELLE di briganti e subalterni




di Mario Monti, da "I briganti italiani", vol.1 - Nel Regno delle Due Sicilie 1814-1820, Longanesi, 1971, pp.311/312.
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Morto era da un pezzo, ormai non gli rimaneva che superare la parte bruta e meccanica di divenirlo col suo corpo. Guardò i soldati dai volti turbati e tesi che si apprestavano a fucilarlo e domandò all'ufficiale di poterli guardare anche al momento del fuoco! Quando anche questa sua ultima e modesta richiesta gli fu negata, alzò lievemente le spalle e si bendò da solo.

Il vento soffiava teso e fastidioso nella piazza, sarebbe durato ancora per molto, ma, come in un giorno lontano, anche oggi non importava gran che ad Annichiarico.

Quando cadde a terra e il frastuono della fucileria morì tra le case, una figura nera si staccò da un androne dove si riparava e s'avanzò. Chinandosi sul cadavere ancora caldo, gli recise la testa. Sarebbe stata esposta in un'apposita gabbia metallica per due anni nella pubblica piazza del paese del brigante ad ammonire e a scoraggiare quanti avessero pensato di seguire il suo esempio.
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Il brigantaggio salentino nel corso dei secoli ha dato vita sia al semplice banditismo, ma anche a movimenti di ribellione ideologica e lotta politica, come è stato per il brigantaggio in generale dell’Italia meridionale pre e post unitaria. Ciro Annicchiarico detto Papa Giru è stato un celebre brigante preunitario pugliese (nato a Grottaglie in provincia di Taranto), ebbe una vita rocambolesca, passando da prete a brigante; il famoso sacerdote/brigante la cui esistenza non solo ha scritto le pagine della storia dei primordi del brigantaggio nell’area salentina, ma è egli stesso un personaggio complesso ed ambiguo che oscillò con molta disinvoltura tra la Carboneria ed i Borbone, tra la Chiesa e la Massoneria, tra la vendetta o la violenza e la difesa delle aspirazioni sociali del popolo. Nato il 15 dicembre 1775 a Grottaglie in provincia di Taranto, morì fucilato a Francavilla d’Otranto (la attuale Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi) il 18 febbraio 1818 dopo una vera e propria campagna militare condotta dal generale Borbonico Richard Church (irlandese), [da Bel Salento - arte, storia e cultura della "Terra dei due mari", http://belsalento.altervista.org/]

Biblio:

- Antonio Lucarelli: Il brigantaggio politico del mezzogiorno d'Italia dopo la seconda restaurazione Borbonica (1815-1818) Gaetano Vardarelli e Ciro Annicchiarico, Laterza, 1942

- Rosario Quaranta: La vera storia del prete brigante. Don Ciro Annicchiarico (1775 - 1818), Edizioni del Grifo, 2005

- Grottaglie è il paese di mio padre, che mi riportò la vox populi di “Papa Giru” ancora ai suoi tempi con un misto di terrore e ammirazione. Sentimenti che permangono ancor oggi, nella sua trasformazione da leggenda nera a mito. Il mito del Sud che non si arrende, ribelle ad ogni potere, a cui si recide la testa per non parlare, per non pensare. - fe.d.

Ebbe stretti rapporti personali con autori come Henry Miller, Isaac Bashevis Singer e Bertrand Russell. La grande passione che lo accompagnerà per tutta la vita fu l'epopea del West americano e soprattutto la storia dei pellirosse, da cui nasceranno la pubblicazione italiana di autori americani specializzati nel Western come Zane Grey e Louis L'Amour. Nel 1956 successe a Leo Longanesi nella direzione editoriale della Casa editrice Longanesi & C., che era stata fondata nel 1946 da suo padre Giovanni, con lo stesso Longanesi. Sua, tra le altre, l'importantissima iniziativa di creare quella che fu probabilmente la prima collana italiana di tascabili popolari per edicola, denominata Pocket Longanesi e lanciata contemporaneamente agli Oscar Mondadori. La sua attività presso la Longanesi & C. durò fino alla fine del 1979.

papa Ciro: https://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Ciro

Ciro Annichiarico, il brigante Papa Giru (1775/1817)


Antonio Lucarelli: Il brigantaggio politico del mezzogiorno d'Italia dopo la seconda restaurazione Borbonica (1815-1818) Gaetano Vardarelli e Ciro Annicchiarico, Laterza, 1942

Rosario Quaranta: La vera storia del prete brigante. Don Ciro Annicchiarico (1775 - 1818), Edizioni del Grifo, 2005


P.zza San Francesco di Paola (Grottaglie, TA)




giovedì 8 luglio 2021

Alle origini dei Subaltern Studies: come nacquero dai margini di Gramsci

 

Ranajit Guha: Omaggio a un maestro - L’uso di Gramsci nei Subaltern studies indiani

 

 [la paragrafazione è nostra --- Subaltern studies Italia]

 

  • L'influenza internazionale di Gramsci 

 La Fondazione Gramsci mi ha fatto un grande onore, invitandomi a parlare dell'influenza di Gramsci in India. Io posso farlo soltanto come un allievo che rende omaggio a un maestro: perché questo è Gramsci, per noi che abbiamo ideato e realizzato il progetto dei Subaltern Studies. Nella relazione tra allievi e maestro, l'influenza agisce in un processo a doppio senso, nel quale sono attive entrambe le parti. E’ per questo che una buona lezione porta beneficio all'allievo che partecipa, ma non lascia tracce nello studente che rimane indifferente. Sotto questo aspetto, l'influenza somiglia un po' a quello che i biologi chiamano «adattamento». Gramsci stesso usa questo termine come metafora quando afferma che la continuità può creare una tradizione sana se il popolo può partecipare attivamente a quello che egli definisce «sviluppo organico». Secondo Gramsci, questo processo “è un problema di educazione delle masse, della loro "conformazione" secondo le esigenze del fine da raggiungere” (Quaderno 6 § 84, Q, p. 757). Un tempo le scienze biologiche consideravano l'adattamento un fenomeno provvidenziale strettamente circoscritto ad alcuni ecosistemi secondo uno schema preordinato; dopo Darwin, è stato riconosciuto come un processo del tutto casuale, nel quale un organismo si adatta in maniera contingente dovunque abbia l'opportunità di sopravvivere e riprodursi. Questa contingenza basta, da sola, a spiegare perché il pensiero gramsciano sia fiorito meglio in paesi lontani che nel suo continente di origine. Ma anche in India, con tutto il successo che ha incontrato, non si è radicato dove ci si sarebbe aspettati, ma in un contesto del tutto diverso. Infatti, sfidando ogni prevedibilità, ha scelto per germogliare e propagarsi un progetto accademico come quello dei Subaltern Studies, invece che i due partiti comunisti ufficiali.

 

  • Partiti comunisti indiani e movimento Naxal

 Particolare ancora più ironico, il progetto non aveva neppure la sua sede nel subcontinente, pur essendo profondamente indiano per spirito e obiettivi. Nel nostro profondo desiderio di imparare da Gramsci, siamo stati del tutto autonomi e non abbiamo alcun debito verso i partiti comunisti tradizionali. Questi si erano scissi nel 1964, dando vita al Partito comunista indiano (PCI) e al Partito comunista indiano marxista (PCIM), l'uno allineato sulle posizioni di Mosca, l'altro di orientamento più radicale, filocinese. Nessuno dei due aveva posto per Gramsci nella sua linea politica e nei suoi programmi. Anzi, il nome di Gramsci era praticamente sconosciuto tanto alle gerarchie quanto alle rispettive basi, e nulla prova che i dirigenti di entrambi i partiti tenessero granché conto della sua vita e della sua opera fino al 1964. A quella data, alcuni intellettuali ai margini del più piccolo e debole PCI si interessarono al pensiero gramsciano, ma con scarse conseguenze per la linea filosovietica del partito. Il nostro progetto di Subaltern Studies si è tenuto a distanza dall'uno e dall'altro partito, che ai nostri occhi rappresentavano un'estensione liberale di sinistra dell'élite al potere. Non che fossimo apolitici o anticomunisti. Tutt'altro: nel nostro tentativo di elaborare una critica radicale al colonialismo e all'impronta colonialista rimasta nello studio della storia e nella società dell'Asia meridionale, ci consideravamo marxisti. Ci opponevamo ai due partiti comunisti ufficiali per l'uso opportunistico e dogmatico del marxismo che facevano. Le nostre simpatie andavano al movimento contadino che si ispirava alla rivoluzione cinese e alle idee di Mao Tse-tung. Noto come movimento Naxal (da Naxalbari, il distretto rurale dove si era formato), esso fu schiacciato dagli sforzi congiunti del Congresso e dei due partiti comunisti in una serie di feroci operazioni repressive tra il 1968 e il 1971. Pur sconfitto dal punto di vista organizzativo, il movimento Naxal ha lasciato una profonda eredità di dubbi e interrogativi. Dagli anni Settanta in poi, gli intellettuali indiani hanno fatto un uso creativo di quell'eredità in molti campi, dalla letteratura alle arti sceniche, alla storia e alle scienze sociali. Il nostro progetto dei Subaltern Studies è riconosciuto come una delle forze trainanti all'interno di quell'ampia formazione intellettuale. Ciò che rese il movimento Naxal così potente nella sua breve esistenza, fu uno scontento diffuso a livello nazionale per la formazione politica della nuova Repubblica Indiana che assunse il potere nel 1947, quando gli inglesi lasciarono finalmente il paese. I disastri degli anni Quaranta - la guerra, la carestia, la divisione del subcontinente in due Stati sovrani, che provocò l'esodo di centinaia di migliaia di profughi e un conflitto settario passato alla storia per stupri di massa e stragi senza eguali in questa parte del mondo - ebbero un impatto di cui la popolazione continuò a soffrire per decenni dopo l'indipendenza. Mentre i poveri delle città e delle campagne, compresa la classe media ridotta alla povertà, si erano aspettati dal nuovo governo dell'India indipendente un miglioramento della loro condizione, l'élite al potere rappresentata dal Partito del Congresso era fin troppo occupata a consolidare il suo controllo sul patrimonio ereditato dagli inglesi. Dava per scontato il consenso del popolo che aveva formato gli eserciti non violenti delle lotte antimperialiste, una campagna dopo l'altra, sin dai primi anni del XX secolo. Ma quando i padroni coloniali furono costretti ad andarsene e l'occupazione ebbe finalmente termine, le legioni smobilitate furono dimenticate, e i generali si diedero sùbito a manipolare l'apparato statale per assicurare gli interessi delle classi e delle comunità che rappresentavano. Inizialmente i comunisti e alcuni degli altri gruppi politici di sinistra tentarono di resistere a quel processo, ma con scarso successo. L'élite al potere piegò ogni resistenza ricorrendo abbondantemente all'esercito, alla polizia e a leggi draconiane, ogni resistenza ricorrendo abbondantemente all'esercito, alla polizia e a leggi draconiane, poi convinse i suoi critici ad accontentarsi di stare all'opposizione in parlamento. Il trucco funzionò, ma non abbastanza da ridurre al silenzio l'opposizione che cresceva al di fuori delle aule del parlamento. Alla fine degli anni Sessanta, la miseria aveva portato poveri e disoccupati a una disperazione tale che sarebbe bastata una scintilla per farli esplodere. Quella scintilla venne dal movimento contadino del Naxalbari. Iniziò come una semplice rivolta locale contro i proprietari terrieri, ma presto divenne il segnale per insurrezioni su piccola scala in altre zone delle campagne. Non è meno significativo il fatto che si diffuse anche nelle zone urbane. La forza di questo movimento nacque dalla delusione di due generazioni nei confronti della classe di governo e degli elementi dominanti della società, vale a dire dell'autorità a tutti i livelli. La generazione più anziana era delusa perché i governanti non avevano mantenuto le promesse di un futuro migliore che, quando erano a capo del movimento nazionalista, avevano usato per mobilitare le masse a combattere per l'indipendenza. La generazione più giovane era delusa perché i partiti, il governo - a dire la verità, tutte le istituzioni, dai consigli di villaggio e dai municipi fino alle scuole e alle fabbriche, dove l'autorità era rappresentata da uomini e donne più anziani - non avevano saputo assicurare loro un futuro meno cupo del passato in cui avevano trascorso l'infanzia. Da questo duplice scontento generazionale trassero forza anche i Subaltern Studies.

 

  • Le origini dei Subaltern Studies

 Nel gruppo editoriale, formato dai principali curatori della rivista omonima, io rappresentavo la generazione più anziana, gli altri - tutti con almeno venticinque anni meno di me - quella più giovane. Ricordo questo particolare ontologico per indicare come il nostro progetto fosse una parte organica della sua vita e dei suoi tempi, che partecipava al mondo al quale apparteneva e non era semplicemente un punto distaccato di osservazione accademica. Figlio dell'esperienza dotata di una formazione teorica, era empaticamente politico - un particolare che scosse il sistema accademico che fin dal XIX secolo era stato, in Inghilterra come in India, il custode degli studi sull'Asia meridionale. Cominciammo a lavorare insieme alla metà degli anni Settanta, quando la rivolta naxalita si era chiaramente affievolita, anche se le questioni che aveva sollevato erano rimaste senza risposta. Cercammo di collocare quelle questioni nel contesto del passato coloniale. La fine del dominio coloniale, infatti, non aveva originato nulla per rimpiazzare o modificare sostanzialmente il principale apparato del dominio coloniale: lo Stato, che fu trasferito intatto al nuovo regime. Di conseguenza, quando il potere passò nelle mani degli indiani ma la miseria del vecchio regime proseguì immutata sotto il nuovo, la situazione del presente rimandava direttamente all'immediato passato. Questo collegamento apriva un ampio spazio, grazie al quale le nostre domande e preoccupazioni poterono coagularsi intorno ai temi contigui dello Stato e della società civile. Su entrambi la lezione di Gramsci ci offriva un aiuto prezioso; tuttavia, per poterne beneficiare, dovevamo adattarla all'esperienza indiana, che, naturalmente, era molto diversa da quella italiana, e più in generale occidentale, su cui quelle riflessioni si basavano.

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da: Gramsci le culture e il mondo, a cura di Giancarlo Schirru, Viella, 2009, in collaborazione con Fondazione Istituto Gramsci onlus e International Gramsci society Italia, cit. da 1ed. e.book 2011 

 (traduzione di Cristina Coldagelli)

(1) continua





mercoledì 7 luglio 2021

I "fraintendimenti creativi" e il laboratorio dialettico di Gramsci negli studi internazionali (Peter D.Thomas)

 

Cosa rimane dei subalterni alla luce dello “Stato integrale”? (Peter D. Thomas)

International Gramsci Journal No. 4 (2nd Series / Seconda Serie) June / Giugno 2015

- in questo saggio Peter D.Thomas affronta nell'introduzione il tema della traduzione, traducibilità e interpretazione degli scritti di Gramsci in relazione allo sviluppo internazionale dei Subaltern studies, critica postcoloniale e studi culturali. - Subaltern studies Italia

extract.: pp.83/85

1. Introduzione

Nei Quaderni del carcere Antonio Gramsci sviluppa un nuovo concetto di classi o gruppi
sociali subalterni, utilizzato per caratterizzare tutti quei gruppi sociali che sono soggetti a
forme di comando e di direzione politica e sociale imposto da altre classi, dominanti o
dirigenti. Convertito al singolare, il concetto di “subalterno” è una di quelle nozioni
originariamente gramsciane, che ha goduto grande successo a livello internazionale,
soprattutto negli ultimi anni. Esso ha dato origine a un intero campo di ricerca accademica –
i Subaltern Studies – affermando Gramsci come uno dei suoi “padri-teorici” più significativi.
Oggi questo concetto gode di una diffusione disciplinare e di un riconoscimento diffusi tra
giovani studiosi e studiose, in maniera paragonabile al concetto di egemonia; addirittura, in
alcuni casi, il concetto di “subalterno” è considerato ancora più significativo rispetto al
concetto, ad esso integralmente connesso, di egemonia, dal quale è talvolta visto come
distinto ed indipendente, se non addirittura con esso posto in antagonismo.
Ma non è stato sempre così. Infatti, l’attenzione al ruolo del concetto di classi o
gruppi sociali subalterni nei Quaderni del carcere è un evento relativamente recente, se lo
paragoniamo alle discussioni precedenti sulle nozioni gramsciane di intellettuali, egemonia, e
a quelle sulla sua nozione distintiva di Stato integrale (si tratta, in quest’ultimo caso, di una
nozione che si è cominciata a discutere relativamente tardi, a partire dalla metà degli anni
Settanta, e che si potrebbe dire continua ad essere ampiamente trascurata anche oggi). In
Italia la discussione sul concetto di classi subalterne e sulle categorie ad esso connesse, in
particolare quella di “popolare”, iniziò alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni
Cinquanta, coinvolgendo tra, gli altri, De Martino e Luporini (1). Tuttavia, con alcune
eccezioni, essa non riuscì a trovare un pubblico internazionale più ampio. Le interpretazioni
più diffuse del concetto di subalterno, in effetti, vengono avanzate nei primi anni Ottanta,
quando Ranajit Guha e altri studiosi fondarono il progetto di ricerca collettiva dei Subaltern
Studies, destinato a una lunga stagione di riconoscimenti e polemiche che continuano ancora
oggi (si veda per esempio la critica recente di Vivek Chibber) (2).
Un’ulteriore fase, decisiva, nella discussione fu segnata dal famoso intervento del
1988 di Gayatri Spivak, Can the Subaltern Speak?, che stabilì le coordinate per una diffusione
ancora più ampia (3). Da allora vi è stata un’espansione internazionale degli studi subalterni in
diverse aree geopolitiche, dall’America Latina, all’Irlanda a proposito della diaspora
irlandese, alle iniziative più recenti nel sud-est asiatico (4).

Lo studioso o la studiosa dei Quaderni del carcere probabilmente saluterà questa
accoglienza con una certa ambivalenza, sperimentando, da un lato, gioia per il fatto che i
concetti di Gramsci continuano a trovare un pubblico così ampio e variegato, soprattutto in
contesti interessati ai dibattiti teorici e politici del presente; ma, dall’altra parte, anche un
certo senso di perplessità, se non di delusione. Infatti, sebbene vi sia stata una discussione
intensa sul concetto di “subalterno”, discussione che rivendica un’affiliazione più o meno
distante con le riflessioni dello stesso Gramsci, coloro che hanno provato ad affrontare le
sfide immense e a cogliere la ricchezza degli scritti carcerari di Gramsci, non possono fare a
meno di sentire che la maggior parte di questa produzione teorica si basa su una conoscenza
molto limitata dei testi o dei concetti gramsciani. Di fronte a questa discrepanza, nulla
sarebbe più facile, per lo studioso o la studiosa gramsciani, che dichiarare tali letture
semplicemente sbagliate, prima di intraprendere il compito laborioso ma ingrato di
evidenziare i loro errori e limiti numerosi, a cominciare dal fatto che, come ho notato prima,
mentre i dibattiti recenti hanno parlato per lo più del sostantivo al singolare (“il
subalterno”), Gramsci usa il termine per lo più come un attributo, e al plurale. Lo studioso e
studiosa gramsciani potrebbe perciò tornare con buona coscienza al proprio ambito
specializzato di ricerca, mentre la discussione intellettuale generale continua altrove.
Una tale risposta tuttavia, sarebbe sbagliata sia da un punto di visto sostanziale, sia
strategico. Come ha sostenuto Guido Liguori, nonostante, o forse anche a causa dei molti
errori contenuti nella recezione generale delle riflessioni di Gramsci sulla subalternità, queste
letture filologicamente naïve hanno almeno avuto il merito di attirare l’attenzione su un
concetto – o meglio, una serie di concetti, o un campo semantico – che in precedenza non
era stato oggetto di esame critico (5). Questo, per dire che ora siamo in grado di riconoscere
come filologicamente errati molti degli usi di Gramsci da parte del collettivo dei Subaltern
Studies o di Spivak, tra molti altri. Paradossalmente, però, siamo in grado di farlo, almeno in
parte grazie all’attenzione che essi hanno prestato al concetto, spingendo studiosi e studiose
gramsciane e molti altri a tornare sui testi di Gramsci e a rileggerli in modo nuovo.
Qualunque siano le loro mancanze, è stato grazie a questi “fraintendimenti” che i Quaderni
del carcere oggi possono essere visti, da un certo punto di vista, come una immensa
enciclopedia delle forme di subalternità generate all’interno della modernità politica e,
ancora più importante, come una enciclopedia degli abbozzi di una strategia per il loro
superamento.
In questo senso, si è trattato di “fraintendimenti creativi”, che, sebbene involontariamente, hanno offerto l’opportunità di un chiarimento filologico e storico del ruolo di questi concetti nel dinamismo del laboratorio dialettico di Gramsci, sfida, quest’ultima, che è stata affrontata in molti importanti lavori recenti, come ad esempio quelli del tristemente scomparso Giorgio Baratta, di Buttigieg, Green, Zene e Modonesi, per citare solo alcuni dei contributi principali (6). Strategicamente, questa congiuntura rappresenta per gli studiosi di Gramsci un’opportunità di dimostrare i modi in cui una lettura filologicamente informata dei Quaderni del carcere può essere in grado non solo di indicare “quello che Gramsci realmente intendeva” con la nozione di gruppi sociali subalterni, ma anche i modi in cui un’indagine filologica dei suoi concetti potrebbe essere in grado di fornire una prospettiva chiarificatrice per questo e altri dibattiti più ampi.

note 
1 La discussione si è svolta in particolare sulla rivista “Società”. Cfr. ora Antropologia culturale e questione meridionale, a cura di C. Pasquinelli, Firenze, La Nuova Italia, 1977.
2 Cfr. in particolare R. Guha, Dominance without Hegemony: History and Power in Colonial India, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1997 (1989) e V. Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, London, Verso, 2013.
3 G. C. Spivak, “Can the subaltern speak?”, in Marxism and the Interpretation of Culture, ed. by C. Nelson and L. Grossberg, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 1998, pp. 271-313.
4 Per resoconti della discussione, cfr. J. A. Buttigieg, “Sulla categoria gramsciana di ‘subalterno’”, in
Gramsci da un secolo all’altro, a cura di G. Baratta e G. Liguori, Roma, Editori Riuniti, 1999; J. A. Buttigieg, “Subalterno, subalterni”, in Dizionario gramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Roma, Carocci, 2009; M. E. Green, “Gramsci Cannot Speak: Presentations and Interpretations of Gramsci’s Concept of the Subaltern”, Rethinking Marxism, XIV, 2002, n. 3, pp. 1-24; Id., “Rethinking the subaltern and the question of censorship in Gramsci’s Prison Notebooks”, Postcolonial Studies, XIV, 2011, n. 4, pp. 387-404;
G. Liguori, “Tre accezioni di ‘subalterno’ in Gramsci”, Critica marxista, 2011, n. 6, pp. 33-41.
5 G. Liguori, “Tre accezioni di ‘subalterno’ in Gramsci, cit., p. 35.
6 G. Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Roma, Carocci, 2007; Buttigieg, “Sulla categoria gramsciana di ‘subalterno’”, cit., e “Subalterno, subaltern”, cit.; Green, “Gramsci Cannot Speak”, cit. e “Rethinking the subaltern and the question of censorship in Gramsci’s Prison Notebooks”, cit.; C. Zene, “Gramsci ve madunlarim dini: güney asya’daki dalitler (dokunulmazlar) hakkinda bir örnek çalişma”, felsefelogos, XLIV, 2012, n. 1, pp. 39-74; Id., “Self-Consciousness of the Dalits as “Subalterns”: Reflections on Gramsci in South Asia”, Rethinking Marxism. A Journal of Economics, Culture & Society, XXIII, 2011, n. 1, pp. 83-99; M. Modonesi, Subalternidad, antagonismo, autonomía. Marxismo y subjetivación política, Buenos Aires, Clacso/Prometeo Libros, 2010.

abstract e download del saggio di Peter D.Thomas




Member
School of Social Science

Visitor
School of Social Science

University of Amsterdam
Ph.D.
2008

Peter Thomas’s research at IAS focuses on processes of authorization, translation, globalization, and condensation in the development of subaltern studies, from its origins in a creative reading of Antonio Gramsci’s political thought, through its subsequent international diffusion, to the contemporary contestation of its legacies.


‘SUBALTERNIST’, il problema dell’interpretazione di Gramsci

 

TRADUZIONE, TRADUCIBILITA’ e INTERPRETAZIONE

degli scritti di Gramsci [maggiormente prima dell'ottimo lavoro di Joseph Buttigieg (Columbia University Press, 1992-2007)] non riguarda solo i Subaltern studies, ma anche la critica postcoloniale e gli studi culturali (Stuart Hall). Ma, a nostro avviso, appunto, è l’ottica degli studi a prevalere, a parte la complessa traducibilità delle categorie gramsciane e le differenziazioni di impostazione fra scuole di pensiero attigue ma diverse: sono i ‘subalternist’ che vanno oltre “l’acribia filologica” per impostare una diversa narrazione e interpretazione, aprendo orizzonti conoscitivi non più ’mediati’ dall’egemonia delle classi dominanti. - fe.d.



Prima dell’edizione curata da Joseph Buttigieg <Prison Notebooks> (Columbia University Press, 1992-2007), i Quaderni dal carcere di Gramsci erano conosciuti in lingua inglese tramite miscellanee, come nel 1971 la pubblicazione di <Selections from Prison Notebooks> [Intl Pub Co Inc], ancora oggi molto conosciuta e utilizzata (best seller vendite Amazon). Per cui gli autori dei Subaltern studies e della critica postcoloniale formano la loro interpretazione dei concetti gramsciani su questi scritti e su traduzioni difficoltose. Ma, a mio avviso, a parte la complessa traducibilita’ delle categorie gramsciane, è l’ottica degli studi a prevalere: i ‘subalternist’ vanno oltre “l’acribia filologica” per impostare una diversa narrazione e interpretazione, aprendo orizzonti conoscitivi non piu’ ’mediati’ dall’egemonia delle classi dominanti. 
Ha scritto Peter D. Thomas, in un saggio, [Cosa rimane dei subalterni alla luce dello “Stato integrale”? , International Gramsci Journal No. 4 (2nd Series / Seconda Serie) June / Giugno 2015]:
“sebbene vi sia stata una discussione intensa sul concetto di “subalterno”, discussione che rivendica un’affiliazione più o meno distante con le riflessioni dello stesso Gramsci, coloro che hanno provato ad affrontare le sfide immense e a cogliere la ricchezza degli scritti carcerari di Gramsci, non possono fare a meno di sentire che la maggior parte di questa produzione teorica si basa su una conoscenza molto limitata dei testi o dei concetti gramsciani. Di fronte a questa discrepanza, nulla sarebbe più facile, per lo studioso o la studiosa gramsciani, che dichiarare tali letture semplicemente sbagliate, prima di intraprendere il compito laborioso ma ingrato di evidenziare i loro errori e limiti numerosi, a cominciare dal fatto che, come ho notato prima, mentre i dibattiti recenti hanno parlato per lo più del sostantivo al singolare (“il subalterno”), Gramsci usa il termine per lo più come un attributo, e al plurale. Lo studioso e studiosa gramsciani potrebbe perciò tornare con buona coscienza al proprio ambito specializzato di ricerca, mentre la discussione intellettuale generale continua altrove.”

- ora siamo in grado di riconoscere come filologicamente errati molti degli usi di Gramsci da parte del collettivo dei Subaltern Studies o di Spivak, tra molti altri. Paradossalmente, però, siamo in grado di farlo, almeno in parte grazie all’attenzione che essi hanno prestato al concetto, spingendo studiosi e studiose gramsciane e molti altri a tornare sui testi di Gramsci e a rileggerli in modo nuovo. Qualunque siano le loro mancanze, è stato grazie a questi “fraintendimenti” che i Quaderni del carcere oggi possono essere visti, da un certo punto di vista, come una immensa enciclopedia delle forme di subalternità generate all’interno della modernità politica e, ancora più importante, come una enciclopedia degli abbozzi di una strategia per il loro superamento.
Peter D. Thomas, Cosa rimane dei subalterni alla luce dello “Stato integrale”?, International Gramsci Journal No. 4 (2nd Series / Seconda Serie) June / Giugno 2015

in foto cop. di <Selection Prison notebooks> del 1971 e Joseph Buttigieg (1947/2019)