Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

Powered By Blogger

lunedì 24 dicembre 2018

Marx e una certa tradizione filosofica

A Pavia l’ennesima dimostrazione di quanto la ricerca accademica sia arretrata nello studio e nella comprensione di Marx.

di Edoardo Acotto

Si è svolto a Pavia, il 13 e 14 dicembre, un convegno internazionale nel bicentenario della nascita di Karl Marx intitolato “Marx e la tradizione filosofica”. I relatori hanno affrontato diversi aspetti del rapporto di Karl Marx con la storia della filosofia. La scelta degli organizzatori è stata quella di limitare rigorosamente ciascun intervento agli autori letti, studiati e pensati da Marx: una scelta che ha accentuato l'effetto di forzoso confinamento entro il recinto della storiografia filosofica accademica.
In questo modo il pubblico, composto per lo più di studenti universitari, ha potuto ascoltare relazioni su “Marx su Democrito ed Epicuro” (Peter D. Thomas), “Marx e Machiavelli” (Fabio Frosini), “Marx e Spinoza” (Vittorio Morfino), “Marx e Hume” (Emilio Mazza), “Marx e il materialismo settecentesco” (Paola Rumore), “Marx e Kant” (Manuel Disegni), “Marx e Hegel” (Roberto Fineschi), “Marx e la sinistra hegeliana” (Douglas Moggach), “Marx e Feuerbach” (Giuseppe Invernizzi).
Unica eccezione alla struttura “Marx e...”, la relazione iniziale di Luca Fonnesu, docente di storia della filosofia a Pavia, che ha trattato il tema “teoria e prassi” alla luce della genealogia storica del concetto di prassi, che trova in Kant, in particolare nell'introduzione alla Critica del Giudizio, il suo vero momento iniziale poi ereditato da Hegel e gli hegeliani.
Il convegno pavese è stata un'occasione importante per fare il punto sulla conoscenza storiografica dell'opera e del pensiero marxiani alla luce della cosiddetta MEGA 2, la seconda Marx-Engels Gesamtausgabe, ossia la nuova edizione tedesca di tutte le opere di Marx e Engels iniziata nel 1975, articolata in quattro sezioni (solo la seconda è stata completata) e 48 volumi.
Tra i relatori, solo alcuni possono essere considerati dei “marxologi” (Fineschi, Frosini, Morfino) e se qualcuno tra i presenti era marxista, in quel contesto la cosa non è emersa (se non dalle domande di qualche studente). Sembrava insomma di ritrovarsi in un ambiente sterilizzato e asettico dove fosse d'uopo sottolineare la presunta avvenuta fine del marxismo politico e la necessaria distanza da esso degli studiosi perbene, proprio nel momento in cui si analizzavano col bisturi alcune sezioni anatomiche e nervature del pensiero marxiano. Non per nulla, in apertura dei lavori, è stata evocata la specificità umanistica dell'ateneo pavese che con docenti come Maria Corti e Cesare Segre ha dato al Novecento una lezione magistrale di filologia del testo.
Ma può Marx essere ridotto a mero oggetto filologico e storiografico? Certamente interessante è l'analisi, possibile proprio grazie alla MEGA 2, dei quaderni di lavoro di Marx, che testimoniano di letture precise di autori come Machiavelli, Bruno, Spinoza... Tuttavia è certamente lecito domandarsi quale sia la rilevanza effettiva di questi studi di dettaglio: sapere che Marx ha trascritto in un certo ordine alcuni brani del Tractatus theologico-politicus di Spinoza ci permette di comprendere qualcosa di universalea proposito del pensiero del Moro o non si rischia piuttosto di cadere in una sorta di pettegolezzo storiografico?
A questo sospetto si aggiunge un po' di stupore per il fatto che in due momenti cardinali del convegno, all'apertura dei lavori e alla chiusura, rispettivamente dal professor Francioni e dal professor Cospito, si è sostanzialmente detto che il marxismo politico deve oggi essere considerato un proverbiale cane morto: entrambi i docenti hanno sostenuto, come se si trattasse di evidenza per tutti nota e indiscutibile, che sono ormai irrimediabilmente trascorsi gli anni in cui, a Pavia e altrove, Marx era autore imprescindibile, e moltissimi corsi universitari erano incentrati sul suo pensiero e la sua opera. Da questa premessa non solo discutibile (ancorché non discussa) ma in gran parte falsa, i due relatori traevano inoltre la conclusione che solo ora si possa finalmente iniziare a studiare scientificamente Marx, poiché negli anni dell'egemonia marxista l'interesse propriamente filosofico per il pensatore di Treviri era assente e surrettiziamente sostituito da un mero interesse politico.
Dopo aver così nettamente separato filosofia e politica, scindendo teoria e prassi, gli accademici affermavano implicitamente la superiorità del primo termine sul secondo, come se finalmente la politica fosse respinta nel suo sozzo porcile senza più lordare la bella riflessione astratta e la pura teoresi. Il tutto senza che nemmeno si pensasse di poter aprire lo spazio per una riflessione collettiva (un convegno filosofico potrebbe ben essere anche questo, e di sicuro lo era in quei lontani anni Settanta, più volte evocati come un'epoca buia di errore e pregiudizio) sul rapporto tra la politica del nostro presente e ciò che il marxismo può ancora offrire alla teoria e alla prassi dei tanti soggetti, individuali e collettivi, che non si rassegnano a sottoscrivere la violenta narrazione dominante consustanziale all'ordine capitalista: populismo contro democrazia liberale, sovranismi contro Unione Europea, e tutto il resto è barbarie.
A titolo di esempio, due relatori hanno citato l'Enciclopedia del marxismo, opera tradotta da Einaudi tra il 1978 e il 1982: se il professor Invernizzi ha ricordato con una certa simpatia la folla di studenti che nelle aule dell'università di Milano assisteva alla presentazione della traduzione dei Grundrisse e dell'Enciclopedia summenzionata, il professor Cospito, nelle conclusioni del convegno, ha citato l'articolo dalla medesima Enciclopedia dell'importante allievo di Lukács, István Mészáros (“Marx filosofo”), quasi ad attenuare l'incauto giudizio secondo cui proprio negli anni in cui il movimento operaio era egemone l'interesse filosofico per l'autore del Capitale sarebbe stato sostanzialmente assente. Salvo poi affermare, altrettanto incautamente, che l'articolo del filosofo ungherese è datato e completamente superato (da chi, perché e come?) [1].
Molto ci sarebbe poi da dire sui concetti per niente tematizzati nel corso del convegno: classi socialidialettica, rivoluzione, ecc.
In conclusione: il convegno è stata un'occasione interessante per aggiornarsi sull'attuale stato della conoscenza scientifica e accademica dell'opera marxiana, ma ancor più interessante per la sua capacità di produrre nostalgia per gli anni in cui l'uso politico di Marx, oltre all'interesse popolare per il suo pensiero, era egemonico. Anni non così lontani, checché ne pensino i filosofi accademici, e che non sarebbe prudente liquidare come destinati a non ripresentarsi in nuove forme sulla scena dialettica della storia occidentale.

Note
[1] Ricordiamo che István Mészáros è un pensatore marxista di prima grandezza, autore tra l'altro di Oltre il capitale.

venerdì 21 dicembre 2018

Test Invalsi: l’illusione morale di una giustizia che non c’è





Non convince quanto scrive Chiara Saraceno sulle pagine di Repubblica («I test Invalsi per una scuola più giusta»), a commento delle recenti voci su una revisione/fusione degli enti preposti alla valutazione del sistema di Istruzione pubblico.

Non convincono né il titolo – il test strumento di giustizia sociale- né le argomentazioni – gli insegnanti che si rifiutano per principio di essere valutati – che hanno fatto da grancassa alla progressiva trasformazione neoliberale dell’istruzione italiana, in un contesto globale. Le denunce di Saraceno – l’addestramento seriale nelle scuole trasformate in ”testifici”, l’impiego dei test nelle certificazioni individuali degli studenti come biglietto d’ingresso nel mercato del lavoro o nelle Università– non descrivono distorsioni accidentali. Non si tratta di un uso deformato e perfettibile del test, “strumento di giustizia” incompreso, che non gode di simpatie nel mondo scolastico.

Un test censuario, come quello Invalsi, ossia somministrato alla totalità degli studenti dai 7 ai 18 anni, non è un neutro strumento di indagine scientifica, ma uno strumento di regolazione e controllo (accountability) dell’attività educativa, il cui fine è esattamente quello previsto: trasformare l’esito delle prove in una misura dell’apprendimento degli studenti correlata alla qualità delle scuole.

Buon punteggio ai test significherebbe automaticamente buona qualità. D’altra parte a questo serve il “valore aggiunto” che l’Invalsi ha confezionato: a capire quanto “aggiunge” o “sottrae” un istituto – e dunque via via il singolo insegnante – all’apprendimento dei suoi studenti. Si tratta di uno strumento performativo, capace di indurre comportamenti e giudizi di valore, contestato scientificamente e dagli effetti ben noti a chi conosce l’evoluzione dei sistemi di istruzione angloamericani, che premia chi avanza e punisce chi recede (per ora, solo moralmente all’interno della comunità professionale).

Se l’intento fosse quello di “monitorare le disuguaglianze”- impegno nobilissimo condiviso da tanti insegnanti- basterebbero dati statistici raccolti su campioni ben scelti. La somministrazione di massa di test e i questionari di carattere psicometrico (come dimenticare i nuovi quesiti della scorsa primavera sulle “aspettative future” a 10 e 15 anni: avrò abbastanza soldi per vivere? Sono un ragazzo capace di pensare in fretta? Riuscirò a comprare le cose che voglio?) sono invece perfettamente coerenti con la nuova deriva tecnocratica che l’istruzione (non solo italiana) sta attraversando e che tanti denunciano da tempo (si leggano i post di Roars o del gruppo Noinvalsi).

Deriva che poggia, da una parte, sull’illusione razionalista di poter quantificare ogni performance del soggetto-capitalista umano (così lo definisce Roberto Ciccarelli, Il capitale disumano, la vita in alternanza scuola lavoro, Manifestolibri) e, dall’altra, sulla totale delegittimazione del giudizio professionale e della specificità dei contesti, sostituiti da indicatori numerici facilmente comparabili.

Pensare -come sostiene Saraceno -che rifiutare i test standardizzati significhi nascondersi dietro il “velo dell’ignoranza” somiglia a un velo di ipocrisia. Così si strangola la scuola nelle morse di un fallimento di cui è ritenuta unica responsabile. Non è migliorando uno strumento di misura che si modifica il fenomeno che si vuole misurare.

Rossella Latempa, da Il Manifesto del 18 dic 2018


martedì 18 dicembre 2018

Il lungo '68: come riprendere il sentiero interrotto dell’anticapitalismo


SAGGI. «È solo l'inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68», un libro curato da Ilaria Bussoni e Nicolas Martino, edito da Ombre Corte





Movimento storico-politico che ha aperto un mondo, e fatto balenare l’impossibile nella nostra gabbia d’acciaio, il Sessantotto è identificato con l’inizio del neoliberismo, non con la prima opposizione al capitalismo neoliberale. A destra come a sinistra, il Sessantotto – che non coincide con un anno, ma con un processo globale lungo almeno un ventennio – preoccupa ancora perché è il nome di un’opposizione radicale a ciò che si presuppone sia il “reale” in nome di una vita altra e vera; di una militanza per un divenire imprevedibile, drammatico e incommensurabile che coincide con la vita intesa come mezzo di se stessa, non come strumento in mano ad altri; in un pensiero della vita, non in una meditazione sulla morte.

OGGI,COME IERI, il problema è imbrigliare il desiderio e le facoltà dell’essere umano, schierandoli contro il loro stesso soggetto, in una torsione epocale che può portare a desiderare di essere schiavi in nome di una presunta libertà: quella dell’imprenditore di se stesso che promuove il brand dell’Io sul mercato delle identità e dei valori. La rivendicazione di una vita priva di finalità, o apriori, salvo quelli che si danno nell’esperienza per essere superate, è rovesciata nella ricerca di un’autenticità, una comunità originaria, un “popolo”. Una storia del Sessantotto, e delle idee che lo hanno contrastato, come quella di Serge Audier (La pensée anti-68, La Découverte), ha dimostrato invece che questo conflitto è iniziato da subito, cinquant’anni fa, e fa parte di ciò che oggi chiamiamo “Sessantotto”. E si può dire che rappresenti la materia stessa della nostra politica: il rovesciamento nell’opposto delle istanze di emancipazione e liberazione, sempre presenti nel nostro sentire e pensare, è programmaticamente perseguito al fine di neutralizzare, o deviare su tutt’altri obiettivi, il conflitto contro l’alienazione, l’(auto)sfruttamento, la generazione di una conoscenza che è forza produttiva, non solo contemplazione del disagio o celebrazione delle occasioni mancate.

ECCO COSA E’ DIVENTATO il Sessantotto: il nome che indica uno strano conformismo dell’anomalo. Per questo è stato ridotto allo sfoggio di una soggettività consumistica; alla diatriba edipica mamma-papà-figlio; al discorso generazionale di chi cerca un posto sul mercato per i suoi piccoli sogni di imprenditore di se stesso; al discorso reazionario, e infondato, di una presunta superiorità dei “diritti civili” contro i “diritti sociali” oppure a quello di evento minore rispetto alla grande storia del politico con la maiuscola.

È SOLO L’INIZIO. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ‘68, il libro curato da Ilaria Bussoni e Nicolas Martino pubblicato da Ombre Corte (pp.199, euro 18), si sottrae a questo conformismo reazionario e tremebondo. Raccoglie saggi ostinatamente sintonizzati con la carica anti-autoritaria, anti-statale e anti-capitalista oggi lasciata nel lato oscuro della storia. In Claire Fontaine, Marco Scotini, Giuseppe Allegri, Pierre Dardot, Gilda Policastro, Lidia Riviello, Cristina Morini, Ida Dominjanni, Bifo, Andrea Colombo, Benedetto Vecchi, Giovanna Ferrara, Franco Piperno, tra gli altri, in totale 28 autrici e autori, emerge un aspetto unico in questo cinquantenario condotto in tono minore. Si dice che il Sessantotto “è l’inizio del nostro mondo”. La sua attualità consiste nel dimostrare la possibilità di “scioperare dalla paura” (della miseria, della polizia, del patriarcato, di non essere “normali”) e inventare insieme una forma di vita che ribalta il rapporto di forza con il potere che la assoggetta. I riferimenti all’arte, al cinema, alla letteratura e alla musica, oltre che ai movimenti a cominciare da quello delle donne permettono di capire che un movimento non è solo rivolta libertaria, o generazionale, né impero della politica “rivoluzionaria” o “di classe”.

OGNI MOVIMENTO – in questo mondo che è iniziato allora, e il Sessantotto non è stato un’eccezione, ma la prima volta – è in primo luogo una forma di sentire produttivo, riproducibile e tramandabile che ha al centro le facoltà dei soggetti e le loro relazioni. Non solo, dunque, la produzione materiale, la tecnologia, il politico. È ancora oggi, il Sessantotto, un prototipo di politica incarnata, un’etica della vita di chi si conduce criticamente in un mondo ridotto a rapporti servili, devastati dal microfascismo psichico delle passioni tristi o dell’auto-sabotaggio nel “realismo capitalista”.

NON E’UN IDEA PLATONICA, è un’“invenzione politica” alla portata di una prassi, individuale e collettiva imprevedibile e concreta. Il Sessantotto è un “sentiero interrotto”, lo si può riprendere. Anche se viviamo nella “carestia del desiderio”, non è escluso che si possa ricominciare a esprimerlo. Non è volontarismo, è l’opposto. La percezione di un possibile materiale e ideale ci attraversa, già ora, per quello che siamo, e non per quello che dovremmo essere. Oggi questa potenza, invece, è espressa con fatica nel suo opposto, facendoci illudere che la fine sia già arrivata, mentre siamo solo all’inizio. La vita è un rovesciamento delle prospettive. Politica è quella che lo rende desiderabile.

------
recensione apparsa su Il Manifesto del 18 dicembre 2018 a firma di Roberto Ciccarelli

martedì 11 dicembre 2018

LE CONTRADDIZIONI DEL GOVERNO CHE C’E’ E L’OPPOSIZIONE CHE NON C’E’


(..) Tornando ai fatti del giorno, è evidente allora che forze e organizzazioni pienamente corresponsabili di un tale fallimento epocale non possano che affidarsi allo strumento giudiziario. Tuttavia, il rischio più che concreto, visto che la storia è lì a insegnarcelo, non è nel capovolgimento della situazione, ma nell’inasprimento delle contraddizioni politiche e nel rafforzamento del nemico che si intende in modo così avventuroso combattere.
Se queste forze così nuove e così pericolose per la democrazia nascono come risposta a un sistema morente, bisognerebbe combatterle non per resuscitare il morto, ma per affermare che queste forze non sono un’alternativa al sistema morente.
Bisognerebbe allora chiedere al ministro dell’Interno: dov’è l’abolizione della riforma Fornero, visto che nella migliore delle ipotesi sarà sostituita da una “quota 100” che i giovani non vedranno mai a causa della precarietà che non permetterà mai di accumulare i contributi necessari? Dov’è finita la volontà persecutoria che lo aveva contraddistinto all’indomani della tragedia di Genova e che oggi è sepolta sotto un pesantissimo silenzio?
A Di Maio, poi, bisognerebbe chiedere: dove sono finite le proposte di nazionalizzazione della gestione delle autostrade o di Alitalia? Come si può asserire che vi sono state evidenti illegittimità nella gara per la vendita dell’ILVA e lavarsene, contestualmente, le mani, quando invece la Costituzione (art. 42) conferisce grandi poteri in capo al governo per la tutela dell’interesse generale? Dov’è finito il reddito di cittadinanza, visto che – se tutto andrà liscio in sede di manovra – ci ritroveremo con un renziano reddito di inclusione un po’ ampliato nella platea?
E ancora: dov’è finito il conflitto con la Ue sulle materie economiche e sociali, dal momento che vi è un ministro dell’Economia il cui principale impegno è quello di rilasciare interviste rassicuranti per Bruxelles?
Un’opposizione che voglia essere alternativa, inoltre, deve denunciare le cause dei fenomeni migratori in larga misura imputabili all’Occidente stesso e affermare che non può esistere alcun “aiutiamoli a casa loro” se siamo stati e siamo impegnati principalmente a distruggere e colonizzare quelle case.
Di certo, questa affermazione non sarà mai pronunciata da un governo che, chino al volere di Trump, accetta di portare al 4% del PIL (circa 70 miliardi di euro) le spese dello Stato per la NATO. Affermare politiche di cooperazione tra Stati e popoli, significa esattamente fare il contrario di ciò che ieri e oggi ha fatto e fa l’Alleanza atlantica, significa, per esempio, imparare da modelli avanzati di cooperazione come quello posto in essere dalla Cina nei confronti dei Paesi dell’Africa. Ma una riaffermazione continua di adesione al volere della NATO e la ricerca costante di un asse privilegiato con l’attuale presidente del Paese guida dell’alleanza militare, non lasciano molte speranze.
Un’opposizione dovrebbe denunciare la demagogia del governo Renzi, che ha concluso un accordo internazionale misconosciuto che, in cambio della flessibilità per 80 euro e mance elettorali varie, ha garantito la gestione esclusiva da parte dello Stato italiano del fenomeno migratori del Mediterraneo, distraendo, però, le risorse che avrebbero certamente garantito un’accoglienza migliore e più efficiente.
Un’alternativa al quadro dato dovrebbe porre il problema del superamento dell’accoglienza straordinaria e militarizzata, rompendo il modello dei ghetti, con una gestione diretta da parte dello Stato dell’accoglienza secondo trasparenza, efficienza, raccordo e rapporto virtuoso con gli enti locali.
Come si vede da poche battute, allora, il nemico Salvini, il cosiddetto governo giallo-verde, non si combattono politicamente iscrivendoli nel registro degli indagati, ma in quello dei bugiardi e dei gattopardi che da secoli popolano le classi dirigenti del nostro Paese, succedendosi l’uno dopo l’altro dietro il sogno del cambiamento ma con davanti la realtà della conservazione.

di Francesco Valerio della Croce, Federazione Giovanile Comunisti Italiani 

tutto l’articolo in 
http://www.fgci.info/2018/08/27/la-via-giudiziaria-per-la-lotta-politica-non-porta-lontano/?fbclid=IwAR0Iucj2UX3cqVSCTjM-lspjPQw9JR_MEfrUNfZStpjsXQiQ_NNlpQoTdLY




LA FRANCE INSOUMISE


quando le sedicenti “liberaldemocrazie” annusano pericoli e vedono intaccato il proprio potere e i propri privilegi, rivelano tutto il loro volto: mazzieri e squadristi. E hanno l’ardire di chiamare “regimi” altri governi a loro non graditi nonostante le elezioni, cartina di tornasole di ogni governo dell’occidente. E i servi mediatici si affrettano a offrire loro le parole giuste: sommossa non rivoluzione, rivolta non liberazione. Ma se anche ci mettete in ginocchio davanti alla vostra ignominia, non chineremo mai il capo, non servirà molto la vostra violenza, se non a riaccendere il motore della storia. (fe.d.)





domenica 2 dicembre 2018

NON CI FERMERETE FACILMENTE!: il Movimento Studentesco di oggi


30 novembre 2018:  LA PRIMA DI TANTE MOBILITAZIONI: NON CI FERMERETE FACILMENTE!



Questa mattina eravamo più di mille, tra studenti e lavoratori della scuola, davanti al palazzo del Miur a Roma. Un fronte sociale composito, i tanti volti che concretamente danno vita e corpo alla scuola pubblica nel nostro paese. Quelli che da anni subiscono senza poter reagire: tagli, denigrazioni, repressione, svendita della scuola ai privati, lavoro gratuito, precarietà, manipolazione ideologica, autoritarismo, competizione sopra tutto. 
In piazza abbiamo voluto esprimere il nostro dissenso nei confronti del modello di scuola (neoliberista e classista) che ci hanno imposto: una scuola che divide invece di unificare, che reprime invece di lasciare spazio di espressione, una scuola che lascia carta bianca ai privati invece di investire soldi pubblici per la nostra formazione. In piazza c’era l’opposizione, quella vera, che non fa sconti a nessuno.
Siamo stati ricevuti all’interno del MIUR dal dott. Pinneri, vice capo del gabinetto, assieme a una delegazione di USB Scuola e delle associazioni di precari della scuola che hanno aderito alla mobilitazione. Purtroppo però l’incontro ha confermato le nostre aspettative: nessuna dichiarazione di discontinuità rispetto alle riforme portati avanti dai vari governi di centrodestra e centrosinistra negli ultimi anni. L’alternanza cambierà di nome ma non di sostanza. Silenzio su Invalsi e autonomia scolastica regionale. E’ il governo del “finto” cambiamento, quello che inganna, reprime la conflittualità ed esacerba la guerra tra poveri.
Durante la mobilitazione abbiamo però appreso la terribile notizia della morte di uno studente di Catania, colto da un infarto. Alla notizia abbiamo bloccato il traffico in segno di protesta per poi muoverci in corteo, nonostante le resistenze della polizia, che ha provato ad ostacolare in ogni modo il nostro passaggio. Abbiamo raggiunto il presidio degli ex LSU-ATA a Montecitorio, non ci siamo fatti fermare da nessuno, come promesso.
Una giornata di lotta che non dimenticheremo, una giornata di lotta che non dimenticheranno. Abbiamo promesso anche che non ci saremmo fermati qui e che da Nord a Sud avremmo unito tutte le studentesse e gli studenti che non si arrendono, quelli che nonostante tutto resistono e che non scendono a compromessi. 
CONQUISTEREMO IL FUTURO, CI RIPRENDEREMO LA SCUOLA PUBBLICA!
fonte: pagina FB Campagna BastAlternanza