Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 30 aprile 2020

La critica dell’estremismo e il rigore dello storico (Gian Mario Bravo)


La critica dell’estremismo e il rigore dello storico delle dottrine politiche in Gian Mario Bravo
colpito dal Covid è scomparso a Torino il 29 aprile

- Allievo di Luigi Firpo a Torino, fu professore ordinario di Storia delle dottrine politiche dal 1971. Tra i maggiori studiosi del pensiero di Marx e Engels, si occupò soprattutto della storia del socialismo e del comunismo ottocentesco in Italia e Germania, pubblicando oltre 20 monografie, una trentina di curatele e diverse centinaia di articoli e saggi, tradotti in molte lingue.
Preside della facoltà torinese di Scienze Politiche dal 1979 al 1998, fu direttore scientifico della Fondazione Luigi Firpo e membro della Fondazione Luigi Einaudi. Fu presidente della Società italiana degli Storici delle dottrine politiche. [wiki]

- storico di ispirazione marxista serio e rigoroso, Gian Mario Bravo è autore di studi condotti con filologica acribia documentaria, le origini del marxismo (e la sua ricezione labriolana in Italia), il socialismo, l’anarchismo, le loro tendenze ideali e gli orientamenti politici. Fu critico del radicalismo “estremista” con una pubblicazione del 1977, anno del “movimento” considerato dallo studioso e da molti, gia’ estraneo all’ispirazione originaria del marxismo, come invece ne era stato influenzato, seppur parzialmente (condannandone comunque le derive "gruppettare") quello del '68. ~ fe.d.
Cosi’ lo ricorda Angelo D’Orsi dalle colonne de Il Manifesto del 30 aprile 2020:
- C’era una volta l’Accademia, quella con la maiuscola. Oggi se n’è andato (anche lui a causa del covid-19) uno degli ultimi rappresentanti di quel mondo, Gian Mario Bravo, studioso di ineccepibile rigore, docente di enorme professionalità, osservatore critico della contemporaneità, che non esitava a scendere in campo, lontano però da ogni esibizionismo, del tutto estraneo al protagonismo di cui tanti suoi colleghi, anche assai più giovani, danno prova quotidiana.
ERA NATO NEL 1934, e la sua è stata davvero la «vita degli studi», quella a cui Gioele Solari (nell’accademia torinese, «il maestro dei maestri»), incitando il suo allievo Norberto Bobbio, proponeva come insegna di chi compiva la scelta quasi monastica dell’insegnamento universitario. Bravo, della generazione seguente ai Bobbio, ai Firpo, ai Passerin d’Entrèves, incarnò quella tradizione, nel modo più alto e nobile, ma le diede una torsione a sinistra, per così dire: già, perché in quel mondo paludato, in particolare entro i recinti della Storia delle dottrine politiche che fu il suo ambito disciplinare (e vorrei dire il suo regno), essere dichiaratamente marxisti non era facile.
SOCIALISTA DI SINISTRA, aderente poi alla scissione del Psiup, Bravo si era formato alla ferrea scuola della Ddr, dove aveva perfezionato, in biblioteche di cui non cessava di tessere le lodi, il proprio metodo, conquistando, insieme con la padronanza della lingua tedesca, un vero primato negli studi su Marx ed Engels, e allargando il cerchio, su numerosi esponenti di quella filiera. Aveva tuttavia studiato anche, con grande attenzione, sia pure in modo severamente critico, l’anarchismo, di cui riconosceva la nobiltà, e riteneva fosse necessario sottrarlo al puro ambito della militanza. È stato uno dei primi, da questo punto di vista, Bravo, a far diventare il pensiero anarchico un «oggetto accademico», senza cancellarne la pregnanza politica, naturalmente. 
NON NASCOSE MAI le proprie simpatie o le proprie idiosincrasie politiche, ma da autentico homo academicus, sapeva distinguere e separare l’ideologia della scienza, da seguace di Max Weber, e teneva a bada le proprie passioni politiche, pur dichiarandole. Nessuno potrebbe dire – cosa rarissima nel mondo universitario – che Gian Mario Bravo sia stato meno che corretto in un oltre mezzo secolo di carriera, in cui egli rivestì ruoli importanti e di prestigio, che sarebbe impossibile elencare, come sarebbe impossibile restituire in poche parole la misura della passione, ma anche del rigore con le quali egli svolse quei ruoli. Dentro e fuori l’Ateneo torinese, il nome di Gian Mario Bravo significò sempre e soltanto «serietà». Fu accusato sovente di formalismo – per esempio quando in una delle fasi della sua lunghissima presidenza di Scienze Politiche, impose ai docenti di presentarsi alle sedute di laurea in giacca e cravatta, sottolineando come per le famiglie dei candidati quello era un momento solenne –, ma il suo era l’atteggiamento di chi non ha scelto l’insegnamento e lo studio come una professione, ma come una missione.
Dei suoi studi (Marx, Engels, Labriola, socialismo, marxismo, anarchismo, socialdemocrazia…) bisognerà parlare, con l’attenzione che meritano, tutti condotti su fonti di prima mano, nelle lingue originali, leggendo tutto il leggibile (e pure l’illeggibile, nel suo inguaribile perfezionismo), confrontando, valutando alla luce di una competenza che ben pochi, a livello internazionale, potevano vantare.
MA BRAVO coltivava anche uno spirito sarcastico, che esplicò con una verve che pochi si sarebbero aspettati. In una recente recensione (forse l’ultimo suo scritto) a una pessima biografia di Marx, presentato come «insignificante studioso», «profittatore», «pessimo marito e padre», con la sottolineatura come un dato fondamentale (e forse misterioso!), il fatto che nel suo soggiorno ad Algeri alla vigilia della morte, Marx si fosse fatto tagliare la barba, Bravo commentava: «meglio le forbici del barbiere che la penna di sedicenti storici».

(Gian Mario Bravo, 1934/2020)



domenica 26 aprile 2020

Gramsci-De Martino e la ‘filosofia della prassi’


(Gramsci- +27 aprile 1937-27 aprile 2020)

In Ernesto De Martino, si fondono mirabilmente l’inchiesta antropologica sul campo, i contadini lucani, il rito della taranta, con le categorie filosofico-antropologiche di interpretazione dei fenomeni culturali, a partire da quelli del magismo, della ritualità protettiva, legati alla fenomenologia delle religioni. Queste categorie appartengono all’intera sua esperienza di formazione: all’origine crociana, di critica al naturalismo attraverso lo storicismo, in seguito di suggestione esistenzialista e heideggeriana di “essere-nel-mondo”, fino all’umanesimo marxista degli studi sulle classi subalterne di impianto gramsciano. Lo stesso materialismo storico ne viene vivificato, in quanto apre alla pluridimensionalita’ dell’essere umano, in una prospettiva olistica che include la sua spiritualità laicamente intrecciata ai bisogni della sua condizione materiale e ai rapporti sociali e di produzione come delle relazioni intersoggettive e delle rappresentazioni simboliche. De Martino svolge a pieno titolo, non solo per la sua militanza nel PCI, la funzione “organica” dell’intellettuale che non contempla, ma, interpretando, trasforma la sua stessa ricerca in itinerario di emancipazione e liberazione collettive.
E in Gramsci, è proprio questo riscatto possibile che passa dal momento della coscienza, a quello dell’orizzonte prossimo della prassi rivoluzionaria. (fe.d.)

LA FINE DEL MONDO in Ernesto De Martino

“La fine del mondo può ben rappresentare il culmine di un complesso processo speculativo che ha per oggetto costante, declinato nei modi piú vari, il problema dell’ esserci, teso tra il rischio della crisi radicale e la ricerca di riscatto. Crisi insita nella nozione stessa di presenza umana nel mondo che, per affermarsi come «trascendimento della situazione nel valore», è tenuta a difendersi dall’insidia permanente della sua dissoluzione, grazie all’azione protettiva esercitata, in prima istanza, dai sistemi simbolici magico-religiosi. Crisi che esplode allorché questi ultimi, caduti in desuetudine per ragioni storico-sociali, non sono sostituiti da nuove formazioni simboliche rispondenti al mutato spirito dei tempi. È in un simile «vuoto» che si materializza lo spettro della fine: [..] 

LA TERRA DEL RIMORSO 
(il tarantismo è) “un istituto mitico-rituale cui è demandato il compito fondamentale d’incanalare e di far defluire la crisi della presenza indotta dal «veleno» iniettato nel corpo dei tarantati dal morso di un ragno mitico, la Taranta per l’appunto. Il tessuto simbolico evoca, trasfigurandola, una condizione esistenziale marcata da una forma estrema di disagio e di smarrimento, che si manifesta in concomitanza con un momento particolarmente critico del ciclo agrario. Da qui il bisogno di ricorrere al potere catartico garantito dal rituale in cui l’elemento musicale, quello coreutico e quello cromatico, fusi insieme in modo mirabile, giocano un ruolo essenziale. “
Marcello Massenzio, in E.De Martino, La fine del mondo (anche in versione eBook) - Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, ed.Einaudi 2019




giovedì 23 aprile 2020

RESISTEREMO: il 25 aprile e i comunisti di terra jonica


Quest’anno il 25 aprile cade in un periodo particolarmente difficile per il nostro popolo, alle prese con un nemico subdolo e invisibile, ma che sta fortemente condizionando e intrecciando le vite di tutti noi in una condivisione di reciproci destini. Ma proprio l’unità popolare e la ricerca di un risorgimento civico e morale, oltre che politico sociale ed economico, erano gli obiettivi dei nostri partigiani, i fondatori della repubblica democratica fondata sul lavoro, che si è incardinata in una Costituzione avanzata e progressista, rendendo inviolabili principi e valori dello stato sociale e dello stato di diritto. E che interpreta la sovranità nazionale del proprio paese come “sacro dovere”, perché democratica e rispettosa dell’altrui sovranità, nella continua spinta alla collaborazione e cooperazione con gli altri stati e popoli sovrani. In un momento come questo, quei valori tornano egemonicamente di attualità, per resistere al presente e progettare un futuro prossimo di pace e benessere sociale. 
La Resistenza fu contro la tirannide fascista e il feroce occupante straniero nazista, a cui Mussolini aveva venduto il paese. Mentre si combatteva sulle montagne del Nord e gli angloamericani erano sbarcati al Sud, il “duce” consumava per intero il suo tradimento e rastrellava, torturava, seviziava, insieme allo spietato occupante hitleriano, i moderni patrioti della nuova Italia. I comunisti, vogliamo ricordarlo non per gloria ma con orgoglio, furono in prima fila contro i nemici della libertà e della patria, organizzati nelle Brigate Garibaldi, intitolate all’eroe dei due mondi, simbolo dell’unità nazionale, per riprendere un filo del Risorgimento incompiuto: su 1673 nominativi censiti di quadri partigiani combattenti e organizzatori della Resistenza, 168 provenivano dall’esercito o dalla vita civile, mentre ben 1505 erano dirigenti e militanti comunisti che avevano già fatto anni di carcere o di confino. Al momento dell’insurrezione nazionale erano diventati una forza di 250.000 combattenti. 
ANCHE TARANTO fu centro di Resistenza al fascismo, uno dei più attivi dell’intero Mezzogiorno. Fulcro, la classe operaia dell’arsenale militare e dei cantieri “Tosi”, perno dell’intera navalmeccanica nazionale. Vogliamo oggi ricordare e dedicare questo 25 aprile 2020 ai nostri compagni fraterni, i sarti Francesco e Federico Mellone. Nell’ottobre 1926, dopo una riunione clandestina di comunisti sia Federico che Francesco vennero arrestati. Qualche mese prima, nel giugno, era stato arrestato, insieme ad altri comunisti, Odoardo Voccoli, che in seguito diventerà il primo sindaco del dopoguerra. Rilasciati, i fratelli Mellone furono nuovamente arrestati, per attività "sovversiva", nel 1928. Federico e Francesco furono portati l'8 maggio di quell'anno davanti al Tribunale speciale ed alla corte fascista (Francesco, molto malato, vi fu portato in barella). Entrambi dichiararono, con coraggio e sprezzanti verso i nemici della libertà, di essere militanti comunisti. Solo per questo furono condannati rispettivamente a 10 e a 5 di carcere. Francesco dopo pochi mesi, non assistito, morì a causa del protrarsi della malattia. Federico, invece, fu mandato a scontare la sua pena nella casa penale di Castelfranco Emilia e morì di congestione polmonare il 29 maggio del 1936. Le carceri di Taranto (l’ex-convento Sant’Antonio) erano allora formate da due camerate denominate Voccoli una e l'altra Mellone e in esse vi erano custoditi più di quaranta detenuti politici. 

OGGI come IERI, i comunisti jonici sono al servizio della loro città, della loro popolazione, della classe operaia e dei lavoratori che l’hanno resa forte come l’acciaio. Oggi come ieri, RESISTERE. E resisteremo. 
da sez. PCI “D’Ippolito-La Tanza” e biblioteca popolare “Nino D’Ippolito” , Taranto / 24 aprile 2020 



E ALDO DISSE ANCORA


Nel 75° anniversario della Liberazione dal nazifascismo, MarxVentuno Edizioni celebra il 25 aprile pubblicando la cronistoria scritta da Pietro Secchia, che racconta il poderoso movimento di popolo guidato e coordinato dal CNL che portò all'insurrezione simultanea in tutto il Paese contro l'invasore, alla parola d'ordine "Aldo dice: 26x1".
La massa popolare fu protagonista operante e cosciente dell'insurrezione, la classe operaia fornì gli uomini e le donne, le idee, i quadri, i mezzi; parteciparono dal sud al nord Italia i contadini lavoratori, gli studenti, i professionisti, gli intellettuali.
In un tempo di violenta riscrittura della storia e tragica perdita della memoria, il libro "Aldo dice: 26x1. Cronistoria del 25 aprile 1945" si propone di conservare la traccia di quel giorno e tramandarla, ricordandone il prezzo di sangue, la tensione morale, la portata epica, il valore altissimo.
prefazione - Ferdinando Dubla
e con lo scritto “Una vita militante dedicata al movimento operaio” di Enzo Collotti
ed. MarxVentuno, aprile 2020
👉 https://www.marx21books.com/prodotto/secchia-aldo-dice-26x1/
#liberazione #25aprile #antifascismo #storia #libri



venerdì 17 aprile 2020

Il fantastico vagabondare nell'infinito (in Gramsci e De Martino)


- religione, idolatria e storia per il giovane Gramsci e l'antropologia filosofica di De Martino


Una pagina "bruniana " della filosofia di Gramsci offre la possibilità di una comparazione analitica su temi storico-politici e antropologico-filosofici che ineriscono la necessità di attualizzazione del marxismo come "filosofia della prassi" di tipo olistico.
"Siete nel mondo ma non sapete perchè. Operate, ma non sapete perchè. Sentite dei vuoti, e desirereste delle giustificazioni al vostro essere, al vostro operare, e vi pare che le ragioni umane non vi bastino, che risalendo di causa in causa arriviate a un punto che, per coordinare e regolare il movimento, ha bisogno di una ragione suprema, fuori del conosciuto e del conoscibile per essere spiegata. proprio come uno che guardando il cielo e risalendo di piano in piano nello spazio che la scienza ha misurato, sente sempre maggiori difficoltà al suo fantastico vagabondare nell'infinito, e arriva al vuoto e non può concepire questo vuoto assoluto, e allora inconsciamente lo popola di creature divine, di entità soprannaturali che coordinano il movimento vertiginoso e pur logico dell'universo. (..) La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l'uomo e la sua volontà e la sua attività."
Antonio Gramsci, La storia, 29 agosto 1916, in Cronache torinesi 1913-1917, a cura di Sergio Caprioglio; Einaudi, Torino, 1980, pp. 513-514
La "filosofia della prassi", espressione dei "Quaderni dal carcere", centrata dall'unità dialettica di teoria e pratica sociale trasformatrice e rivoluzionaria, è una concezione olistica che ricostruisce l'etica interiore dell'umano in una visione unitaria che ricomprende non una natura antropologica astrattamente intesa, ma  la storia, dunque "secolarizzata".
"Se il totalismo gramsciano, in realtà, va compreso nella sua corrispondenza all'idea di totalità (e non banalizzato come totalitarismo tout court), è perchè esso è, anzitutto e soprattutto, un totalismo interiore-interiorizzato ed in questa sua essenziale intimità etica e morale consiste la sua essenza "secolaristica" e secolarizzatrice, ossia, sostitutrice-sostitutiva a tutti gli effetti della religione tradizionale, con esclusione definitiva di questa, in quanto essenzialmente inautentica. Gramsci alla ricerca dell'autenticità sottesa alla - ma tradita dalla - religione, la ritrova e recupera in una politica eticamente intesa e vissuta, ossia in una politica come totalità umana.", Claudio Vasale, Politica e religione in Gramsci - L'ateodicea della secolarizzazione, ed. Storia e letteratura, 2012, pag.17
Il rapporto tra natura e cultura, tra antropologia e storia, è, come si sa, al centro della riflessione e dell'osservazione partecipante dell'etnologo Ernesto de Martino. Proprio per evitare di cadere in un riduzionismo storicistico e nel meccanicismo deterministico struttura/sovrastruttura, e ricomprendere il marxismo come strumento ermeneutico "olistico", attento cioè alle diverse, ma tuttavia unitarie,  dimensioni dell'umano e della sua produzione, materiale come culturale, egli propone la categoria, di evidente connotazione esistenzialista, di "ethos del trascendimento".

"La critica proveniva da chi a Gramsci aveva guardato con enorme interesse, traendone spunti per la propria ricerca: Ernesto de Martino. Il limite del marxismo, afferma il grande etnologo, è tutto nella centralità data alla produzione materiale, che conduce a due negative e decisive conseguenze. Da un lato non si realizza una vera separazione dalla religione, perché se ne dà una lettura parziale e semplicistica. Il marxismo afferma infatti che sia l'alienazione economica l'origine di quella religiosa. Per de Martino vi è invece, più originaria, un'alienazione radicale connessa alla perdita di senso di sé e del mondo rispetto alla quale la religione si pone come alienazione derivata. Non solo: essa si connota, inoltre, per essere non esclusivamente alienazione, ma anche tecnica di reintegro, storicamente necessitata, di una presenza esposta al rischio di non esserci più nel mondo. Dall'altro, si realizza un'antropologia semplificata, per cui l'attività essenziale dell'uomo è ridotta ad attività economica. Nella concezione marxiana, è l'homo faber che conferisce valore al mondo con la sua produzione materiale ed è lui che muove la storia con la sua lotta per la liberazione delle forze produttive dai rapporti di produzione. Emancipazione economica e liberazione umana vengono così a coincidere. De Martino pone invece a fondamento del divenire storico dell'uomo l'ethos trascendentale, cioè la spinta (che sarebbe l'essenza fondamentale dell'uomo) ad andare sempre oltre la realtà data (a trascendere, appunto) per conferire sempre nuovo valore al mondo.
L'attività valorizzatrice dell'uomo - sosteneva de Martino - si inaugura con la produzione materiale della vita, ma non si esaurisce in questa e alimenta tutta una serie di altre valorizzazioni non riducibili all'utilizzabile. Presi dalla polemica contro l' astrazione dello Spirito idealistico, né Gramsci né il giovane Marx riconoscono che il [i]«movimento dialettico oltre la natura nell'economico e oltre l'economico nelle altre valorizzazioni»[/i] ha in sé una potenza che lo rende possibile, un principio interno: l'ethos trascendentale del trascendimento. Questo mancato riconoscimento conduce ad una prassi cieca ed [i]«.. è responsabile in Gramsci, di alcune ombre mitologizzanti che ancora gravano sul suo marxismo riformato: quando Gramsci parla di un processo di unificazione del genere umano che mette capo alla «sparizione della contraddizioni interne che dilaniano la società», o di una «lotta per l'oggettività» come punto di arrivo raggiunto il quale si potrà riparlare di Spirito, rispunta il tema - di derivazione religiosa, teologica, idealistico-hegeliana - di un processo a termine, e della esauribilità storica della lotta per l'oggettività...»[/i]. In altri termini, la religiosità del marxismo è insita nella sua premessa antropologica. Se la storia dell'uomo è lotta per la liberazione economica, nella società socialista senza classi e senza sfruttamento, [i]«tutte le possibili contraddizioni sociali saranno soppresse una volta per sempre... non se ne genereranno di nuove mai esperite nella storia umana... non si dovrà prendere coscienza di esse e lottare per la loro soppressione»[/i]. La storia avrebbe avuto una sua fine: [i]«La natura sarà interamente "asservita" all'uomo e lo "spirito" sarà liberato una volta per sempre»[/i] ([i] La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali[/i], Einaudi, pp. 440/41). Un mito religioso di redenzione totale. 
Giampiero Minasi, L'umanesimo di Gramsci e il rifiuto della falsa morale cattolica, in https://www.globalist.it/culture/2016/05/08/l-umanesimo-di-gramsci-e-il-rifiuto-della-falsa-morale-cattolica-53809.html
25 gennaio 2014

Con una terminologia di derivazione heideggeriana, ma con un significato antropologico profondo, non metafisico in quanto rientrante nella dimensione dell'"ethos", de Martino interroga l'umano e il suo bisogno di assolutizzare ciò che sembra trascenderlo. Connettendo la sua produzione materiale con quella culturale. Non contraddice nè Marx nè Gramsci, ma ne integra, in una visione "olistica", l'analisi storico-materialistica con i riflessi nella coscienza, che diventano reali "prodotti" di un mondo che è esterno all'umano, ma interno alla costituzione della sua personalità sociale. Potrebbe affermarsi che la "totalità organica" dell'antropologia filosofica di Arnold Gehlen  (cfr. L'Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, opera del 1940, ed. Mimesis 2010) viene da de Martino implicitamente, e marxianamente,  svuotata  del suo senso conservatore, a favore dell'"onnilateralità" umana pedagogicamente orientata all'edificazione di un nuovo mondo.
Per Gramsci la religione è dunque comprensibile storicamente all'interno della cultura popolare solo se si tiene presente la sua funzione di "falsa coscienza" ideologica, in un rapporto stretto con il folclore e il senso comune, filosofia dei "semplici" che costituisce un cruciale terreno egemonico per il riscatto sociale e la trasformazione rivoluzionaria:
"In effetti Gramsci ritiene che la religione, per la sua eterogeneità ideologica e sociale, si apparenti con (..) il senso comune e col folklore; da una parte, la religione non è un insieme ideologico omogeneo, ma suddiviso concretamente in sotto-religioni; d'altra parte, la religione fornisce al senso comune e al folklore una larga parte della loro sedimentazione ideologica.(..) all'interno di una stessa religione si [può] distinguere una "filosofia", un "folklore" e un "senso comune". (..) in quanto rimangono essenzialmente le concezioni del mondo delle classi subalterne, le religioni, e sopratutto le religioni popolari, formano la parte essenziale delle briciole di ideologie che compongono il senso comune e il folklore; "
H.Portelli, Gramsci e la questione religiosa, Mazzotta, 1976, pag. 37-38

L'ottica di Gramsci e de Martino è infatti quella del riscatto, non della passiva rassegnazione. Partendo dalla reale cultura popolare, operare una fenomenologia del folclore significa poter ricostruire un senso comune. Rivoluzionario, perchè legato alla storia, alla natura, alla cultura, a tutte le dimensioni, esterne e interiori, dell'essere umano.

ferdinando dubla, aprile 2020 



martedì 14 aprile 2020

la maestra CAMILLA, la segretaria del PCI


In occasione dell’anniversario della sua morte, avvenuta il 14 aprile 1988, ripubblichiamo uno scritto di Leonardo Pisani, sul giornale "Roma" del 18 giugno 2018, intorno alla figura di Camilla Ravera, la segretaria del PCI dopo l’arresto di Gramsci (1926), che l’aveva fortemente voluta all’”Ordine Nuovo”. L'autore sottolinea tra l'altro, citando lo storico Michele Strazza, la permanenza al confino in Lucania della dirigente comunista. (fe.d.)

Camilla Ravera, (1889-1988) 

Nata il 18 giugno 1889 a Aqui Terme, in provincia di Alessandria, Camilla Ravera era figlia di un funzionario del ministero delle finanze, una famiglia numerosa con 7 sette fratelli. La giovane Camilla iniziò a lavorare come maestra a Torino e si iscrisse al PSI nel 1918. Tra il 1919 e il 1920 entrò a far parte della redazione della rivista L'Ordine Nuovo con Antonio Gramsci Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia; incaricata dell'organizzazione femminile, diede vita al periodico La Compagna.
Dopo le leggi fascistissime del 1926 e l'arresto di Gramsci, si impegnò per tenere insieme ed in costante contatto i comunisti italiani, cercando di rafforzare l'organizzazione clandestina del PCI; dopo il segretario Palmiro Togliatti che sostituì Gramsci alla guida del partito nel 1927, la Ravera sarà, fino al suo arresto nel 1930, la seconda personalità del PCI in Italia per importanza.
Ravera sarà anche delegata a vari congressi del Comintern, dove conobbe Lenin e Stalin. Fu arrestata nel 1930 ad Arona (Novara) e condannata a 15 anni di carcere. Ne scontò 5 in cella, gli altri al confino a Ponza e Ventotene (Roma) dove conoscerà il socialista Sandro Pertini. La Ravera nel 1936 fu inviata al in Lucania. (..). Condannata a 15 anni e 6 mesi di carcere, aveva scontato i primi 5 anni nelle sezioni femminili dei carceri di Turi e Perugia, posta in regime di isolamento in quanto “detenuta pericolosa”. Nel 1935 per breve tempo era stata rilasciata per problemi di salute e, poi, con l’amnistia del 1936, definitivamente scarcerata e posta agli arresti domiciliari.
Scrive Michele Strazza: «Riportata in carcere per una visita di “controllo” il 12 ottobre 1936, dopo due settimane fu inviata al confino in Lucania che raggiunse con un lungo viaggio di 4 giorni e 3 notti, passando dagli istituti penitenziari di Piacenza, Ancona e Potenza per poi approdare a Montalbano e, infine, trascorrere altri 5 mesi nella vicina S. Giorgio.
La prima destinazione di Montalbano gli venne comunicata dipingendola come “luogo di ottimo clima, saluberrimo”. In realtà, come presto si rese conto, il centro lucano era un paese malarico ed il mare si vedeva solo “in lontananza, da un lato del panorama” che si stendeva all’intorno del paese; dagli altri lati era“tutto un susseguirsi di monti o alti colli”. Montalbano – annotava la donna - era solo un gruppo di case raccolte intorno a un piccolo colle, case “tutte bianche, calcinate, con molti balconcini e qualche terrazzo”.»
Così la confinata politica osservava il ritorno dei contadini dai campi:
«Nell’ora del tramonto si vedono, qua e là per questi dirupi e scondiscendimenti, le genti tornar dal lavoro: uomini montati su piccoli asini, asinelli carichi di sacchi o di fascine, e minuscoli carrettini con alte ruote; e capre appaiono e spariscono su è giù per la rigosità di questa terra rossiccia e contratta».
Dopo vari giorni in cui aveva trovato alloggio nella soffitta della locanda “Roma”, gestita dalla famiglia Carlucci, il podestà locale le propose di fare “un po’di scuola ai giovani analfabeti prossimi alla chiamata di leva”, per evitare che, una volta partiti, non sapendo scrivere, non mandassero proprie notizie alle famiglie, costringendo le madri a chiederle al municipio.
«Ma l’iniziativa, puntualmente annunciata dal banditore comunale, durò solo pochi giorni perché la polizia, informata del fatto, intervenne e la confinata fu trasferita a S. Giorgio Lucano, un paese all’interno e ancora più isolato, mentre il podestà, prima diffidato, venne rimosso dall’incarico – precisa lo storico Michele Strazza - Nella nuova destinazione Camilla Ravera prese prima alloggio nella locanda e, poi, nella casa della famiglia Gerardi, al piano di sopra.
Pur essendo sottoposta ad una vigilanza più incisiva rispetto a quella di Montalbano, non mancò il contatto con la gente del posto che gli manifestava “una prudente ma vigilante e commovente solidarietà”. Anche con la padrona di casa, una contadina con due figlie piccole, si instaurarono i primi rapporti e la confinata la sera scendeva al piano di sotto per trattenersi davanti al camino o per bere del latte. A volte parlava anche con altri paesani che, intorno al fuoco, discutevano delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Ma il tutto fu fatto con grande cautela perché spesso, come ricorderà poi la Ravera, arrivavano i carabinieri per un’ispezione.
Restò a S. Giorgio per circa 6 mesi prima di essere rimandata, il 28 maggio 1937, nell’isola di Ponza. Trasferita a Ventotene, fu, con Umberto Terracini, l’ultima a lasciare il confino. Ambedue erano stati espulsi dal Partito Comunista per aver condannato il patto Ribbentrop-Molotov sulla spartizione della Polonia. Dopo la liberazione la dirigente comunista venne riammessa nel partito e nel 1948 fu eletta deputato».
Ritiratasi a vita privata, nel 1982 venne nominata da Sandro Pertini senatrice a vita: è stata la prima donna a ricevere questa nomina. Morì il 14 aprile 1988. Due giorni dopo fu ricordata dalla presidente della Camera Nilde Iotti e dal segretario del Partito Comunista Italiano Alessandro Natta. È sepolta nel Cimitero del Verano di Roma. A San Giorgio Lucano, una delle località in cui fu confinata, nel 2007 è stata apposta una lapide sulla facciata della casa in cui abitò nel periodo 1936-1937.


la lapide apposta a S.Giorgio Lucano 

giovedì 9 aprile 2020

I comunisti del XXI secolo


I comunisti del XXI secolo hanno idee, progetti e i valori del nuovo umanesimo marxista. Punti di riferimento, non modelli.
E ciò che chiediamo agli altri ci impegnamo a realizzarlo noi stessi. I comunisti del XXI secolo non hanno né doppio legame (Bateson) né doppia verità (Averroe’). Nessun doppio legame tra teoria e prassi, tra geopolitica, storia e ideali internazionalisti; nessuna doppia verità tra libertà ed eguaglianza, tra valori e futuro, tra stato sociale cooperativo e stato di diritto socialista. 

 

Combattere l'epidemia non significa rinunciare a diritti e libertà


di Albano Nunes
“Avante!”, Settimanale del Partito Comunista Portoghese
da http://avante.pt
Traduzione di Mauro Gemma per Marx21.it
- - Contrariamente a quanto propongono determinate linee dell'ideologia dominante, la lotta contro l’esplosione di COVID-19 non si realizza rinunciando ai diritti e alle libertà fondamentali, e neppure pone la lotta di classe tra parentesi. Ciò è vero sia a livello nazionale (in particolare con l'ondata di licenziamenti che il PCP non si è mai stanco di denunciare), sia a livello internazionale. Convinto che "le crisi sono anche opportunità", l'imperialismo, incapace di trovare i mezzi per affrontare le grandi calamità naturali, continua (il Segretario Generale della NATO lo ha confermato con arroganza) a spendere somme colossali per alimentare l'industria militare e le guerre di aggressione.
- In un momento in cui si sta conducendo una lotta senza precedenti per la vita umana e mentre è necessario rafforzare la cooperazione e la solidarietà internazionali - solidarietà in cui Cina e Cuba hanno dato l’esempio, a conferma della superiorità dei loro sistemi sociali - le grandi potenze capitaliste non hanno dimostrano solo l'egoismo più disumano ma hanno rafforzato la loro politica di sanzioni e blocchi che così tanta sofferenza ha seminato in tutto il mondo. Ciò è stato denunciato in una lettera inviata da otto paesi (RP di Cina, Cuba, RPD di Corea, Iran, Nicaragua, Russia, Siria e Venezuela) al Segretario Generale delle Nazioni Unite, invitandolo a "chiedere la revoca totale e immediata di queste misure illegali di pressione economica coercitiva e arbitraria ". Mentre il FMI negava un prestito umanitario di emergenza all'Iran, Mike Pompeo annunciava un nuovo pacchetto di sanzioni per quel paese. E il 26 marzo, gli Stati Uniti, sconfitti in ripetute operazioni per destabilizzare e rovesciare il governo legittimo del Venezuela, hanno lanciato una nuova e odiosa provocazione associando Nicolás Maduro e altri leader al traffico di droga.
- Le implicazioni economiche e sociali dell'epidemia si stanno dimostrando enormi. In un contesto di grandi incertezze, le diverse proiezioni indicano un impatto più profondo di quello della crisi iniziata nel 2008. Al fine di affrontarla e condurre la lotta in modo che i lavoratori non paghino ancora una volta i costi di un'inevitabile recessione globale, è importante tenere presente che, nel contesto dell'approfondimento della crisi strutturale del capitalismo, si stava già sviluppando il picco di crisi che la pandemia ha fatto precipitare e aggravare. Due esempi. Negli Stati Uniti, dove economisti come Stiglitz denunciano da tempo la propaganda di Trump sulla salute dell'economia, il numero di disoccupati è aumentato di oltre 3,3 milioni in una sola settimana. Nell'Unione Europea, dove le nuvole della recessione si stavano già addensando sulla Germania, lo spettacolo vergognoso di "ognuno per sé" è una chiara conferma della preesistente "crisi nell'Unione Europea" che il Partito Comunista Portoghese denuncia da tempo, una crisi che porta anche i più "furiosi e dogmatici" “europeisti " a temere la frammentazione di questa istituzione.
No, nella lotta contro l'epidemia di Covid-19 non condividiamo tutti la stessa posizione. La lotta di classe può assumere nuove forme ma non è scomparsa. La natura sfruttatrice, disumana e parassitaria del capitalismo è diventata ancora più evidente e la lotta in difesa di coloro che meno possono e meno hanno non conosce tregua.



giovedì 2 aprile 2020

il “Sud e magia” di Ernesto De Martino


 Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959; n. ed. 2002 (con introduzione di Umberto Galimberti)[seconda lezione] 

Nella lezione precedente abbiamo analizzato l’opera Morte e pianto rituale nel mondo antico del 1958, secondo cui “ La forma più elementare di risplamazione del planctus irrelativo in ritornelli emotivi periodici è data dalle sillabe emotive stereotipe con le quali ha inizio talora il singolo verso della lamentazione cantata.” cfr. E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Bollati Boringhieri, 1958. Il passaggio dall’ebetudine stuporosa del planctus irrelativo e alla riplasmazione e ritualizzazione del planctus con l’ethos del trascendimento, significa che il dolore che inebetisce nel tragico stupore della lamentazione spontanea, viene ricreato in un rito del pianto cantato che vuol ripristinare l’identità umana e la “presenza” di sè nella situazione collettiva in cui ci si trova.

Abbiamo rintracciato due importanti categorie filosofico-antropologiche di De Martino: la crisi della presenza (sentimento del vuoto) e la crisi del cordoglio e presenza rituale del pianto funebre. L’altra categoria da rintracciare è la destorificazione del negativo. Per questo, bisogna analizzare il testo “Sud e magia”.


in collaborazione con Rebecca Volpe

In “Sud e magia”, edito nel 1959, Ernesto De Martino, impegnato gia’ nella programmata ricerca in Salento del “rito della taranta”, redige un consuntivo-diario delle sue spedizioni in Lucania dal 1952 ed esamina a fondo credenze cultura e folclore di un territorio significativo del Mezzogiorno d’Italia.

«In quanto orizzonte stabile della crisi, la magia offre il quadro mitico di forze magiche, di fascinazioni e possessioni, di fatture e di esorcismi, e istituzionalizza la figura di operatori magici specializzati. In quanto operazione di riassorbimento del negativo nell’ordine metastorico, la magia è più propriamente rito, potenza del gesto e della parola: sul piano metastorico della magia, tutte le gravidanze sono condotte felicemente a termine, tutti i neonati sono vivi e vitali, il latte fluisce sempre abbondante nel seno delle madri, e così via, proprio all’opposto di ciò che accade nella storia».
È venuto il momento di riappropriarsi di Sud e magia di Ernesto de Martino. A cinquant’anni dalla morte dell’autore, questo grande classico dell’indagine etnografica sul nostro Mezzogiorno può essere oggi riletto per quello che effettivamente rappresenta: un contributo – modernissimo, addirittura precorritore – alla comprensione profonda dei modi e dei riti della cultura popolare che portano al riscatto dalla «crisi della presenza» in contesti di forte e perturbata criticità. La «bassa magia cerimoniale» praticata dai contadini lucani è interpretata come un ricco istituto culturale in grado di offrire protezione esistenziale ai ceti popolari, in un regime di vita dominato dalla miseria materiale e dall’oppressione politica. Nella lettura di de Martino, riti e simboli magici non contrassegnano una mentalità primitiva collocata fuori dalla storia (com’era stato per il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli): al contrario, il libro si sforza di considerarli all’interno di una più ampia «storia religiosa del Mezzogiorno» e delle relazioni tra classi egemoniche e subalterne che in essa si istituiscono. Coraggiosamente pubblicato per la prima volta nel 1959 da Giangiacomo Feltrinelli, il libro dà conto delle ricerche condotte dall’autore sulla cultura popolare in Lucania lungo il corso di una serie di «spedizioni etnografiche», la più significativa delle quali fu compiuta nel 1952. Attraverso una intensissima osservazione sul campo, operata con l’aiuto di tecniche e strumenti di grande rigore, l’indagine analizza quelle pratiche di possessione, fascinazione e magia che «proprio per la loro rozzezza ed elementarità rivelano più prontamente i caratteri strutturali e funzionali di quel momento magico che – sia pur affinato e sublimato – si ritrova anche nel cattolicesimo», vale a dire nelle forme più complesse della religiosità meridionale. Questa nuova edizione, introdotta da un denso saggio storico-critico dei curatori, ripropone tutti i testi e le immagini fotografiche dell’edizione del 1959, corredati e arricchiti da materiali rimasti per lo più inediti, raccolti qui per la prima volta in un percorso organico che introduce il lettore nello straordinario «cantiere» etnologico lucano da cui ha preso corpo il testo di Sud e magia.
la scheda del libro è ripresa da https://www.donzelli.it/libro/9788868433512
scritta dai curatori Fabio Dei e Antonio Fanelli

In definitiva, la destorificazione del negativo si lega alla crisi della “presenza”: antropologicamente, le popolazioni contadine lucane, cercano di affermare nelle credenze, nei rituali, nella cultura sia misterica che materiale (il malocchio, la fattura, l’esorcismo, i simboli apotropaici, i feticci-simulacri, le cantilene, gli scongiuri, il pianto rituale, ecc..) la loro soggettività nella storia, in crisi, ma “destorificando”, cioè rendendolo “fato naturale”, il negativo delle umane vicende. Di qui, la rassegnazione necessitata dal destino, una concezione impedimento ad una trasformazione in chiave storica, contro cui avevano auspicato la costruzione di un “riscatto” sociale e politico, facendo leva sulla stessa cultura popolare, Antonio Gramsci, Rocco Scotellaro e Carlo Levi, alle cui analisi, testi e suggestioni De Martino si lega.

introduzione vocale schede introduttive: Rebecca Volpe

- passi antologici da “Sud e magia” letti dal prof. Ferdinando Dubla (registrazione audio)
autoverifica: al termine dello studio delle due lezioni su Ernesto De Martino, devi aver chiaro:

il significato delle categorie filosofiche e antropologiche:

crisi della presenza / riplasmazione del planctus e crisi del cordoglio / ethos del trascendimento / destorificazione del negativo.

Seguirà l’analisi dell’opera “La terra del rimorso” del 1961.