Una teoria che non fa scuola- Stefano Petrucciani, su Il Manifesto 08.12.2015
Tempi presenti. Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia
neoliberale, «Una storia del marxismo» è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci.
Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore
L’impatto
che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte
da non poter
essere
paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi
religioni hanno
lasciato
alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella
che si deve al
pensatore
di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx
sulla storia del
suo
tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre
con altri
a
determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il
fatto che Marx è stato al
tempo
stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura
straordinaria in entrambi
i
campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul
pensiero sociale,
filosofico
e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che
la sua
attività
di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla
fondazione della
Prima
Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.
Certo,
una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può
anche ritrovare in
grandi
leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx
entrambe
le
dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica,
attingono una potenza
che
manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione
politica
dall’attività
di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i
partiti
socialdemocratici
e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del
Novecento.
Sul
piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una
parte non
trascurabile
della cultura che dopo di lui si è sviluppata.
La forza degli inediti
Un
aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole
definire «marxismo».
Anche
la realtà politico-culturale che si designa con questo termine è stata qualcosa
di assai
singolare
perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente culturale
presente in
modo
più o meno intenso nei vari ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il
riferimento
«statutario»
di partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le
discussioni sul
marxismo
per un verso si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro
verso sono state
un
elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento
operaio e dei suoi
partiti.
Ma
che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che
deve essere messo
a
fuoco, se si vuole ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la
diffusione dell’opera di Marx
è
stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente
molto limitata.
Anzi
si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di
contraddizione. Colui che
è
divenuto la fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta
inevitabilmente una
certa
dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto decisamente molto
critico
e
problematico.
Molti
dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro
che li scoprirono o li
pubblicarono
quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo
può
essere
interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali si è affaticato il
dibattito marxista
a
partire dagli anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica
della filosofia
hegeliana
del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i
cosiddetti Manoscritti
economico-filosofici
del 1844.
Non
solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo
alcuni tentativi di
pubblicazione
non andati a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto
con la
collaborazione
dell’amico Engels, L’ideologia tedesca;
un testo non certo trascurabile, dato che vi si
trova
la prima e la più ampia delineazione di quella «concezione materialistica della
storia» che
costituisce
uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno.
Di una
enorme
quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica Marx
pubblicò
pochissimo;
in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867,
e successive edizioni rimaneggiate)
e
quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia
politica (1859). I
Lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica (noti
anche come Grundrisse),
così
importanti
per la discussione marxista degli ultimi decenni del Novecento, furono
conosciuti in
pratica
solo dopo l’edizione che uscì in Germania orientale nel 1953.
Come
Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di
Marx
tralasciando
l’altro aspetto della sua personalità, quello di militante e dirigente
politico. «Lo
scienziato
non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della
storia, una
forza
rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. La lotta era
il suo elemento.
E
ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi
hanno
combattuto».
Una visione politica
In
tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante
e un dirigente politico
ma
soprattutto, come scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare
i suoi punti di
vista
sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era parte. Come
politico, dunque,
Marx
ha sviluppato una ben precisa visione della lotta e della emancipazione della
classe operaia,
che
contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i
quali egli si
confrontò
in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a
Bakunin.
La
più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi è
salvezza attraverso il
miglioramento
del sistema sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè
attraverso la
negazione
dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata delle risorse
produttive e la
mercificazione
dei beni e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non
avrà mai
dubbi,
e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli che,
pur partendo dalle sue
acquisizioni,
le curveranno in una direzione gradualista o migliorista.
Al
testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le polemiche che,
negli ultimi anni
della
sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi
ad esempio
l’importante
lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre
del 1879), il
grande
partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in
alcune sue
componenti,
a darne una lettura riformista o «revisionista».
Ma
torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che
l’aggettivo
«marxista»
viene dapprima utilizzato con un significato dispregiativo: all’interno della
Prima
Internazionale
(fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi fra
tutti
i
seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani» (termine modellato
forse su quello di
«mazziniani»)
e più tardi come «marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di
Treviri.
Le accuse di settarismo
I
«marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e
autoritaria che cerca di
egemonizzare
l’Associazione internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo»,
si può
affermare
per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel
titolo di un
pamphlet
di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le
marxisme dans l’Internationale. Il contesto in
cui
si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo francese
tra un’ala riformista
e
una rivoluzionaria ispirata a Marx e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio
in riferimento
a
questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul
Lafargue: «Una cosa
è
certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse d’accordo
con se stesso
o
che fosse contrario al «marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde
veniva accusato, dai
suoi
nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra e che
pretendeva di dare
indicazioni
al socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al leader in
questione,
e
dunque ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra
lui e la corrente
francese
che al suo nome veniva accostata.
Sta
di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico
e polemico
soprattutto
dagli anarchici, venne positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala
più
radicale
dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia presero
l’abitudine di
accettare
una denominazione che non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio
a
distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una
etichetta politica e ideologica»
(Maximilien
Rubel, Marx critico del marxismo,
Cappelli).
Fu
così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un
termine che, come
«marxismo»,
personalizzava eccessivamente la linea del movimento socialista rivoluzionario,
finì per
accettarlo
e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era nata
con un
senso
tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui attitudine nei
confronti del
compagno
di Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una interessante
lettera dell’11
giugno
1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si
sarebbero
mangiati
le mani per avere creato questa denominazione destinata a divenire nel tempo la
bandiera
di
chi la pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il
termine marxismo
cominciò
ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto
il
riferimento
costante e talvolta anche ossessivo.
Il rischio del fideismo
Ma
il punto più importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di Engels
andò ben oltre quello
di
legittimare la parola «marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno
sostenuto, infatti, è che
Engels
fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non tanto
la parola ma
proprio
la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè
in un sistema di
pensiero
catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo e
di fideismo.
Si
annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di
fermarsi per un
momento
a riflettere. La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo
stesso tempo,
verrebbe
voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che
il pensiero di
Marx
conseguì, e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad
altri percorsi teorici,
fu
quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx
si era posto fin dal
1845:
superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria
che potesse anche
diventare
una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel
momento in
cui
nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano
questa teoria come
loro
punto di riferimento ideale.
Questo
processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il
riferimento
«statutario»
di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato
come
l’approdo
di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta, da
svolgersi
e
magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi
in una «dottrina»,
di
subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una
ininterrotta ricerca critica.
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