La quaestio della “soggettivazione” è insieme il
tema del soggetto politico, dell’”agency” e della coscienza di
classe/spontaneità. In Gramsci si pone come superamento della disgregazione dei
gruppi subalterni. (Q.25) /
(..) "La storia dei gruppi
sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. (..) Ogni traccia
di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di
valore inestimabile per lo storico integrale.",
Antonio Gramsci, Quaderno
25 (XXIII), 1934, Ai margini della storia (Storia dei gruppi sociali
subalterni).
a cura di /Subaltern
studies Italia/
4.5 L'hic et nunc delle lotte: il problema dell'autonomia e della
politicità
di Mariangela Milone
AUTONOMIA e
POLITICITA' delle LOTTE
Il problema della coscienza rivoluzionaria è al centro del dibattito dei
Subaltern Studies: è una problematizzazione che, prima di comportare per il gruppo
indiano l'ingresso in una fase in cui la lettura delle fonti occidentali si è
svolta in un'ottica decostruzionista, è stato diretto contro quella parte della
storiografia inglese, rappresentata da Thompson e Hobsbawm, che, se
inizialmente aveva ispirato la scrittura di una History from below, non aveva
però mancato di connotare le espressioni di insorgenza, di ribellione e di
autonomia secondo le caratteristiche di una “pre-istoria”.
Queste definizioni, come dimostrano lavori come “The making of the English
working class” di Thompson, diventano enucleabili in maniera diretta e certa
solo se si pensa che la storia sia nata come sorella gemella del capitalismo,
in quanto, cioè, canale che il tempo del capitale ha da percorrere, nella
misura in cui ciò ha dato un senso ai suoi stadi progressivi ed alle
soggettività che ne avrebbero assorbito i caratteri.
Lo stesso Hobsbawm individua una serie di forme di mobilitazione - come il
banditismo sociale, le rivolte dei calzolai e le sollevazioni messicane che
usavano lo strumento dell'occupazione delle terre (440) - a partire da cui
avrebbero potuto trovare espressione ed essere indagate dalla storiografia le
istanze delle classi subalterne. Tuttavia, il punto di divergenza tra lo
storico inglese e il gruppo fondato da Guha consiste nell'attributo della
politicità a insurrezioni che, per la storiografia britannica, essendo di
natura spontaneistica e fuori dal controllo dei “ribelli primitivi”, non
avevano una propria autonomia, né quella consapevolezza che deriva da un'agency
capace di determinare alla rivolta dei soggetti consapevoli delle forze
economiche che agiscono su di loro, collocandosi così all'esterno oppure,
accordando una funzione progressiva alla storia, nel non-ancora del
capitalismo.
Il problema degli studiosi del gruppo indiano è, allora, sottrarre il
dominio del metodo alla Storia progressiva, impostata sulla base della
“immedesimazione emotiva”, di cui parla Benjamin, propria dello storico
(occidentale o comunque rappresentante dei vincitori) nel modo di guardare
rispetto ai documenti e alle circostanze evenemenziali: in mancanza di una
simile riflessione, infatti, “di qui in avanti – dice Guha – non si avrà nulla
nella storia che possa apparire totalmente inaspettato” (441).
DALLA
FRAMMENTAZIONE all’UNITÀ ORGANICA
Lo storico
indiano, coerentemente con la lettura benjaminiana che identifica con l'accidia
come peccato capitale quella brama di impadronirsi dell'immagine autentica del
passato, vede questo effetto quale risultato dell'introduzione di “commutatori
(shifters) dell'organizzazione del discorso, che aiutano l'autore a sovrapporre
una sua propria temporalità a quella degli eventi narrati” (442).
Si
sovrappone, così, il tempo della storia con il tempo del discorso stesso, “il
tempo-carta, che intreccia la cronologia della materia-oggetto con quella
dell'atto- linguaggio che esso presenta”(443).
Il risultato
di questa operazione è un documento che, imbevuto di questo tempo- carta, va a
comporre un patrimonio culturale che rivela al materialista storico, il cui
compito è spazzolare la storia contropelo, “una provenienza che non può
considerare senza orrore” (444).
Rispetto a
questa distorsione che opera nella narrazione del passato, secondo Guha, non
c'è niente che la storiografia possa fare, poiché lo iato che si produce tra lo
storico e il materiale che studia è un fatto inerente alla stessa natura del
discorso storico: il massimo a cui può ambire sta nel riconoscere
l'impossibilità di accedere pienamente alla coscienza del passato, rendendo
questo dato un'assunzione, un parametro della narrazione (445).
La
storiografia ufficiale spiega il fallimento storico della nazione indiana di
creare se stessa partendo da dati fondamentali e interdipendenti:
l'impossibilità di rinvenire nei soggetti in lotta una coscienza rivoluzionaria
o comunque di classe; l'assenza di una leadership in grado di condurre le masse
in rivolta da uno stato di frammentazione locale ad un'entità organica di
carattere generale che si costituisse e si identificasse in un movimento di
liberazione nazionale.
Con riguardo
a quest'ultimo punto, Guha lega la frammentazione delle insorgenze direttamente
a questioni territoriali e di composizione demografica, prima ancora che
politiche, in quanto l'organizzazione sociale di molte zone, in India come
nell'America del Sud, era basata su divisioni in villaggi e tribù spesso
distanti tra loro al punto da rendere problematica la circolazione delle
informazioni.
Sulla
questione, invece, della coscienza di far parte di un movimento di liberazione
nazionale, il problema si sdoppia, in quanto la critica investe sia la
coscienza soggettiva e di classe sia l'aspetto teleologico che riguarda la
finalità (non raggiunta) di porsi lungo il cammino storico e progressivo
culminante nella costituzione dello Stato-nazione.
La
storiografia ufficiale manca però di chiedersi, dando per scontata la risposta
o comunque situandola entro una catena semiotica di sviluppo progressivo, quale
sarebbe stato effettivamente l'esito delle mobilitazioni anticoloniali,
soprattutto in relazione alla specificità di quella situazione storica e delle
soggettività che con essa erano intrecciate, se si fosse seguita la ricetta
liberale occidentale.
Non si può
escludere, considerando proprio l'importanza della dimensione temporale delle
lotte in relazione alla loro propria specificità, che “le lotte anticoloniali
non sarebbero state in grado di mobilitare le masse se avessero posposto
ulteriormente le proprie rivendicazioni in un futuro più o meno remoto; per
questo motivo i movimenti di liberazione opposero sempre al “non ancora” del
liberalismo ottocentesco l’hic et nunc del nazionalismo terzomondista” (446).
Ma anche
volendo stare alla logica di una linearità del processo storico, la
ricostruzione storica può suggerire un concatenamento diverso da quello che la
storiografia ufficiale vorrebbe come prodromico allo Stato-nazione: in questo
senso, Gautam Bhadra è stato il primo a mettere in relazione le rivolte
anticoloniali con il passato indiano delle mobilitazioni contadine del periodo
precoloniale, che è un passato di insurrezioni contro altri imperi, in
particolare contro la dominazione Mogol, di cui lo storico rinviene documenti
risalenti agli inizi del XVII secolo.
Il suo
discorso tende così a rovesciare il discorso della storiografia ufficiale con
gli stessi argomenti da questa utilizzati sull'assenza di una coscienza
rivoluzionaria e di un'autonomia della classe contadina.
Infatti,
secondo Bhadra, le rivolte anticoloniali, “con tutte le loro variazioni, erano
parte della tradizione generale della ribellione contro lo stato Mogol. In
quest’area, le sollevazioni prese in esame segnarono anche l’inizio di una
tradizione di resistenza contadina” (447).
La mancata
integrazione delle masse lavoratrici entro il sistema discorsivo della lotta
nazionalista di cui erano portavoce le élites derivava perciò non solo dalla
impossibilità di ricodificare quel discorso in un immaginario e in una
materialità radicalmente differenti, ma anche e conseguentemente dalla necessità
politica di creare uno spazio nuovo e diverso che fosse in grado di preservare
dall'oblio la propria tradizione delle lotte: come rileva Ascione, “per Guha
[...] era proprio nell’atto del sottrarsi all’interazione con il potere che i
gruppi subalterni salvaguardavano la propria indipendenza d’azione e di
pensiero, la loro essenziale alterità” (448).
Quella che la massa lavoratrice va a costituire è “la politica del popolo
[...] [quale] spazio autonomo, la cui esistenza non era effetto della politica
dell'élite e che non dipendeva da essa” (449).
Allora il punto è, seguendo Guha, che se l’insurrezione dei contadini
nell’India coloniale è letta come a-politica e non autonoma, lo è proprio
perché e nella misura in cui lo storico adopera le categorie interpretative che
assumono la storia della composizione sociale di classe occidentale come
modello di riferimento.
NOTE
440) Cfr: E.Hobsbawm, Gente non comune, BUR, Milano 2007
441) R.Guha, La prosa della contro-insurrezione, in R.Guha – G.Ch.Spivak, Subaltern Studies. Modernità e
(post)colonialismo, Ombre
Corte, 2002, p.66.
442) Ibidem
443) Ibidem
444) W.Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi; 1997, p.31 (tesi VII)
445) R.Guha,
La prosa della contro-insurrezione, op.
cit., p.88
446) G.Ascione, A
Sud di nessun sud, Postcolonialismo, movimenti antisistemici e studi decoloniali, I libri di Emil, 2010, p.42
447) G.Bhadra, Two Frontier Uprisings in Moghul India, in AA.VV., Subaltern Studies Vol. II, a cura di R.Guha, Oxford
University Press, New Delhi 1983, p.59
448) G.Ascione, A
Sud di nessun sud, op. cit., p.53
449) P.Chatterjee, A proposito di alcuni aspetti della
storiografia dell'India coloniale, in R.Guha – G.Ch.Spivak, Subaltern Studies. Modernità e
(post)colonialismo, op. cit., p.35
- dalla Tesi
di dottorato - Mariangela Milone, Università di Salerno, a.a. 2012/2013,
“Genealogie della soggettivazione postcoloniale. Una lettura foucaltiana”
pag. 123/126
Mariangela
Milone è ricercatrice dell’Università di Salerno.
La nuova
titolazione dei sottoparagrafi è di Subaltern studies Italia.