Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 31 gennaio 2018

Unire le classi subalterne, ricostruire una democrazia progressiva, restituire potere al popolo


Un appello al mondo della cultura, dell’arte, della formazione e dell’Università, della comunicazione


L’«Occidente liberale» è la realizzazione o la negazione della democrazia? E l’Italia è ancora un paese democratico? E lo è nella stessa misura in cui lo è stato nei decenni alle nostre spalle e cioè in quel senso avanzato e progressivo che avevano in mente i partigiani nel liberare il paese dall’occupante nazifascista e i Padri costituenti nel sottolineare nella nostra Carta fondamentale la centralità del lavoro e della partecipazione popolare ma anche della pace, dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo, ovvero del principio di eguaglianza sul piano interno e su quello internazionale?

E’ vero: non c’è forse paese nel quale si vada così spesso a votare.
Tuttavia, la crescita esponenziale dell’astensionismo - sistematicamente sollecitato dall’ideologia dominante e dalle principali forze politiche sulla scorta del modello anglosassone e giunto ormai a livelli tali da rendere illegittimo ogni risultato elettorale -, si configura come il sintomo della de-emancipazione di fatto di milioni di persone e cioè come una revoca sostanziale di un suffragio universale divenuto, nella pratica, inutile.
Chi votiamo, oltretutto, quando andiamo alle urne? Abbiamo veramente quella libertà di scelta che l’ampiezza apparente dell’offerta lascia presagire?
Distrutti i partiti politici di massa, la scelta elettorale non è più una scelta tra posizioni realmente alternative, tra programmi e idee che siano espressione di interessi diversi o contrapposti, ma una competizione tra semplici varianti del governo neoliberale delle cose. Una sorta di perpetuo Talent Show tra cordate o comitati che, all’ombra di questo o quell’altro leader di un bonapartismo postmoderno e spettacolarizzato, ci riconducono alla prassi della vecchia Italia liberale e pre-democratica. Quando cioè i diritti politici coincidevano con il monopolio della ricchezza e i governi erano il comitato d’affari delle classi dominanti.

Inoltre: che ne è dei diritti economici e sociali conseguiti nel dopoguerra, senza i quali la democrazia rimane solo un privilegio di chi può permettersela? La loro universalità è stata in larga parte smantellata con un metodo e una meticolosità per molti versi simili dai governi di centrodestra come da quelli di centrosinistra, da Berlusconi e Salvini come da Prodi e D’Alema, da Monti come da Renzi. Ed è ridotta oggi a un servizio minimo essenziale che si propone di garantire la sola sopravvivenza.
La formazione pubblica, dalle scuole primarie all’Università, è stata sottomessa a un format privatistico che configura un sistema duale e classista. Si è imposto un modello pedagogico che dietro la retorica dell’”eccellenza” mortifica ogni merito e bisogno reale, perché - tranne che per pochi privilegiati e cioè per le élites destinate a occupare i segmenti più alti del mercato del lavoro e assorbite dai residui settori industriali avanzati ancora presenti nel paese, - deve in realtà allevare forza-lavoro a basso costo per un apparato produttivo che è in gran parte arretrato e parassitario e non ha bisogno di cultura e innovazione, ricerca e sviluppo, ma è orientato a competere al ribasso.
Il diritto alla salute esiste ormai soltanto sulla carta e le differenze sociali, determinando le capacità di accesso alle cure private, sono tornate a essere differenze che si riverberano sulla stessa aspettativa di vita dei singoli e delle classi.
Nei sistemi pensionistici ogni forma solidarietà sociale è stata smantellata e - soprattutto per quanto riguarda le generazioni più giovani, esposte a un mercato del lavoro selvaggio di tipo ottocentesco nel quale la contrattazione collettiva è stata neutralizzata e la precarietà è divenuta la norma che garantisce uno sfruttamento crescente - ciascuno si ritroverà presto solo e privo di protezioni, con i propri limiti e i propri fallimenti.

Poiché però il sistema di Welfare del dopoguerra è stato una grande operazione di redistribuzione di ricchezza e potere che muoveva dal presupposto dell’intervento dello Stato moderno nelle contraddizioni della società civile, il deserto cresciuto attorno a noi rappresenta anzitutto il segno di una grande riscossa antistatalistica delle classi proprietarie, la cui lotta di classe non è mai stata così efficace. In pochi decenni - dalla sconfitta degli operai Fiat nel 1980 al referendum sulla scala mobile e poi dagli accordi sulla concertazione e sul costo del lavoro sino al pacchetto Treu e al Jobs Act - queste classi si sono riprese con gli interessi già sul piano normativo tutto ciò che i ceti popolari erano riusciti a conquistare in centocinquanta anni di conflitto dal basso. Approfittando infine della crisi economica per ridurre al minimo la percezione stessa dei diritti sociali e per derubricare il sentimento di giustizia a innocuo moralismo impolitico.

Proprio questo è il punto fondamentale, però: a chi serve la democrazia intesa in senso pienamente moderno, quella democrazia che risulta oggi perduta in Italia come nell’«Occidente liberale», serve ai deboli o ai forti? Ai poveri o ai ricchi? A chi è già riconosciuto o agli esclusi?

Come ci ha spiegato una volta per tutte Antonio Gramsci, sono le classi subalterne ad averne più bisogno. E la storia della democrazia è in questo senso anzitutto la storia della lotta di queste classi, della loro organizzazione e della loro complicata unità, al fine di modificare rapporti di forza millenari e conquistare la dignità umana e il riconoscimento nella collettività politica.
La crisi della democrazia e la sua minimizzazione – la sua separazione da ogni elemento di socialismo -, al rovescio, è allora in primo luogo la crisi della capacità popolare di organizzarsi in classe consapevole, di confliggere e difendersi. L’incapacità degli esclusi di ricominciare a lottare contro ogni discriminazione, per portare maggiore equilibrio nelle differenze sociali e infine toglierle, per mettere in sicurezza ciò che è stato conquistato – il salario, il tempo di vita, la bellezza della partecipazione politica… - e per andare anzi ancora più avanti nella costruzione consapevole dell’unità del  genere umano.

Ma il neoliberismo odierno - ovvero il programma liberale puro e privo di ostacoli con il suo corollario post-democratico - è un destino obbligato per questa semi-colonia che è l’Italia, nella quale la retorica verbale “sovranista” dei movimenti populistici e delle destre più rozze si scontra con la realtà degli arsenali e delle armate NATO e USA presenti nel territorio?
La crescita degli squilibri sociali, della quale lo scollamento inarrestabile tra salari e profitti è plastica rappresentazione, è certamente il risultato di una sottrazione degli spazi decisionali, in seguito a una delocalizzazione dei poteri verso organismi sovranazionali e verso entità tecnocratiche irresponsabili, è vero. Ma è ancor prima il risultato di una catastrofica sconfitta sociale e politica che, pur avendo un nesso non revocabile con le vicende della Guerra Fredda e con immani trasformazioni dello scenario globale e dei rapporti di forza tra le regioni del mondo, deriva anzitutto dal venir meno della solidarietà tra le classi subalterne e dalla frantumazione della loro coscienza di sé e della loro organizzazione autonoma.
Se la democrazia è nata quando ciò che era debole e diviso si è unito, facendosi forte nel partito e nel sindacato sino a farsi riconoscere e rispettare come classe dirigente nazionale, la crisi della democrazia esplode invece quando ciò che era stato unito viene nuovamente diviso e ridiventa debole. Sino al punto che la lotta non avviene più oggi tra ciò che è in basso e ciò che è in alto, come pure viene assai spesso ritenuto dai teorici del “populismo”, ma si manifesta sempre più come una guerra tra poveri. Una guerra nella quale i più deboli non sono più in grado di comprendere le ragioni della propria sofferenza e – cosa ancor più evidente in relazione al fenomeno epocale delle migrazioni dei popoli, oggi spesso grottescamente assimilato a un fantomatico complotto sostituzionista ai danni della “razza bianca” - si scannano tra loro, esponendosi all’influenza delle destre più pericolose di vecchio come di nuovo tipo.
E’ un esito, questo, al quale purtroppo il mondo della cultura, dell’arte, della formazione, dell’università e della comunicazione – al quale in particolar modo ci rivolgiamo - non può dirsi estraneo, avendo per lungo tempo accompagnato lo slittamento a destra del quadro politico complessivo attraverso l’elaborazione di forme di coscienza ultraindividualistiche e di valori competitivi e con la contestazione relativistica dell’idea stessa di progresso, uguaglianza e giustizia sociale.

Non c’è alternativa, allora, e non ci sono scorciatoie “governiste” per chi voglia riscoprire la democrazia moderna e rilanciare – in una  fase tutt’altro che “rivoluzionaria” o anche solo espansiva - quel progetto incompiuto che la Costituzione ci ha trasmesso in eredità: non l’incubo padronale di una fantomatica democrazia immediata della rete, né il vano sforzo di condizionare o riconquistare il PD; ma un lungo lavoro di organizzazione e auto-organizzazione, di confronto e mediazione, che ricostruisca un fronte popolare tenendo insieme e facendo interagire partiti politici, forze sociali, movimenti di lotta, e che lo faccia ben al di là dell’orizzonte elettorale contingente. Un lavoro che - con umiltà e modestia - semini coerenza e intransigenza oggi per raccogliere fiducia domani.

Rinunciare, perciò, ai compromessi al ribasso e alla semplice riduzione del danno nell’ambito di un percorso di minimizzazione della democrazia e provare invece a invertire decisamente la rotta. Pur con mille insufficienze e contraddizioni - e ricominciando dopo aver appreso da quegli errori che hanno regalato militanti all’astensionismo, al Movimento 5 Stelle e alle destre -, ripensare la crisi della sinistra (che è ad un tempo la crisi della politica e della coscienza moderna) e riconquistare autonomia, per radicarci di nuovo negli interessi dei subalterni. Accumulare le forze per tornare a incidere al più presto nella realtà - anche attraverso i necessari strumenti di organizzazione, dibattito e comunicazione - e per tenere aperto l’orizzonte di una trasformazione dello stato di cose presenti.

Unire ciò che è stato diviso, ricucendo il tessuto lacerato della società
Ridare organizzazione e rappresentanza alle classi subalterne e  sostenere i popoli e i paesi oppressi o minacciati dall’oppressione
Riequilibrare i rapporti di forza nel conflitto politico e sociale
Ridistribuire ricchezza e uguaglianza nel paese e nel mondo intero
Combattere dappertutto contro il capitalismo, il colonialismo e l’imperialismo
Restituire finalmente pace e potere al popolo

Domenico Losurdo (Università di Urbino); Angelo d'Orsi (Università di Torino); Stefano G. Azzarà (Università di Urbino); Alexander Höbel (Università di Napoli “Federico II”); Davide Busetto (studente Università di Padova); Guido Carpi (Università “Orientale” di Napoli); Riccardo Cavallo (Università di Firenze) Antonello Cresti (saggista e musicologo); Raffaele D'Agata (Università di Sassari); Pierre Dalla Vigna (direttore Edizioni Mimesis); Marco Di Maggio ( Sapienza, Università di Roma); Carla Maria Fabiani (docente storia e filosofia nei licei, Lecce); Roberto Fineschi (Siena School for Liberal Arts); Francesca Fornario (giornalista e autrice satirica, Il Fatto Quotidiano); Gianni Fresu (UniversidadeFederal de Uberlandia, Brazil); Fabio Frosini (Università di Urbino); Guido Liguori (Università della Calabria); Giuliano Marrucci (giornalista, Rai-Report); Raul Mordenti (Università di Roma Tor Vergata); Alessandro Pascale (insegnante precario Storia e Filosofia, Milano); Marco Veronese Passarella (Leeds University); Donatello Santarone (Università di Roma III), Ferdinando Dubla (docente di filosofia e scienze umane, Taranto) + .....
25 gennaio 2018





martedì 16 gennaio 2018

POTERE AL POPOLO SU IL MANIFESTO


un servizio di Adriana Pollice da Napoli rompe il silenzio quasi totale dei media sulla lista della sinistra antagonista
(integrale)

Potere al popolo! giovedì prossimo sbarca nella sala stampa della camera: la lista lanciata dal video-appello dell’Ex Opg Je so’ pazzo presenterà candidati e programma per le elezioni politiche del 4 marzo, frutto dell’elaborazione di oltre 300 assemblee territoriali, e il capo politico, Viola Carofalo.

Nella mini bio Viola si definisce «lavoratrice precaria con un assegno di ricerca dell’Università Orientale, dopo aver conseguito due dottorati in filosofia».

La location è stata scelta con un obiettivo: «Portiamo alla camera le istanze di tutti coloro che hanno subito le decisioni politiche degli ultimi anni ma che si sono adoperati per far fronte alla crisi e all’impoverimento dilagante».

Domenica scorsa, a Napoli, gli attivisti hanno riempito il cinema Modernissimo per la presentazione dei candidati.

Le storie personali raccontano la piattaforma politica della lista. C’erano volti noti della sinistra come l’ex leader della Fiom Giorgio Cremaschi, l’avvocato Elena Coccia e lo storico Giuseppe Aragno accanto a una nuova generazione di protagonisti delle lotte.

Chiara Capretti è uno dei motori dell’Ex Opg (dove l’ambulatorio registra più di 1.500 visite all’anno di napoletani e migranti), tra i fondatori della rete di Solidarietà popolare per l’accoglienza dei senza fissa dimora, rete che coordina associazioni impegnate sui temi della disuguaglianza sociale, della povertà e diritti dei detenuti.

Barbara Pierro è facile incontrarla a Scampia: avvocata, nel suo quartiere lavora con l’associazione «Chi rom e… chi no» perché ci siano condizioni giuste di vita per tutti attraverso processi di emancipazione e riappropriazione dello spazio pubblico.

Salvatore Cosentino è laureato in filosofia e fa il fonico, è uno di quei lavoratori dello spettacolo che subiscono un mercato del lavoro sempre più precario e a basso costo. Anche Salvatore è facile da intercettare tra chi, a Bagnoli, si batte contro la speculazione e per la bonifica dell’ex area Italsider.

Sul palco domenica è salita anche Hazel Ndulue per spiegare che «una donna di colore non è l’oggetto delle passioni maschiliste né il colore della pelle ci identifica automaticamente come stranieri». Hazel non ha i 25 anni necessari per candidarsi ma il suo impegno a Castel Volturno è parte del lavoro di Potere al popolo! sui territori.

Sul piano nazionale, saranno in lista Lidia Menapace e Nicoletta Dosio (attivista No Tav). E poi c’è Ilaria Mugnai, 29 anni e un contratto come consulente informatico, le tasse da pagare alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, occupante casa, impegnata con i Clash city workers e parte delle Brigate di solidarietà attiva, in Abruzzo durante i giorni del terremoto.

Stefania Iaccarino è invece una di quei lavoratori Almaviva della sede di Roma che si sono rifiutati di firmare l’accordo accettato dai sindacati e poi hanno fatto ricorso contro i licenziamenti, ottenendo il reintegro.

C’è anche un pezzo del mondo del calcio che appoggia Potere al popolo! L’allenatore Renzo Ulivieri ha postato su Facebook: «Ho provato a spiegarmelo. Anche razionalmente. Sto con Liberi e uguali, il cosiddetto Pd2, perché più forza prende più riuscirà a spostare a sinistra il Pd1. Solo che per me la politica è passione. Mentre facevo questi pensieri emozione zero. Ho scelto Potere al popolo! e sarò lì. La scelta riguarda il tipo di società nella quale vogliamo vivere. O si è di sinistra o non lo si è».

Partecipa alle assemblee di Vercelli Paolo Sollier: nato in Val di Susa, figlio di operai, era il centrocampista comunista del Perugia degli anni ’70 che militava in Avanguardia Operaia e salutava la tifoseria con il pugno chiuso.



venerdì 5 gennaio 2018

Potere al Popolo sull'Ilva: ripubblicizzazione per lavoro, salute ed ambiente


Solo il controllo popolare può respingere i ricatti per il profitto e coniugare lavoro, salute ed ambiente

La questione Ilva è una bomba a orologeria pronta a esplodere. I governi Letta-Renzi-Gentiloni non hanno realizzato né il risanamento ambientale né il rilancio dell’azienda. Hanno lasciato invece che Ilva fallisse per poi svenderla al miglior offerente. Con i decreti “salva Ilva” hanno schiacciato la democrazia, rendendo impotenti gli enti locali e le organizzazioni dei cittadini e concentrando tutto il potere nelle mani del governo e dei suoi commissari. Oggi il governo agita il ricatto occupazionale: o si accettano le condizioni di Arcelor Mittal oppure salta tutto, e 15 mila lavoratori rischiano il posto. Ma i ricatti ci hanno stancato. Taranto non vuole più scegliere fra salute e lavoro. La vera scelta è fra il profitto di una multinazionale e i diritti di tutti, dentro e fuori la fabbrica. Dobbiamo essere uniti, come un solo popolo, per conquistare ciò che ci spetta.
1) Eliminazione del danno sanitario. La tutela della salute è una priorità assoluta. L’Ilva così com’è non può più esistere. Una Valutazione del Danno Sanitario preventiva deve definire i tetti massimi di produzione e le trasformazioni del processo produttivo necessari ad azzerare i rischi per la salute. Il Piano industriale deve adeguarsi rigorosamente a queste condizioni. In ogni caso, l’area a caldo va rottamata e sostituita con tecnologie innovative; i parchi minerali vanno eliminati; le attività più pesanti vanno dislocate a distanza dal centro abitato. Se lo stabilimento non sarà adeguato a queste condizioni in tempi stretti, la chiusura resterà la sola ipotesi possibile e opportuna. 
2) Potenziamento dei servizi sanitari locali. Il territorio è impreparato a fronteggiare l’emergenza sanitaria, anche a causa dei tagli alla sanità pubblica imposti negli ultimi anni dal governo e dalla Regione. Vanno ripristinati i servizi soppressi e va realizzato un polo oncologico pubblico. 
3) Una solida alternativa economica. I tanti disoccupati e precari del territorio hanno bisogno di lavoro stabile e ben retribuito. E’ necessario superare la monocultura dell’acciaio attraverso investimenti pubblici nella bonifica e nella manutenzione del territorio; nella riorganizzazione dell’agricoltura su basi cooperative; nella valorizzazione del patrimonio artistico, culturale e paesaggistico. 
4) Garanzia dei redditi e della salute dei lavoratori. La trasformazione dello stabilimento non deve generare nessun esubero; tutti devono essere preservati dagli inquinanti e lavorare in sicurezza. Per questo è necessario ridurre l’orario di lavoro (a parità di salario), abbassare l’età pensionabile e garantire un controllo operaio sull’organizzazione del lavoro. Per realizzare queste condizioni serve un Piano di riconversione, da elaborare con la partecipazione democratica dei cittadini, dei lavoratori, delle migliori competenze in campo sanitario, ambientale e industriale. Ma è anche necessario impedire la svendita a Mittal. Il suo piano ambientale non prevede nessuna delle condizioni necessarie a rendere innocuo lo stabilimento. Con la privatizzazione di Ilva rimarrebbe un danno sanitario inaccettabile, che costringerebbe la magistratura a nuovi interventi. Ilva deve essere di proprietà pubblica, e sottoposta a controllo popolare. Un futuro migliore per tutti è possibile. Per realizzarlo dobbiamo sbarazzarci dei ricatti e lottare insieme. Potere al Popolo è a disposizione di chiunque non ne può più di subire. Le prossime elezioni possono essere il momento per iniziare a riprenderci quello che ci spetta: salute, lavoro, democrazia.



martedì 2 gennaio 2018

Mauro Alboresi (PCI): la lista POTERE AL POPOLO, un'esperienza fortemente condivisa


ALBORESI, segretario PCI: la lista POTERE AL POPOLO, un'esperienza fortemente condivisa che non lede l'autonomia dei comunisti. Al lavoro nella campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo prossimo e anche oltre.
Pubblichiamo un’intervista al compagno Mauro Alboresi, Segretario Nazionale del PCI a cura della redazione del sito del PCI.
R. Sabato 30 dicembre s’è tenuto il Comitato Centrale del nostro Partito, all’ordine del giorno la questione delle prossime elezioni nazionali del 4 marzo e la linea che il PCI assumerà rispetto a questa scadenza. Puoi riferire ai nostri compagni e alle nostre compagne e tutti e tutte coloro che ci seguono l’esito del Comitato Centrale? 
M. Dopo una lunga, appassionata e a volte non facile discussione (com’è normale che sia, in relazione a passaggi delicati come questi, in cui si affrontano temi importanti come quelli della politica delle alleanze e della tattica elettorale del Partito) si è assunta, a larga maggioranza, una decisione definitiva: il PCI aderisce, per le elezioni del 4 marzo, alla Lista “Potere al Popolo”. Peraltro, lo vogliamo sottolineare, lo stesso verbo “aderisce” non è quello più indicato, poiché il PCI ha lavorato per quasi due anni al fronte di gran parte di quelle forze che oggi costituiscono “Potere al Popolo” e di questo fronte è stato protagonista centrale e riconosciuto.
R. Quali sono i motivi di fondo che hanno spinto il PCI a tale scelta?
M. Tale scelta, innanzitutto, trova le proprie ragioni profonde e originarie nella lettera e nello spirito del Documento Politico attraverso il quale, nel giugno del 2016, a Bologna, s’è tenuta l’Assemblea Costituente del PCI, un Documento che individua un percorso di crescita, politica e sociale, del nostro Partito, oltreché nell’iniziativa autonoma del PCI, anche attraverso un ruolo centrale da svolgere: quello di essere il perno di un fronte di forze comuniste, anticapitaliste, antiliberiste e di sinistra d’alternativa, un fronte popolare avente innanzitutto il compito di ricostruire, nel nostro Paese, ciò che da decenni drammaticamente è assente: un’opposizione di classe e di massa. A partire da ciò è chiaro che l’unità d’azione delle forze comuniste e di classe, delle forze politiche, sociali e sindacali più avanzate risponde soprattutto all’esigenza delle lavoratrici e dei lavoratori, dei giovani, degli immigrati, di tutto quel vastissimo mondo sociale in grande sofferenza di essere finalmente rappresentato sia sul piano politico che su quello della lotta sociale. Da troppi anni il conflitto capitale-lavoro viene guidato dai padroni: è ora che alla testa delle lotte tornino le forze anticapitalistiche e per perseguire questo obiettivo occorre innanzitutto che queste forze vengano unite. Questo è il senso più profondo della scelta del PCI, volta ad unirsi, in questa tornata elettorale, alla Lista “ Potere al Popolo”, un fronte che può andare oltre il 4 marzo. Ciò che vorremmo è che anche dopo il 4 marzo nelle piazze, davanti alle fabbriche e ai luoghi di lavoro, davanti alle scuole e dentro le università molte soggettività comuniste, anticapitaliste, della sinistra di classe, dei movimenti giovanili e di lotta – e non solo il PCI – si trovassero, unite, a lottare.
R. Nel dibattito interno al PCI si sono materializzate delle voci critiche, preoccupate che nella simbologia di “Potere al Popolo” sia assente il simbolo della falce e il martello…
M. Sono critiche che comprendiamo, che ascoltiamo non solo perché provengono dai nostri militanti, dai nostri quadri ma perchè anche noi avremmo preferito che i simboli del lavoro fossero visibili nel simbolo della lista comune. Ma a queste critiche rispondiamo che in un’alleanza politica tra diversi (non solo tra forze comuniste, ma anche di sinistra, sindacali, sociali, di movimento, com’è l’alleanza di “Potere al Popolo”) il simbolo che tiene tutti uniti è sempre una mediazione tra le parti. Ciò fa parte dell’esperienza dell’intera storia del movimento comunista mondiale, compreso il movimento comunista italiano: quando i partiti comunisti hanno ritenuto opportuno, nella loro intera e lunga storia mondiale, affrontare le elezioni assieme ad altre forze hanno sempre “fatto sintesi” attraverso un altro simbolo, che non poteva essere quello di una o più di una delle forze presenti nel fronte, nell’alleanza. Tuttavia il logo “Potere al Popolo”, con la stella rossa, tutto è meno che una simbologia moderata: “Potere al Popolo” è già di per sé un’indicazione strategica (sovranità popolare) addirittura rivoluzionaria e la stella rossa è la medesima delle bandiere dell’intero movimento comunista e rivoluzionario mondiale. Ma, dicevamo, c’è qualcosa che va ben oltre la questione simbolica: al centro delle cose c’è l’esigenza strategica dell’unità delle forze comuniste, anticapitaliste, della sinistra politica e sindacale di classe affinché si possa rilanciare una lotta sociale vasta, che abbia l’obiettivo di cambiare finalmente i rapporti di forza, nel nostro Paese, tra capitale e lavoro. E, certo, un obiettivo sociale così alto il PCI, oggi, non può perseguirlo da solo …
R. Nel nostro dibattito interno è emersa a volte un’altra preoccupazione: in questa esperienza unitaria può appannarsi l’autonomia del PCI?
M. L’autonomia del PCI non è data dalla sua politica delle alleanze a sinistra. Essa proviene dalla forza del suo pensiero politico e teorico e dalla sua prassi. E da questo punto di vista credo di poter dire che siamo largamente garantiti, nel senso che dal processo della costituente comunista ad oggi il nostro pensiero politico generale, volto ad un’analisi del quadro internazionale e nazionale, si sia irrobustito notevolmente (anche se c’è da irrobustire la nostra prassi e la nostra lotta sociale e politica). Occorre, invece, sottolineare un aspetto decisivo che risiede nella costruzione delle alleanze: è dentro le alleanze con le forze politiche e sociali più avanzate, è nelle lotte che si portano avanti assieme a queste forze, è nell’azione di massa, che vede i comunisti e le comuniste svolgere un ruolo protagonista, che il PCI cresce, che si dà, appunto, una linea di massa che, unica via, può davvero far si che il Partito ricostruisca i legami di massa, il radicamento e l’organizzazione. Un PCI volto all’isolamento sociale e politico sarebbe un bambino già morto in fasce…
R. Possono esserci problemi d’ordine programmatico, nell’alleanza con “Potere al Popolo”?
M. Il programma di un fronte largo non è mai il programma di uno dei soggetti del fronte. Ma nel programma di “Potere al Popolo”, al quale abbiamo dato un notevole contributo, vi sono punti alti e centrali di condivisione: la critica delle politiche imperialiste e della NATO, la lotta contro il riarmo, la critica radicale dell’Unione europea liberista e dei Trattati, il primato della lotta antifascista, la critica serrata alle politiche del PD e del “renzismo”, la critica radicale ai nuovi cartelli elettorali e alle politiche del “centro-sinistra”, l’esigenza di costruire un’alternativa sociale e politica di classe e di massa. Punti centrali sui quali il PCI conviene pienamente e che ci parlano di un’esperienza unitaria che nulla ha a che vedere con altre e precedenti esperienze, quali l’Arcobaleno e Rivoluzione Civile. Qui, in “Potere al Popolo”, la cifra sociale e politica espressa è comunista, anticapitalista, di sinistra d’alternativa e di classe. E lasciatemi dire: vi è un “linguaggio politico”, espresso innanzitutto da quel forte movimento giovanile che fa parte di “Potere al Popolo”, che riesce ad innovare e rafforzare l’intero “discorso politico” di quest’alleanza. E’ un linguaggio, questo dei giovani, di tipo chiaramente comunista, di classe e chiaramente proveniente (per come affronta le questioni della diffusione della precarietà, anche esistenziale, dei giovani, dell’assenza del lavoro, dell’assenza delle garanzie sociali e dello stesso loro futuro) dalle concrete e vive contraddizioni sociali vissute dai giovani stessi. Un linguaggio politico innovativo che può far molto bene anche al nostro Partito.
Tutto ciò ci garantisce, sul piano elettorale? Certo che no: la garanzia di un successo elettorale ce l’avrebbe forse data solo un’alleanza subordinata con il PD o con il centro sinistra. Una scelta che sarebbe stata la nostra morte politica. C’è solo una strada, in questa ormai avviata campagna elettorale, che può portarci ad un risultato positivo: l’impegno strenuo – in ogni piazza, in ogni strada, in ogni casa – volto a popolarizzare le nostre ragioni, le nostre idee, la nostra lotta. E c’è un modo solo di portare avanti questo impegno: l’investimento di tutte le forze del PCI e la loro totale unità d’azione con l’intero fronte di “Potere al Popolo”. Indipendentemente, persino, dall’esito elettorale (per il quale esito positivo dobbiamo tuttavia e naturalmente lavorare con tutte le nostre forze) si raggiungeranno altri importanti obiettivi: l’immersione del nostro Partito in una più vasta azione di massa (base primaria per la stessa crescita del PCI) e, se lavoriamo bene, la nascita di un fronte comunista e anticapitalista per le lotte future in questo Paese. Abbiamo molto e giustamente discusso, care compagne e cari compagni. Ora, a cominciare dalla raccolta delle firme per la presentazione della Lista “Potere al Popolo”, alla lotta!