Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 28 febbraio 2019

Nel centenario dell'assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg


Jorge Cadima

- Le recenti commemorazioni ufficiali dell'Armistizio che, 100 anni fa, segnò il cessate il fuoco dei cannoni nella prima guerra mondiale sono state uno spettacolo indecoroso. Come è stato scritto nelle pagine di “Avante!”, a proposito di queste celebrazioni, "si parla di pace, ma si prepara la guerra" (1). E si cerca di riscrivere la verità storica della Grande Guerra, una guerra delle classi dominanti delle grandi potenze capitaliste del loro tempo, in conflitto tra loro per mercati, materie prime e controllo territoriale, come descritto in profondità e con lucidità nell'opera di Lenin (2). È una verità storica che deve essere ricordata e che contiene insegnamenti per i nostri giorni.

Come scrive lo storico Jacques Pauwels (3), la prima guerra mondiale fu una guerra voluta dalle classi dominanti di tutti i paesi belligeranti, di fronte all'ascesa di un movimento operaio organizzato che stava emergendo come attore principale nella scena storica e che era il portatore della domanda di giustizia sociale e democrazia politica. Scrive Pauwels: "Al momento in cui la guerra esplode, l'élite esulta, e con buona ragione: gli scioperi e gli altri problemi sociali vengono interrotti e rimossi bruscamente, e anche la minaccia rivoluzionaria, reale o presunta, scompare. [...] La democratizzazione fino ad allora apparentemente irresistibile, subisce una battuta d'arresto: le conquiste sociali sono sistematicamente rimosse. [...] Nell'agosto del 1914 le élite avevano ragione di rallegrarsi, e lo hanno fatto in tutti i paesi che poi sono entrati in guerra. Erano per lo più sollevate dal fatto che la guerra all'estero portava la pace in patria, che lo scatenarsi di un conflitto internazionale neutralizzava i conflitti sociali all'interno del proprio paese, bandiva la rivoluzione e trasformava in “buoni cittadini” coloro che avevano dato corpo al pericolo rivoluzionario, cioè, i proletari, fino ad alloora scontenti e recalcitranti" (4).
La "pace sociale" “scoppiata” nel 1914 è stata possibile solo a causa del tradimento della grande maggioranza dei leader del movimento operaio, in particolare dei suoi partiti e sindacati socialdemocratici, che hanno fatto a brandelli le loro dichiarazioni di opposizione alla guerra del grande capitale e in difesa della Pace (5), approvando i bilanci di guerra e, in molti casi, entrando nei rispettivi governi. Fu una piccola ma lucida minoranza, all'interno del movimento operaio, a tenere alta la bandiera dell'opposizione alla guerra imperialista, una minoranza da cui sarebbe emerso il movimento comunista internazionale. La massima fedeltà ai principi marxisti venne manifestata da Lenin, che difese l'opposizione in ogni paese ai governi della guerra e la trasformazione della guerra imperialista in una rivoluzione sociale. In Germania, furono Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg che, insieme ad altri leader del movimento operaio tedesco, organizzarono l'opposizione alla guerra, formarono la Lega Spartaco (rapidamente messa al bando) e, nel 1918-1919, fondarono il Partito comunista tedesco (KPD).
Nella sua "Lettera ai lavoratori di Europa e America" (6), Lenin scrisse nel 1918: "Karl Liebknecht è un nome ben noto dei lavoratori di tutti i paesi. Ovunque, e in particolare nei paesi dell'Intesa, questo nome è il simbolo della dedizione di un leader agli interessi del proletariato, della fedeltà alla rivoluzione socialista. Questo nome è il simbolo di una lotta veramente sincera, di una lotta veramente disinteressata, di una lotta implacabile contro il capitalismo. Questo nome è il simbolo di una lotta senza compromessi contro l'imperialismo, non a parole ma in azioni, di una lotta disinteressata proprio mentre il "suo" paese è intossicato dalle vittorie imperialiste ".
La fedeltà ai principi di Liebknecht e Luxemburg fu pagata a caro prezzo. Durante la guerra, entrambi trascorsero più di due anni in prigione, nonostante Liebknecht fosse un membro del parlamento e godesse dell'immunità parlamentare. Ma il peggio doveva ancora venire.

Se la Grande Guerra era stata iniziata dalle classi dominanti, la fine della guerra fu in gran parte opera dei popoli, che rifiutarono di continuare a combattere, entrando in aperta rivolta. La vittoria della Grande Rivoluzione Socialista d'Ottobre (7 novembre 1917) in Russia rappresentò un momento di svolta nel corso della guerra (e nella storia dell'umanità). Il suo esempio e l'interminabile prolungamento dei combattimenti sponsero i soldati e i marinai tedeschi, prima alle diserzioni di massa e, un anno dopo, alla rivolta. Dal 29 ottobre 1918 i marinai tedeschi si ribellarono contro gli ordini di combattere e assunsero il controllo, con il sostegno degli operai, di numerose città industriali nel nord della Germania. Il 9 novembre la rivoluzione arrivava nella capitale, Berlino. Il Kaiser (imperatore) veniva rovesciato e, a poche ore di distanza, la Repubblica veniva proclamata due volte: una dal socialdemocratico Scheidemann e l'altra da Liebknecht. Due giorni dopo veniva firmato l'Armistizio.
I mesi seguenti furono segnati da un'alleanza di tutti i rappresentanti del vecchio ordine per reprimere ferocemente l'embrionale rivoluzione tedesca. Il governo appena formato, egemonizzato dalla socialdemocrazia (SPD), scatenò una feroce e sanguinosa repressione che avrebbe ucciso oltre 20.000 rivoluzionari tedeschi nei due anni seguenti (7) in campagne molte volte apertamente militari contro i quartieri della classe operaia. In questa repressione, legata per sempre ai nomi dei due leader SPD, Ebert e Noske, i gruppi armati di ufficiali ed ex soldati, noti come Freikorps, giocarono un ruolo centrale. Per la ferocia della repressione, e per molti dei suoi protagonisti, gli anni 1918-20 furono l'anticipo dell'ascesa al potere di Hitler poco più di un decennio dopo, fatto che spiega anche il profondo rifiuto e la sfiducia nei confronti della socialdemocrazia della parte più conseguente dei lavoratori tedeschi.
Tra le prime vittime della repressione governativa ci furono Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, assassinati nel gennaio del 1919, mentre erano detenuti dalle autorità. Il corpo senza vita di Rosa Luxemburg ricomparirà, giorni dopo, mentre galleggiava in un canale. Consapevoli delle debolezze politiche del movimento rivoluzionario, consideravano prematuro ogni tentativo di conquistare il potere con la forza, ma non esitarono ad assumere il proprio ruolo nella prima linea delle lotte in corso (8). Il loro assassinio avvenne mentre Lenin stava scrivendo la sua "Lettera" ai lavoratori di Europa e America ": "Le righe precedenti sono state scritte prima del selvaggio e vile assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg da parte del governo di Ebert e Scheidemann. Questi carnefici, strisciando davanti alla borghesia, hanno permesso alle guardie bianche tedesche, i cani da guardia della sacra proprietà capitalista, di linciare Rosa Luxemburg, di assassinare Karl Liebknecht con un colpo alla schiena. Non ci sono parole per esprimere tutta l'infamia e la bassezza di questa azione da carnefici, commessa dai cosiddetti socialisti ".

Nel suo discorso al primo congresso dell'Internazionale Comunista (2-6 marzo 1919), Lenin affermò: "Nel più sviluppato paese capitalista d'Europa, la Germania, dopo i primi mesi di libertà repubblicana, portata dalla sconfitta della Germania imperialista, è stato mostrato agli operai tedeschi e al mondo intero quale è la reale essenza di classe della repubblica democratica borghese. L'assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg ha rappresentato un evento di importanza storica mondiale, non solo perché sono morti tragicamente gli elementi migliori e i capi dell'internazionale veramente proletaria, l'Internazionale Comunista, ma anche perchè uno stato europeo avanzato - si può dire senza esagerare uno stato avanzato su scala mondiale - ha rivelato pienamente la sua essenza di classe. Se persone in prigionia, vale a dire, persone che sono poste sotto la guardia del potere statale, possono essere impunemente uccise da ufficiali e capitalisti sotto un governo di social-patrioti, di conseguenza la repubblica democratica in cui è possibile una cosa del genere è una dittatura della borghesia”.

- In uno dei loro ultimi testi, "Un appello ai lavoratori del mondo”, pubblicato poco prima della loro morte, nel novembre 1918, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (insieme ad altri importanti capi spartachisti, Clara Zetkin e Franz Mehring) avvertivano sui pericoli di ciò che si stava avvicinando: "L'imperialismo di tutti i paesi non conosce gli" accordi ", riconosce solo un diritto: il profitto del capitale; conosce solo un linguaggio: quello della spada; conosce solo un metodo: la violenza. E se ora parla in tutti i paesi, nei vostri come nel nostro, sulla "Società delle Nazioni", sul "disarmo", i "diritti delle piccole nazioni", l' "autodeterminazione", utilizza solo le bugiarde frasi ad effetto dei governanti, allo scopo di ingabbiare, fino ad addormentarla, la vigilanza del proletariato". Profeticamente, affermavano: "Ricordate che i vostri capitalisti vittoriosi sono pronti ad annegare la nostra rivoluzione nel sangue, che temono tanto quanto la vostra. [...]. Se le vostre classi dominanti riusciranno a strangolare la rivoluzione proletaria in Germania e in Russia, si rivolgeranno contro di voi con rinnovata violenza. I vostri capitalisti si aspettano che la vittoria su di noi, e sulla Russia rivoluzionaria, gli darà la forza di frustarti con una frusta ". Anticipando le conseguenze che la 'pace dei vincitori' imposta in seguito a Versailles, avrebbe portato, trascinando al disastro economico in Germania, alimentando l'ascesa di Hitler e la Seconda Guerra Mondiale, affermavano: "Ciò che le classi al governo annunciano come la pace e la giustizia è solo una nuova opera di forza brutale, dalla quale emergeranno le mille teste dell'idra dell'oppressione, dell'odio e di nuove e sanguinose guerre”.

Note
(1) Albano Nunes, «Armistício e verdade histórica», Avante!, 15.11.2018.

(2) O Imperialismo, Fase Superior do Capitalismo, in Obras Escolhidas de Lénine em seis tomos, t. 2, ed. «Avante!», 1984.

(3) Jacques R. Pauwels, 1914-1918. La Grande Guerra Des Classes, Éditions Aden, 2014.

(4) J. R. Pauwels, op. cit., p. 299 e seguintes.

(5) O Socialismo e a Guerra,Lénine, op. cit., t. 2, ed. «Avante», 1984.

(6) Carta aos Operários da Europa e da América, Lénine, op. cit., t. 4, ed. «Avante!», 1986.

(7) Nigel Jones, The birth of the Nazis – How the Freikorps blazed a trail for Hitler, ed. Robinson (2004), p. 203.

(8) Artigo de Eduardo Chitas, «Nos 85 anos do assasínio de Karl Liebknecht e Rosa Luxemburgo», in O Militante,Março-Abril/2004; e o texto de Rosa Luxemburgo, «A ordem reina em Berlim», in O Militante,Setembro-Outubro/2009 (com a introdução «Em memória de uma 'águia'»).

di Jorge Cadima
da "O Militante", rivista teorica del Partito Comunista Portoghese, n° 358 gennaio-febbraio 2019
Traduzione di Mauro Gemma per Marx21.it


lunedì 18 febbraio 2019

Petizione: NO ALLA SECESSIONE DEI RICCHI


redatta da: Gianfranco Viesti su Change.org

Il Veneto, la Lombardia e sulla loro scia altre undici Regioni si sono attivate per ottenere maggiori poteri e risorse. Su maggiori poteri alle Regioni si possono avere le opinioni più diverse. Ma nei giorni scorsi è stata formalizzata dal Veneto (e in misura più sfumata dalla Lombardia) una richiesta che non è estremo definire eversiva, secessionista.
  • Per la stima delle risorse che lo Stato dovrebbe trasferire alle Regioni per le nuove competenze, la Regione Veneto propone di calcolare i “fabbisogni standard” in modo inaccettabile, tenendo conto non solo dei bisogni specifici della popolazione e dei territori (quanti bambini da istruire, quanti disabili da assistere, quante frane da mettere i sicurezza) ma anche del gettito fiscale e cioè della ricchezza dei cittadini. In pratica i diritti (quanta e quale istruzione, quanta e quale protezione civile, quanta e quale tutela della salute) saranno come beni di cui le Regioni potranno disporre a seconda del reddito dei loro residenti. Quindi, per averne tanti e di qualità, non basta essere cittadini italiani, ma cittadini italiani che abitano in una regione ricca. Tutto ciò è in aperta violazione con i principi di uguaglianza scolpiti nella Costituzione. Non solo: per raggiungere questi risultati discriminatori, si sfrutta un vuoto normativo denunciato più volte dalla Corte costituzionale: dal 2001, infatti, nessun Governo ha trovato il tempo di definire i LEP, i livelli essenziali delle prestazioni sociali e civili da garantire in misura omogenea a tutti i cittadini italiani, ovunque residenti. E se non si sa “quanto costano” i LEP, come si può stabilire l'entità delle risorse da assegnare alle Regioni per garantirne il godimento ai cittadini? Ove si procedesse all'incontrario, ovvero: prima trasferire risorse alla Regioni, poi stimare il costo dei LEP, qualcuno potrebbe accaparrarsi più del necessario senza che sia evidente a chi lo stia togliendo. È inaccettabile che in diciassette anni non si sia fissato il valore dei LEP, a vantaggio di tutti i cittadini italiani, mentre in pochi mesi si sia arrivati alle battute consultive del processo di autonomia differenziata, a vantaggio di pochi.
  • La Regione Veneto ha chiesto di avere potere esclusivo su materie che vanno dall'offerta formativa scolastica (potendo anche scegliere gli insegnanti su base regionale), ai contributi alle scuole private, i fondi per l'edilizia scolastica, il diritto allo studio e la formazione universitari, la cassa integrazione guadagni, la programmazione dei flussi migratori, la previdenza complementare, i contratti con il
    personale sanitario, i fondi per il sostegno alle imprese, le Soprintendenze, le valutazioni sugli impianti con impatto sul territorio, le concessioni per l'idroelettrico e lo stoccaggio del gas, le autorizzazioni per elettrodotti, gasdotti e oleodotti, la protezione civile, i Vigili del Fuoco, strade, autostrade, porti e aeroporti (inclusa una zona franca), la partecipazione alle decisioni relative agli atti normativi comunitari, la promozione all'estero, l'Istat, il Corecom al posto dell'Agcom, le professioni non ordinistiche. E altro, perché l'elenco è incompleto. In questo modo, verrebbero espropriati della competenza statale tutti i grandi servizi pubblici nazionali e verrebbe
    meno qualsiasi possibile programmazione infrastrutturale in tutto il Paese.
  • La Regione Veneto propone pure che il Parlamento dia una delega totale e al buio al Governo e che tutte le decisioni siano prese da una Commissione tecnica Italia-Veneto. Secondo la Costituzione non può essere così: il Parlamento non può essere espropriato del diritto-dovere di legiferare su questioni decisive per il futuro dell'Italia. Siamo di fronte a uno stravolgimento delle basi giuridiche su cui è sorta la Repubblica italiana. Una materia di tale portata non può e non deve essere risolta nei colloqui fra una rappresentante del Governo e uno della Regione interessata
    (oltretutto, dello stesso partito e della medesima regione). Tutti i cittadini italiani hanno il diritto di essere coinvolti nella decisione, che riguarda tutti, sia attraverso i propri rappresentanti parlamentari, sia attraverso un grande dibattito pubblico, in cui porre in luce e discutere obiettivi, contenuti e conseguenze di tali proposte. Solo così i cittadini possono valutare e decidere.
PERTANTO i sottoscritti cittadini italiani chiedono al Presidente della Repubblica e ai Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati
  • che ai parlamentari sia garantito il diritto-dovere di intervenire in tutti i passaggi della procedura su una questione fondamentale, con una approfondita discussione e analisi nelle Camere e che, contemporaneamente, sia garantito il diritto dei cittadini a essere informati dettagliatamente e costantemente, attraverso la tv pubblica, il coinvolgimento di esperti indipendenti e il confronto fra tesi diverse;
i sottoscritti cittadini italiani, in secondo luogo, chiedono ai parlamentari di tutti gli schieramenti
  • che nessun trasferimento di poteri e risorse a una Regione sia attivato finché non siano definiti i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" (art. 117, lettera m della Costituzione); e che il trasferimento di risorse sulle materie assegnate alle Regioni sia ancorato esclusivamente a oggettivi fabbisogni dei territori, escludendo ogni riferimento a indicatori di ricchezza.

* Gianfranco VIESTI, docente di economia, Università di Bari;

firme: et alii
su https://www.change.org/p/gianfranco-viesti-no-alla-secessione-dei-ricchi


giovedì 14 febbraio 2019

martedì 12 febbraio 2019

LA SCUOLA E’ MERCE


conclusi i cosiddetti ’giorni aperti’ (”open day” per i proni all’imperialismo, anche culturale e linguistico, la Crusca è in altre faccende affaccendata), le scuole si richiudono. La scuola, nel sistema capitalista, è merce tra le merci, negozi in cerca di clientela: “non dobbiamo essere particolarmente severi, altrimenti perdiamo iscritti” si ascolta nei collegi, nei consigli. E se il negozio chiude, tu perdi il lavoro. Le vetrine del negozio scolastico contengono PON, PTOF, progetti, attività aggiuntive, in cerca di finanziamenti, denaro per tenere aperto il negozio. Solo per pudore non si issa il cartello “qui non si fa lezione”, che attirerebbe iscritti in quantità esorbitante.

- ci dicono che il grande, ‘vecio’ Marx sia anacronico, desueto, inutile: ci ricorda infatti che le forme sovrastrutturali sono determinate dalle strutturali, e dunque anche la scuola risente ovviamente della ‘formazione economico-sociale’ del capitalismo: dittatura del denaro, del profitto, della merce. Appunto.

direttamente in concessionaria, anche sabato e domenica (fe.d.)


sabato 9 febbraio 2019

SCUOLA: UNA SECESSIONE DI CLASSE


di Marina Boscaino
Coordinamento naz. per la scuola della Costituzione



Negli anni appena passati quello della scuola è stato uno dei pochi settori in cui si è riusciti a mobilitare forze per contrastare azioni di governo che andavano ad accelerarne il processo di aziendalizzazione, inaugurato dall’Europa (già allora) delle banche e delle finanze addirittura prima del Trattato di Maastricht, negli anni ’80.
Anche coloro che non sono insegnanti e studenti ricorderanno senza dubbio quando, nel 2012 (governo Monti) il ministro Profumo propose l’aumento dell’orario di lezione a parità di salario. I docenti risposero in modo talmente intransigente, che l’iniziativa fu immediatamente cassata (benché periodicamente sia rispuntata fuori o evocata da governi di centro destra e di centro sinistra). C’è poi l’indimenticabile esempio della stagione di lotte che si sviluppò in occasione della discussione in Commissione di quella che sarebbe stata la legge 107/15 (la sedicente Buona Scuola), che – grazie a quella mobilitazione straordinaria – passò con voto di fiducia in Senato. Il 24 aprile di quell’anno il sindacalismo di base e poi il 5 maggio i confederali – insieme agli scioperi no Invalsi e degli scrutini di fine anno – animarono quella stagione, con una partecipazione straordinaria di docenti, studenti e genitori. Il voto di fiducia e poi l’immediato deporre le armi soprattutto da parte di Cgil Cisl e Uil hanno prodotto una grande stanchezza tra i docenti, rassegnati, sconfitti, desolati, non di rado complici della applicazione di una norma che tende a decostituzionalizzare la scuola italiana. In questi 3 anni di applicazione della legge il mondo della scuola ha taciuto, non riuscendo nemmeno a portare a casa il risultato delle 500mila firme che sarebbero state necessarie per giungere al referendum su 4 temi particolarmente critici di quell’odiosa norma.
In quella circostanza il M5S – pur non muovendo un dito o quasi per giungere al numero di firme (non amano partecipare a battaglie che non sono intestate direttamente a loro e lì il fronte era costituito da Flcgil, Cobas, Unicobas e Lipscuola) – tuonò fuoco e fiamme contro  alternanza, School Bonus, poteri discrezionali del dirigente scolastico, comitato di valutazione (i temi dei quesiti).
Nella campagna elettorale del 2018, i 5 stelle hanno fatto dell’abrogazione della 107/15 il proprio cavallo di battaglia. All’art. 22 del “contratto di governo” stipulato da Lega e 5stelle si legge testualmente: “In questi anni le riforme che hanno coinvolto il mondo della scuola si sono mostrate insufficienti e spesso inadeguate, come la c.d. “Buona Scuola”, ed è per questo che intendiamo superarle con urgenza per consentire un necessario cambio di rotta”.
Tutto ci si sarebbe potuto aspettare (in una visione ingenua della realtà) tranne che il sedicente “governo del cambiamento” si ponesse in una condizione di assoluta continuità con Renzi e Gentiloni, ma anche con tutte le operazioni che – dall’autonomia scolastica in poi – hanno intenzionalmente allontanato la scuola dal dettato costituzionale.
Sta accadendo infatti una cosa estremamente grave, di cui tutti – anche coloro che non sono lavoratori e studenti, ma che abbiano a cuore la democrazia e la funzione che la scuola pubblica come organo costituzionale è tenuta ad esercitare – dovremmo farci carico. E su cui sarebbe auspicabile che soprattutto i docenti si riappropriassero del proprio mandato politico.
Stanno passando pressoché inosservate le possibili conseguenze sul sistema nazionale dell’istruzione dell’iniziativa della Regione Veneto sull’”autonomia differenziata” (cui segue quella, assai simile anche se un po’ meno estrema, della Lombardia e dell’Emilia Romagna). Si tratta di un disegno di legge delega che – nelle intenzioni delle regioni e del governo – dovrebbe essere approvato dal Parlamento nazionale (su impulso del governo, ed in particolare della ministra per gli affari regionali Erika Stefani, leghista del Veneto). L’inizio della discussione nel merito è fissata per il 15 febbraio.
Il dispositivo è più ampio: l’articolo 116, terzo comma, della Costituzione prevede infatti la possibilità di attribuire forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario (c.d. “regionalismo differenziato” o “regionalismo asimmetrico”, in quanto consente ad alcune Regioni di dotarsi di poteri diversi dalle altre), ferme restando le particolari forme di cui godono le Regioni a statuto speciale (art. 116, primo comma). L’ambito delle materie nelle quali possono essere riconosciute tali forme ulteriori di autonomia concernono:
  • tutte le materie che l’art. 117, terzo comma, attribuisce alla competenza legislativa concorrente;
  • un ulteriore limitato numero di materie riservate dallo stesso art. 117 (secondo comma) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
Tra queste, ad esempio, istruzione e sanità. La bozza della proposta del Veneto prevede:
1) – 2) Norme generali sull’istruzione – Istruzione:
Sono attribuite alla Regione del Veneto le competenze legislative e amministrative dirette a:
  1. consentire l’ottimale governo, la programmazione, inclusa la programmazione dell’offerta formativa e della rete scolastica – compresi l’orientamento scolastico, la disciplina dei percorsi di alternanza scuola-lavoro – la programmazione dell’offerta formativa presso i Centri Provinciali Istruzione Adulti e la valutazione del sistema educativo regionale, in coerenza con gli elementi di unitarietà del sistema scolastico nazionale e nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni scolastiche;
  2. disciplinare l’assegnazione di contributi alle istituzioni scolastiche paritarie con le correlate funzioni amministrative;
  3. regionalizzare i fondi statali per il sostegno del diritto allo studio e del diritto allo studio universitario;
  4. regionalizzare il personale della scuola, compreso il personale dell’Ufficio scolastico regionale e delle sue articolazioni a livello provinciale;
6) Ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi: sono attribuite alla Regione del Veneto competenze legislative e amministrative volte a:
  1. programmare, nel rispetto dell’autonomia delle Istituzioni universitarie e in coerenza con la programmazione delle Università, d’intesa con le Università, l’attivazione di un’offerta integrativa di percorsi universitari per favorire lo sviluppo tecnologico, economico e sociale del territorio;
  2. disciplinare la programmazione strategica e gli interventi di sostegno in tema di ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico nonché lo sviluppo delle Reti Innovative Regionali e di altre forme aggregative di impresa;
Una richiesta che va interpretata per giunta alla luce della necessità di attribuire risorse finanziarie aggiuntive – sottratte peraltro alle altre Regioni – rispetto a quanto speso oggi dallo Stato in Veneto, facendo leva sul calcolo di parametri che tengono conto anche del gettito fiscale superiore, ossia del maggior reddito dei Veneti. L’equazione è, dunque, impropriamente, più reddito = più servizi pubblici. Si tratta di una conseguenza, ventilata diverse volte, soprattutto dalle regioni amministrate dalla Lega, della nefasta Riforma del Titolo V della Costituzione (2001). L’operazione non solo rischia di stravolgere completamente il principio di solidarietà, previsto all’art. 2 della Carta, ma anche quello di uguaglianza, previsto dall’art. 3.
La configurazione di 20 sistemi scolastici a marce differenti (perché determinati sulla base del gettito fiscale erogato in ciascuna regione) segnerà inevitabilmente il passaggio da una scuola organo dello Stato, unitario e garante di un livello di istruzione analogo in tutte le regioni italiane, ad un sistema a marce differenti e differentissime, configurando – di conseguenza  – cittadini di serie A e di serie B: gli ultimi della società non avranno più alcuna speranza che la Repubblica, attraverso la scuola, organo costituzionale, rimuova gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona. Perché la scuola non sarà più quella della Repubblica e della Costituzione. Le regioni autonomamente gestiranno temi fondamentali come il trattamento del personale, la valutazione, la programmazione dell’offerta formativa, l’orientamento, l’alternanza scuola-lavoro, liberandosi in tal modo degli scomodi orpelli e lacciuoli dei principi fondamentali della Carta e gettandosi a capofitto in uno spregiudicato inserimento del sistema formativo in un libero mercato, affatto garante di qualità, certamente  foriero di profitto, a discapito del diritto allo studio e all’apprendimento e alle pari opportunità.
Grazie alla Buona Scuola, di cui questo percorso rappresenta una coerente continuazione (non a caso esso è stato avviato in extremis dal ministro Valeria Fedeli, del governo Gentiloni, di marca PD) potrebbe realizzarsi lo stretto collegamento tra “scopi e metodi della scuola con il mondo del lavoro e dell’impresa” che rappresenta uno degli obiettivi fondamentali della “Buona Scuola”, dove le imprese saranno parte attiva (e profittevole, sia dal punto di vista economico che ideologico) del processo.  Al contempo, allontanare da una parte la scuola unitaria dalla sua funzione istituzionale, culturale e politica di luogo della riflessione sulla cultura nazionale, per dar vita ad istanze localistiche – si pensi alla lengua veneta – configura una visione divisiva che in un tessuto storicamente fragile come il nostro potrebbe provocare danni enormi. Infine, si configura la dismissione definitiva della funzione emancipante della cultura e del sapere disinteressato di gramsciana memoria, sostituendo l’ideologico ricorso alle competenze alla conoscenza e all’apprendimento.
Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione prevede una procedura di approvazione dell’autonomia differenziata che si incentra in tre passaggi procedurali:
  • parere degli enti locali;
  • intesa Regione-Stato (anche su iniziativa regionale);
  • legge dello Stato approvata a maggioranza assoluta da entrambe le Camere. Considerata la scadenza del 15 febbraio, siamo quasi fuori tempo massimo.
È giunto il momento, dopo anni di sopore, che la scuola democratica italiana e tutte le forze democratiche del Paese abbandonino la propria inerzia e si uniscano in difesa dell’uguaglianza e delle pari opportunità per tutte e tutti. Il sedicente governo del cambiamento (con l’arrembante aggressività della Lega e gli omertosi silenzi del M5S) promette di inasprire ulteriormente le condizioni di diseguaglianza e di convivenza (in)civile non solo con la vergognosa partita che si sta giocando sulla pelle dei migranti; ma persino ai danni dei cittadini del Nord e del Sud del territorio nazionale.

venerdì 8 febbraio 2019

Caracas, bottino di un premio più grande


Roberto Livi per Il Manifesto

(..) Avendo come obiettivo dichiarato il cambio di un governo eletto, l’Amministrazione Trump ha convertito una crisi regionale in una lotta di potenze mondiali. Il petrolio non è la sola, e forse nemmeno la maggiore ragione. Come accade in molti conflitti di potere, il Venezuela è il bottino di un premio più grande. Per Trump rappresenta la possibilità di riprendere il controllo di tutto il subcontinente latinoamericano dopo quindici anni di «marea rosa» – ovvero di governi progressisti, più o meno radicali ,in molti stati latinoamericani che hanno messo in causa il dominio degli Usa-, di marginalizzare l’influenza della Russia e, soprattutto, di arrestare l’espansione della Cina.
La settimana scorsa The Wall Street Journal ha informato che da tempo alti funzionari dell’Amministrazione Usa hanno due obiettivi principali: bloccare l’avanzata della Cina e tenere sotto scacco Cuba. Abbattere il governo bolivariano in Venezuela permetterebbe ai falchi di Trump di ottenere entrambi gli obiettivi. Ma devono farlo in fretta. Ogni giorno che Maduro conserva il potere dà alla Russia e alla Cina la possibilità di cercare un risultato che permetta loro di non restare tagliati fuori dal Venezuela. Per questo la Casa bianca e il loro uomo a Caracas sono decisi a recitare il de profundis a ogni forma di trattativa. (..) 
“Riconoscendo la presidenza di Juan Guaidó in Venezuela e riservandogli i proventi del petrolio venezuelano negli Usa, Donald Trump ha messo in moto una spirale di violenza e caos di dimensioni drammatiche che potrebbe avere inizio in Venezuela in tempi brevi. L’appoggio a questa strategia di strangolamento del governo bolivariano da una serie di paesi dell’Ue – oltre che da quelli latinoamericani del Gruppo di Lima- non fa che accelerare i tempi.
Secondo le stime dell’Amministrazione Usa le sanzioni statunitensi costeranno all’economia venezuelana 11 miliardi di dollari, più del 90% della spese attuate lo scorso anno dal governo bolivariano per importare prodotti essenziali per il paese. Le sanzioni europee accresceranno lo strangolamento e – tenendo conto che simili sanzioni internazionali l’anno scorso hanno prodotto una perdita di circa 20 miliardi di dollari per il governo bolivariano – potranno produrre una catastrofe economica e umanitaria senza precedenti in America latina.
Obiettivo principale di tale strategia sono le Forze armate bolivariane che – a causa della politica di ingerenza di Trump e Ue – sono diventate l’asse politico del Venezuela. Il ricatto che viene posto al vertice militare venezuelano è semplice e drammatico: o abbandona il presidente costituzionale Maduro o il paese dovrà affrontare una catastrofe economica. In sostanza, o vi sarà un «cambio di regime» o la morte per fame.
Per gli «alti gradi» che dovessero accettare il ricatto è stata offerta «una esenzione dalle sanzioni». Come è stato già proclamato dai governi Usa in occasione di precedenti e catastrofici interventi in Afghanistan, Iraq, libia e Siria, anche l’Amministrazione Trump afferma che la crisi innescata dalla sua politica di ingerenza o di intervento diretto avrà una soluzione rapida che beneficerà tutti i «buoni»: Maduro sarà costretto ad andarsene, la democrazia sarà «ristabilita» e le grandi riserve di petrolio del paese saranno di nuovo sotto controllo delle multinazionali (come ha messo in chiaro il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Bolton).
Anche in questo caso i falchi di Trump stanno drammaticamente sottostimando i rischi supponendo che i militari («corrotti») venezuelani siano disposti a voltar gabbana e soprattutto che lo facciano in modo ordinato e disciplinato, senza dividersi e dar inizio a una guerra civile; che il governo Maduro non abbia una base di appoggio popolare; che gli alleati del Venezuela come Russia, Cuba e – seppur più pragmaticamente – Cina, non abbiamo la volontà o l’interesse per appoggiare il governo bolivariano. La storia recente ha dimostrato che la politica di government changing degli Usa è stata quantomeno inefficiente e spesso criminale. In Iraq, Libia e Siria ha provocato una serie infinita di sanguinosi conflitti armati interni.
In Afganistan, dopo aver guidato un intervento armato durato 18 anni a capo di una coalizione internazionale contro i «terroristi talebani», oggi gli Usa stanno trattando un accordo di pace con i medesimi talebani. Non si capisce quali siano le garanzie che in Venezuela le cose saranno differenti. E che non vi sarà una destabilizzazione che si estenderà a tutto il subcontinente.
Né si comprende come tanti governi europei appoggino questa avventura. Soprattutto perché Guaidó e gli Usa non stanno attuando una politica per giungere a una riconciliazione nazionale in Venezuela , ma rifiutano la via del dialogo e come unica soluzione pretendono «la fine dell’usurpazione del potere da parte di Maduro». Il loro obiettivo è prendere tutto.
Una strategia alternativa è necessaria: quella delle trattative per una soluzione pacifica con una mediazione internazionale offerta da Messico, Uruguay, Onu e Vaticano. Una iniziativa che è stata esaminata dal Gruppo internazionale di contatto che si è riunito ieri a Montevideo nella Conferenza per propiziare un dialogo.
È una via, quella delle trattative, che Maduro nei giorni scorsi ha detto essere disposto a percorrere, proponendo anche elezioni parlamentari anticipate sotto controllo internazionale.
Il presidente venezuelano non si è dimostrato all’altezza del suo predecessore Chávez. La sua politica può, e in buona misura deve, essere messa in discussione. Ma rimane il presidente costituzionale, se vi è ancora un diritto internazionale.
Ed è questo il secondo punto in gioco che fa pendere la bilancia verso il pessimismo. “

giovedì 7 febbraio 2019

SINISTRA di classe e COMUNISTI


...indipendentemente da forze al governo e PD, noi comunisti dobbiamo contribuire a costituire l’unita’ della sinistra di classe nel nostro paese... (fe.d.)

martedì 5 febbraio 2019

Washington, la ragione della forza


Lo scopo degli USA è strangolare economicamente lo Stato-bersaglio del Venezuela di Maduro per accelerarne il collasso, fomentando l’opposizione interna, e, se ciò non basta, attaccarlo militarmente dall’esterno.

articolo di Manlio Dinucci — Il Manifesto



Due settimane fa Washington ha incoronato presidente del Venezuela Juan Guaidò, pur non avendo questi neppure partecipato alle elezioni presidenziali, e ha dichiarato illegittimo il presidente Maduro, regolarmente eletto, preannunciando la sua deportazione a Guantanamo. La scorsa settimana ha annunciato la sospensione Usa del Trattato Inf, attribuendone la responsabilità alla Russia, e ha in tal modo aperto una ancora più pericolosa fase della corsa agli armamenti nucleari. Questa settimana Washington compie un altro passo: domani 6 febbraio, la Nato sotto comando Usa si allarga ulteriormente, con la firma del protocollo di adesione della Macedonia del Nord quale 30° membro.
Non sappiamo quale altro passo farà Washington la settimana prossima, ma sappiamo qual è la direzione: una sempre più rapida successione di atti di forza con cui gli Usa e le altre potenze dell’Occidente cercano di mantenere il predominio unipolare in un mondo che sta divenendo multipolare. Tale strategia – espressione non di forza ma di debolezza, tuttavia non meno pericolosa – calpesta le più elementari norme di diritto internazionale. Caso emblematico è il varo di nuove sanzioni Usa contro il Venezuela, con il «congelamento» di beni per 7 miliardi di dollari appartenenti alla compagnia petrolifera di Stato, allo scopo dichiarato di impedire al Venezuela, il paese con le maggiori riserve petrolifere del mondo, di esportare petrolio.
Il Venezuela, oltre a essere uno dei sette paesi del mondo con riserve di coltan, è ricco anche di oro, con riserve stimate in oltre 15 mila tonnellate, usato dallo Stato per procurarsi valuta pregiata e acquistare farmaci, prodotti alimentari e altri generi di prima necessità. Per questo il Dipartimento del Tesoro Usa, di concerto con i ministri delle Finanze e i governatori delle Banche Centrali di Unione europea e Giappone, ha condotto una operazione segreta di «esproprio internazionale» (documentata da Il Sole 24 Ore). Ha sequestrato 31 tonnellate di lingotti d’oro appartenenti allo Stato venezuelano: 14 tonnellate depositate presso la Banca d’Inghilterra, più altre 17 tonnellate trasferite a questa banca dalla tedesca Deutsche Bank che li aveva avuti in pegno a garanzia di un prestito, totalmente rimborsato dal Venezuela in valuta pregiata. Una vera e propria rapina, sullo stile di quella che nel 2011 ha portato al «congelamento» di 150 miliardi di dollari di fondi sovrani libici (ormai in gran parte spariti), con la differenza che quella contro l’oro venezuelano è stata condotta segretamente. Lo scopo è lo stesso: strangolare economicamente lo Stato-bersaglio per accelerarne il collasso, fomentando l’opposizione interna, e, se ciò non basta, attaccarlo militarmente dall’esterno.
Con lo stesso dispregio delle più elementari norme di condotta nei rapporti internazionali, gli Stati uniti e i loro alleati accusano la Russia di violare il Trattato Inf, senza portare alcuna prova, mentre ignorano le foto satellitari diffuse da Mosca le quali provano che gli Stati uniti avevano cominciato a preparare la produzione di missili nucleari proibiti dal Trattato, in un impianto della Raytheon, due anni prima che accusassero la Russia di violare il Trattato. Riguardo infine all’ulteriore allargamento della Nato, che sarà sancito domani, va ricordato che nel 1990, alla vigilia dello scioglimento del Patto di Varsavia, il Segretario di stato Usa James Baker assicurava il Presidente dell’Urss Mikhail Gorbaciov che «la Nato non si estenderà di un solo pollice ad Est». In vent’anni, dopo aver demolito con la guerra la Federazione Jugoslava, la Nato si è estesa da 16 a 30 paesi, espandendosi sempre più ad Est verso la Russia.