Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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sabato 28 novembre 2020

LA PEDAGOGIA del collettivo di A.S. MAKARENKO


LA PEDAGOGIA del collettivo di A.S. MAKARENKO 
 famiglia e collettivo nella società educante

 è il titolo della prima lezione seminariale congiunta che si terrà MARTEDÌ 1 dicembre p.v. in aula virtuale presso l’Universita’ degli Studi di Macerata. A questa lezione parteciperà anche la classe V D scienze umane del liceo “Vittorino da Feltre” di Taranto. ore 11.00/13.30 con:
- prof. Raffaele Tumino, associato di Psicologia sociale e della famiglia, per corso di laurea magistrale presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione
-prof. Ferdinando Dubla, docente di filosofia e scienze umane del liceo “Vittorino da Feltre” di Taranto, curatore degli scritti in trad.it. delle opere di Makarenko.

Esempio di sinergia possibile tra Università degli Studi e licei in modalità DAD/DDI e, si spera, quanto prima in presenza. 

su Academia.edu sono disponibili:

Introduzione a A.S.Makarenko, Consigli ai genitori, ed. Città del Sole, 2005
https://www.academia.edu/43682031/Introduzione_a_A_S_Makarenko_Consigli_ai_genitori_ed_Citt%C3%A0_del_Sole_2005


Anton S. Makarenko [1888/1939] e la didattica del collettivo: una nuova metodologia per l'organizzazione del processo educativo

https://www.academia.edu/43704558/Anton_S_Makarenko_1888_1939_e_la_didattica_del_collettivo_una_nuova_metodologia_per_lorganizzazione_del_processo_educativo



Giuseppe Berti, prefazione a A.S.Makarenko: Consigli ai genitori, 1^ ed. italiana, 1950











                                                                                                                                  

A.S.Makarenko (1888/1939)

cop. dell'ed.italiana del 1955 introdotta da Lucio Lombardo-Radice



Hegel, o il pensiero oscuro


LA CIVETTA di HEGEL

“Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata; e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.” Hegel, Prefazione, in Lineamenti di filosofia del diritto (1821)
- la civetta è la filosofia, essa vola all’imbrunire, simbolo di Atena, ma fugge al chiarore di ogni nuova alba. 


La coscienza infelice (Fenomenologia dello Spirito - Hegel, 1807)
Come conciliare il finito con l’infinito, il determinato con l’indeterminato, il fenomeno come appare e la sua essenza? Lo può solo la coscienza, ma in un drammatico cammino: nel suo stesso percorso storico filosofico si trova quello spirito assoluto che non si sa come tale, e dunque si ferma a guardare se stessa come aliena da sé, per questo infelice, come forma religiosa che anela il trascendente, ma trova solo sepolcri.
E’ il dramma dell’uomo scisso, lacerato dall’alienazione.
La dialettica è un processo, il superamento di un’opposizione tramite la mediazione. Riguardata dalla fine, è lo stesso spirito assoluto continuamente scisso da sé ma riproduttivo di sè. 


vecchia strix ormai stanca/ urla la civetta di notte / ma il chiarore dell’alba/ la farà riposare/nella notte dei tempi affonda il suo sguardo/il suo volo/ ora / è per domani.

HEGEL: QUANDO IL PENSIERO LOGICO PENSA SE STESSO /
Dal nulla non nasce nulla, ma, secondo Hegel, solo dal nulla può svilupparsi la determinazione dell’essere. Infatti l’essere è vuoto, indeterminato e solo nel nulla, negazione dell’essere, può trovarlo. La negazione è sempre negazione di qualcosa, e quindi determina l’indeterminato. Nasce dal nulla il divenire, e lo svolgimento dialettico dell’intera realtà che, pensata, è realtà del razionale.
Logica-filosofia della natura-filosofia dello spirito
Logica soggettiva: dottrine dell’essere e dell’essenza.
Logica oggettiva: dottrina del concetto.
[Hegel, Scienza della logica, 1812/1816] 

~ e voi che pure credete all’astuzia della ragione, non riuscite a pensare che dal nulla è nata la vita dell’universo. E che il concetto di spazio, come quello di tempo, non sono contraddittori, ma dialettici: essi sono in sé, per sé e in sé e per sé. Se infatti lo spazio nasce dall’idea di vuoto, a negare lo spazio è il suo stesso limite, cioè il pieno. E se il tempo nasce dal concetto di eterno, cioè senza tempo, il suo limite è la misura, cioè il tempo sottratto all’eterno.
E’ il pensiero che pensa se stesso, autocoscienza del concetto.
Si potrebbe anche dire: quando il pensiero si avvolge in se stesso tramite i concetti. Ecco perché, a mio avviso, il pensiero di Hegel è un pensiero notturno, oscuro, come il volo della civetta. . ~ fe.d.


F.W.Hegel (1770/1831)


sabato 21 novembre 2020

La RICONVERSIONE ECOLOGICA per la nuova società - Taranto laboratorio per un cambio di paradigma: PCI e POTERE al POPOLO e la lotta di classe per l’ambiente, la salute e il lavoro.

 due importanti documenti di analisi della sinistra di classe che, partendo dall’osservatorio di Taranto, ridisegnano la necessità di non considerare più il “modello dello sviluppo” capitalista-industrialista, ma un intero paradigma di civiltà ecologico per una nuova società. ~ fe.d. 

No a Taranto avamposto dell'imperialismo USA-NATO

 

Si ad una diversificata progettualità per il futuro della città dei due mari, con al centro il rilancio del porto, commerciale e turistico. No alla monocoltura inquinante dell'acciaio, si alla Via della seta e ad un'economia che valorizzi le valenze produttive del territorio urbano e provinciale.

 

1) le motivazioni politiche, ideali e culturali

 

CARO CONTE, CARO GOVERNO,  il nostro futuro non è essere schiavi, né dell'acciaio dei veleni, né dell'imperialismo USA-NATO.

Taranto, una città monopolizzata dall'imperialismo USA-NATO e dalla monocoltura inquinante  dell'acciaio deve riappropriarsi delle vocazioni territoriali della sua identità culturale.

NO a Taranto avamposto dell'imperialismo USA-NATO, si ad una diversificata progettualità per il futuro della città dei due mari, con al centro il rilancio del porto, commerciale e turistico. No alla monocoltura dell'acciaio, sì alla via della seta.

Il governo ha deciso di destinare 200 milioni di euro per rendere la nostra città ancora più vincolata e chiusa, per sbarrare la strada a diversificazioni produttive e di sviluppo possibili in base alla cooperazione internazionale, in particolare con la Cina. E' un investimento a perdere, che renderà Taranto una città chiave delle SNF(Standing Naval  Forces) che costituiscono il nucleo marittimo della Very high Readiness Joint Task  Force del fianco sud della NATO, avamposto dunque dell'aggressivo imperialismo guerrafondaio degli USA, che supporta ormai le guerriglie commerciali dei dazi del presidente degli U.S.A.: dove non si arriva con la competizione capitalista del falso libero mercato, deve pensarci la violenza della guerra.

 

2) Il porto di Taranto può (per il PCI deve) diventare un volano di sviluppo commerciale, per la nostra città. turistico e industriale

Taranto città portuale si scontra con i veti statunitensi che imprigionano e bloccano le iniziative di diversificazioni sul nostro territorio come quella commerciale con la Cina, "La Nuova Via della Seta”, che per i cinesi è un punto focale di un grande progetto di  investimenti e infrastrutture nel Mediterraneo e al quale l’Italia ha aderito dal marzo 2019.

Taranto è sede dello Standing Nato Maritime Group 2 e sta svolgendo una funzione militare sempre più importante e delicata tanto da allertare l’intelligence in merito alle possibili presenze della Cina nel porto e vi è subito l’appoggio servile del governo che risponde agli statunitensi aderendo al progetto di ampliamento della base Nato, finanziando opere per 203 milioni di € di cui 191 per l’ammodernamento della Base Navale e 11,6 per la riqualificazione dell’area Chiapparo e con il dragaggio dei fondali fino a una profondità di 25m.

Tra gli altri sviluppi del porto emergono:

Il Molo San Cataldo per l’approdo a Taranto delle navi da crociera per le quali ci sono già interessi di due  importanti terminalisti del traffico  crocieristico, che gestiscono le diverse attività a terra, le quali hanno presentato istanza di concessione demaniale marittima all’Autorità di sistema portuale del Mar Ionio - porto di Taranto - per occupare un’area scoperta di 450 metri quadrati della banchina di ponente del molo San Cataldo. Si tratta della Port Operation Holding, con sede a Milano, e della Global Ports Melita Limiteds, con sede a Malta. Ciò potrà portare ulteriori sviluppi turistici nella provincia di Taranto.

L’arrivo al porto dei Turchi di Yilport, il tredicesimo operatore mondiale per volume di attività e primo del 2018, che hanno avuto una concessione di 49 anni su una banchina di 1900 metri. La holding turca/cinese Yilport è proprietaria del 25% di Cma Cmg, il terzo vettore marittimo mondiale per il traffico container.

La svolta è segnata con l’arrivo del gruppo Ferretti, leader mondiale nella progettazione, costruzione e vendita di yacht a motore e da diporto. Il gruppo Ferretti, management e con professioni specifiche italiane, possiede e gestisce cantieri navali in tutta Italia, il cui 58% è in mano alla cinese Weichai, tra le più grandi società cinesi e mondiali che operano nella componentistica di auto e veicoli pesanti.

Inoltre tutto ciò può rilanciare la  retroportualità e aprire finalmente la piastra logistica, struttura costruita da anni e mai attivata.

 

 

3) Come la siderurgia continua a danneggiare  lavoro,  lavoratori,  ambiente, salute economia e sviluppo alternativo e compatibile.

 

La situazione attuale dei lavoratori di Taranto in Ilva as e quelli di AM è da considerarsi drammatica:1600 lavoratori inseriti in Ilva AS e 10600 lavoratori in AM nei vari siti, 3500-4000 lavoratori sono stabilmente collocati in Cigo.

Innanzitutto noi comunisti italiani crediamo che le politiche vadano impostate per il futuro dando uno sguardo al passato; una politica di sviluppo va costruita per le nuove generazioni guardando e tutelando tutte quelle fasce sociali che hanno perso non solo il lavoro e la dignità, ma soprattutto quei diritti conquistati negli anni attraverso le lotte di classe. Oggi più che mai siamo chiamati a riorganizzarci, confrontarci e unirci contro il nuovo capitalismo.

Karl Marx sosteneva che:

”il capitale non è una potenza personale, bensì è una potenza sociale.” “Quanto più la classe dominante è capace di assorbire gli elementi migliori della classe oppressa, tanto più solido e pericoloso è il suo dominio”

In Marx, i veri protagonisti della trasformazione sociale sono le classi sociali. Egli intende la classe come l’insieme degli individui che all’interno del sistema sociale si trovano nella stessa posizione e hanno le stesse possibilità di accesso alle risorse economiche sociali. Qualora gli individui dovessero diventare coscienti della loro appartenenza in quella determinata classe, essa può diventare anche soggetto politico promotore di cambiamenti anche rivoluzionari dell’ordine sociale e non alienandosi al capitalismo. Ed è in questa prospettiva che il comunismo appare la vera e propria via di salvezza al fine di sovvertire e contrastare il regime di una politica neoliberista, oligarchica e lobbista. Nella prospettiva marxista bisogna fare un’analisi strutturale e duratura nel tempo.

Il Presidente di Federacciai afferma che la produttività dello stabilimento di Taranto è molto importante, è il secondo stabilimento in grandezza e capacità in Europa dopo la Germania, e se è molto importante la produzione di acciaio dell’industria italiana e quindi la produzione non deve essere a regime di lavorazione basso ma mantenere un regime di lavorazione  altissimo, questo fa capire che in queste condizioni Taranto con la sua provincia siano destinati ad essere vincolati ad una sola industria e continuare a subire violenze psicologiche (ricatto salute/lavoro) e  violenze per l'inquinamento costante industriale, a continuare ad essere succubi di una precarietà e disoccupazione altissime che il nostro territorio da molto tempo soffre.

- Noi  PCI  di Taranto continuiamo a sostenere prima di tutto una vera nazionalizzazione totale e non parziale dell’ industria considerata strategica e che  tutti i lavoratori vengano reintegrati nel proprio posto di lavoro, perché se consideriamo la media dell'età anagrafica dei lavoratori di 45 anni e l’età contributiva di 23-25 anni, questo significa che le maestranze ci sono e non si spiega il motivo di tenerle fuori dal mondo del lavoro.

Dunque siano i lavoratori nel loro complesso i promotori del proprio futuro, unendosi e diventando classe operaia in sè e per sè, riconquistando i propri diritti nelle lotte di classe. In questo senso bisogna pretendere investimenti industriali con bonifiche radicali dei siti inquinati dall'amianto, materiale ferroso, polveri sottili; riconversione industriale con introduzione delle nuove tecnologie verdi per eliminare definitivamente il carbon  coke; riqualificazione e bonifiche, oltre che della fabbrica, dell'intero territorio ionico.

Ora è arrivato il momento di dire Basta! Alziamo una volta per tutte la testa: Taranto non è più disponibile a subire violenze di qualsiasi natura,

SI al progetto “Via della Seta”come è stata accettata per Genova e Trieste per un diverso sviluppo economico, sociale, commerciale e culturale.

Basta con le politiche delle lobbies e dei poteri forti, uniamo le forze per realizzare una Taranto diversa, ecologica e turistica, polo culturale storico e archeologico. Basta delegare! Qui bisogna essere partecipi del proprio futuro perché è il nostro e delle nuove generazioni.

 

 L'impegno politico ideale, socio-culturale ed economico che poniamo all'attenzione dei quadri dirigenti intermedi e nazionali come obiettivo di lavoro politico  del partito, per la coalizione con i compagni di Rifondazione Comunista  e di Risorgimento Socialista (lavoro già impostato proficuamente), con la sinistra di opposizione con cui già lavoriamo sul territorio e ovviamente a tutte le forze e i movimenti che a sinistra vogliano condividere il nostro percorso  politico, organizzativo.

Proposta nell'alveo di un'economia che parta dalle risorse del territorio già esistenti ma in perenne precarietà o peggio in perdita e trascurate e mal valorizzate: vedi settore culturale , settore pesca, produzione ittica, portualità e indotto artigianale e commerciale collegato o da collegare al nuovo modello di sviluppo che descriviamo in questo documento e che sarà oggetto di ampi approfondimenti tecnici, aderenti alla realtà, organizzativi.

Il PCI, attraverso tutte le proprie componenti dirigenziali e organizzative, chiede con fermezza che venga avviato da subito un processo di sviluppo economico alternativo a quello tuttora attivo, ma che è in evidente crisi produttiva e in permanente conflitto tra lavoro-salute-ambiente, con una conseguente economia bloccata.

Non solo protesta ma soprattutto proposta.

 

Comitato Cittadino PCI -Taranto

novembre 2020

 

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TARANTO OLTRE IL RICATTO OCCUPAZIONALE, VERSO UNA RICONVERSIONE ECOLOGICA: 4 TERMINI CHIAVE DELLE NOSTRA POSIZIONE

Questo comunicato vuole chiarire la posizione del nodo territoriale di Potere al Popolo Taranto sulla questione ex-Ilva, dileguando il più possibile dubbi e cercando di avviare una discussione produttiva e forte a livello nazionale su tutti i tavoli tematici.


Perché questo comunicato

L’esigenza di un’espressione unitaria e chiara da parte del nodo di Taranto nasce dalla troppa ambiguità che circonda la posizione di Potere al Popolo a livello nazionale sulla questione ex-Ilva. In un quadro cittadino come quello di Taranto, nel quale anni e anni di tradimenti delle lotte politiche e sociali hanno legittimamente fatto nascere un atteggiamento scettico, è necessario fuoriuscire il più possibile dall’ambiguità delle posizioni, mettendo in chiaro le nostre rivendicazioni a livello territoriale. Allo stesso tempo, bisogna modulare la nostra comunicazione a livello nazionale, in modo sensato e costruttivo. In questo momento storico e data la conformazione stessa della storia siderurgica tarantina, ad esempio, le necessarie e legittime rivendicazioni della popolazione genovese non possono essere assimilabili a quelle della popolazione tarantina. Bisogna, in questo senso, affermare e definire con forza la diversità che contraddistingue le lotte che i territori si trovano ad affrontare riguardo ai diversi siti produttivi dell’ex-Ilva.

Come nasce la nostra presa di posizione

Negli ultimi mesi ci siamo confrontati con operai/e e cittadin* nel tentativo di chiarire il più possibile la situazione che caratterizza lo stabilimento siderurgico. Abbiamo studiato molto e, nello stesso tempo, abbiamo riflettuto con sempre più insistenza sul nostro compito politico, sulle pretese che un movimento come Potere al Popolo dovrebbe portare avanti e, più in generale, su quale modello di società e di economia vogliamo per il nostro futuro. Il risultato di questo percorso non può essere una proposta esaustiva per il futuro di Taranto. Per questo servirebbe uno studio nazionale, che si confronti con diversi aspetti della questione, in modo tecnico, capace e in grado di dettare una visione propositiva. Ci sentiamo invece perfettamente in grado di denunciare con forza le esigenze del territorio, dalle quali nessuna retorica può più sfuggire e che pongono forze di sinistra come la nostra di fronte alla pretesa di una nuova visione lavorativa e ambientale.

4 TERMINI CHIAVE DELLA NOSTRA POSIZIONE

Chiusura: non si può più sfuggire a questa pretesa, che nasce in modo inequivocabile dalle condizioni dell’impianto, dalla sofferenza della città, dall’impatto economico della fabbrica. Questa chiusura non può essere parziale, della sola area a caldo. Non può comprendere vie di mezzo, come l’istallazione dei forni elettrici. Chiunque spinga verso una scelta simile non valuta correttamente quanto radicalmente quell’impianto abbia compromesso il territorio tarantino, e banalmente, sottovaluta le problematiche che affliggono l’intera città. Propugnare la salvaguardia dell’occupazione e della produttività nazionale, proteggendo la fabbrica dalla chiusura, significa sottomettersi ancora una volta a quelle logiche che, insieme al profitto, hanno determinato un modello di produzione che non può essere in linea con quanto una forza rivoluzionaria dovrebbe pensare. Se Potere al Popolo vuole definirsi una forza rivoluzionaria, capace di ripensare il rapporto tra ambiente e lavoro, non può sottrarsi dalla messa in discussione di una fabbrica siderurgica come quella di Taranto, che per posizione, grandezza, debito ambientale e sanitario, e fatiscenza, non può e non deve trovare posto in un modello che possa dirsi “popolare”.

Affrancamento: per salvaguardare l’occupazione dobbiamo ripensare radicalmente il modello lavorativo, spingerci oltre la pura lotta di posizione e ripensare, come nel caso di Taranto, alternative occupazionali non soggette al ricatto della produzione inquinante e monopolizzatrice. Taranto soffre di una grave crisi occupazionale, determinata in gran parte da un modello monoculturale fondato sull’acciaio. Bisogna tenere a mente che una tale condizione non è determinata contingentemente dall’immobilismo della progettazione industriale a livello nazionale. Il modello della città industriale – della grande industria – ha in sé l’inevitabile tendenza alla monocultura e alla conseguente distruzione di ogni capacità occupazionale del territorio. Il crescente tasso di disoccupazione è legato a doppia mandata alla distruzione di ogni diversificazione produttiva sul territorio. Salvaguardare l’occupazione, per noi, non può coincidere col tutelare un posto di lavoro all’interno di un impianto produttivo radicalmente in contraddizione con la nostra idea di sviluppo territoriale e nazionale. La folle corsa alla tutela dell’occupazione in un sito produttivo come quello di Taranto nasconde la maggior parte delle volte sotto un velo di inadeguato sindacalismo il ricatto occupazionale e il disastro ambientale e sociale di un intero territorio. Non prender consapevolezza di ciò, credere ancora nella necessità della grande fabbrica per la salvaguardia dei posti di lavoro significa abbandonare ogni idea di un mondo più giusto, fondato sulla dignità della vita umana, sia essa a livello lavorativo, abitativo, sanitario, etc.

Collettività: Non possiamo astenerci dalla definizione dei mezzi che devono guidare un ripensamento della città di Taranto a partire dallo scioglimento del nodo ex-Ilva. Bisogna rivendicare il controllo popolare non solo sul destino dell’impianto siderurgico più grande d’Europa, ma anche sul destino dell’intera città. Pretendiamo quindi la collettivizzazione del processo di chiusura, smantellamento e riprogettazione dell’economia del territorio di Taranto. Lo Stato dovrà certamente farsi carico delle bonifiche e della riconversione produttiva e differenziata del territorio, considerando però quest’ultimo un soggetto ineludibile, tanto nelle decisioni, quanto nel coinvolgimento pratico nei processi.

Progettualità: Le monoculture hanno mostrato tutta la loro inefficienza in ogni loro declinazione. A Taranto, tanto nell’impianto, quanto nel suo indotto. Sostituire l’acciaio con il turismo o con un’economia basata in modo unilaterale sul terzo settore non può essere la soluzione per Taranto. Bisogna rivendicare con forza una progettualità capace di diversificare la produzione del territorio, avviando processi virtuosi basati sulla prossimità e sulla sostenibilità. Bisogna, in poche parole, fare di Taranto il centro di una rivoluzione “ecologista”. Superare il modello della città industriale per affacciarsi a produzioni diverse, capaci di rappresentare fino in fondo il territorio e, allo stesso tempo, di assicurare un futuro stabile a livello occupazionale.

Questo comunicato non ha il senso di un’esposizione esaustiva sulla questione siderurgica a Taranto, ma è l’espressione della nostra rivendicazione politica, maturata e acquisita in anni di confronto con le realtà territoriali e con le problematiche insite nella fabbrica. Vogliamo chiedere, a chi continua a credere che quella fabbrica debba rimanere aperta, che la continuità produttiva sia l’unico modo per tutelare l’occupazione sul territorio: in anni di procrastinazione, di continuità produttiva, che cosa ne è stato della città di Taranto? In che modo la presenza della fabbrica ha contribuito al futuro della città? Davvero il ricatto occupazionale ha vinto sulla nostra volontà di cambiare il mondo?
Come Potere al Popolo vogliamo tenere alto lo scontro, ampliare la conflittualità ed essere nelle lotte. Per fare questo a Taranto non si può più eludere il termine “chiusura”. Solo penetrandolo, facendolo nostro e, allo stesso tempo, radicalizzandone le rivendicazioni, potremo pretendere collettivamente un cambio di paradigma forte per il destino di una città che vive ormai di alienazione, ma che, nonostante ciò, continua a resistere.

Potere al Popolo Taranto, 10 settembre 2020

 

 

 





 

lunedì 16 novembre 2020

SINISTRA, COMUNISTI e COSCIENZA DI CLASSE


Il sistema capitalista è inserito in un paradigma, quello della civiltà produttivistica delle merci e degli esseri umani come merci, che costituisce un modello. E’ esso stesso che ha generato il modello, ma alimentando al suo interno la contraddizione strutturale del suo conflitto con il lavoro, e la sua seconda (J.O’ Connor) e terza contraddizione, quella contro l’ambiente, la natura e la salute pubblica. Per cui, chi voglia salvare l’homo deve salvare il sapiens, non l’insipiens, chi voglia por fine a una insensata e pericolosa depredazione dell’ambiente, deve trasformare, in senso rivoluzionario, la società dell’ineguaglianza di classe. La sinistra deve farsi promotrice di questa rivoluzione. E’ la sinistra di classe lo stesso soggetto rivoluzionario, perché ha appunto nella classe, quella del proletariato classico che ha subito in occidente la latenza della propria coscienza e quella del nuovo proletariato precario, che ha da formare una identità classista, sia in chiave economica che esistenziale, la propria forza motrice. 

I comunisti ritroveranno la propria dimensione storica in questo processo, nell’emancipazione della coscienza del proprio riferimento di classe si colloca la contesa dell’egemonia. - fe.d.

martedì 10 novembre 2020

IL VIRUS DEL LIBERISMO


                            

PFIZER: la multinazionale del VIAGRA aveva criticato Russia e Cina per la fretta sperimentale; ora si presenta con il 90%; non c’è da diffidare della scienza, ma dell’uso di questa in chiave di profitto, una delle più gravi contraddizioni del sistema capitalista, perché la salute non è merce. 
Il virus del liberismo permette il dilagare di tutti gli altri.

- Nel 2009 Pfizer si è dichiarata colpevole della più grande frode nella storia della sanità degli Stati Uniti e ha ricevuto la più grande sanzione penale mai riscossa; la frode è consistita nella commercializzazione illegale di quattro dei suoi farmaci nei dieci anni precedenti. Inoltre la Pfizer è responsabile di aver effettuato test per farmaci molto pericolosi sulle popolazioni nei Paesi terzomondiali, soprattutto in Africa e alcuni suoi funzionari sono stati sospettati di essere mandanti di omicidi ai danni di attivisti per i diritti civili. 
(Carrie Johnson, In Settlement, A Warning To Drugmakers: Pfizer to Pay Record Penalty In Improper-Marketing Case, in The Washington Post, 3 settembre 2009).
Tutti conoscono il nome della azienda farmaceutica, quasi nessuno il nome dei coniugi turchi della Biotech che hanno permesso con la loro ricerca l’approntamento tecnico dello stesso vaccino PFIZER. E’ una coppia di studiosi di origine turca cresciuti in Germania, Ugur Sahin e Özlem Türeci (in foto) che hanno avviato le ricerche sul vaccino già a gennaio, appena hanno avuto notizia del virus che si diffondeva in Cina.
- Uso della scienza in chiave di profitto capitalista, farmaci come capitale privato e non sociale, questo è il virus del liberismo, il cui unico vaccino è nella lotta, per un nuovo socialismo. ~ fe.d.






lunedì 9 novembre 2020

MAINSTREAM ha fatto BIDEN

 

Certo il mondo e gli USA si sono liberati del volto peggiore del capitalimperialismo, quello allo stato brado del ricco ignorante arrogante e idiota, ma l’entusiasmo per Viso Pallido dei media “mainstreams” tende al “politically correct”, in sostanza all’egemonia, per Gramsci, del senso comune di massa, con una faccia presentabile/perbene per un giudizio plaudente sui valori del sistema di dominio mondiale, quelli del liberismo protetto dal cordone “atlantico”, messo in crisi geopoliticamente ed economicamente innanzitutto dalla Cina, dalla Russia, e dai paesi che cercano di uscire dalla morsa del capitalimperialismo, Cuba, Vietnam e Venezuela in testa. 

Sappiamo per certo dunque ciò che Trump ha fatto ma anche ciò che Biden non farà. 

La politica estera di Joe Biden

L'arte della guerra. Le linee portanti del programma di politica estera che la nuova amministrazione Usa si impegna ad attuare sono espressione di un partito trasversale


di Manlio Dinucci 

Quali sono le linee programmatiche di politica estera che Joe Biden attuerà quando si sarà insediato alla Casa Bianca? Lo ha preannunciato con un dettagliato articolo sulla rivista Foreign Affairs (marzo/aprile 2020), che ha costituito la base della Piattaforma 2020 approvata in agosto dal Partito Democratico. Il titolo è già eloquente: «Perché l’America deve guidare di nuovo / Salvataggio della politica estera degli Stati uniti dopo Trump». Biden sintetizza così il suo programma di politica estera: mentre «il presidente Trump ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner, e abdicato alla leadership americana, come presidente farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli Stati uniti, e far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo».
Il primo passo sarà quello di rafforzare la Nato, che è «il cuore stesso della sicurezza nazionale degli Stati uniti». A tal fine Biden farà gli «investimenti necessari» perché gli Stati uniti mantengano «la più potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che «i nostri alleati Nato accrescano la loro spesa per la Difesa» secondo gli impegni già assunti con l’amministrazione Obama-Biden.
Il secondo passo sarà convocare, nel primo anno di presidenza, un «Summit globale per la democrazia»: vi parteciperanno «le nazioni del mondo libero e le organizzazioni della società civile di tutto il mondo in prima linea nella difesa della democrazia». Il Summit deciderà una «azione collettiva contro le minacce globali». Anzitutto per «contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari dell’Alleanza e imponendo alla Russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali»; allo stesso tempo, per «costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della Cina, che sta estendendo la sua portata globale».
Poiché «il mondo non si organizza da sé», sottolinea Biden, gli Stati uniti devono ritornare a «svolgere il ruolo di guida nello scrivere le regole, come hanno fatto per 70 anni sotto i presidenti sia democratici che repubblicani, finché non è arrivato Trump». Queste sono le linee portanti del programma di politica estera che l’amministrazione Biden si impegna ad attuare.
Tale programma – elaborato con la partecipazione di oltre 2.000 consiglieri di politica estera e sicurezza nazionale, organizzati in 20 gruppi di lavoro – non è solo il programma di Biden e del Partito Democratico. Esso è in realtà espressione di un partito trasversale, la cui esistenza è dimostrata dal fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto quelle relative alle guerre, vengono prese negli Stati uniti su base bipartisan.
Lo conferma il fatto che oltre 130 alti funzionari repubblicani (sia a riposo che in carica) hanno pubblicato il 20 agosto una dichiarazione di voto contro il repubblicano Trump e a favore del democratico Biden. Tra questi c’è John Negroponte, nominato dal presidente George W. Bush, nel 2004-2007, prima ambasciatore in Iraq (con il compito di reprimere la), poi direttore dei servizi segreti Usa.
Lo conferma il fatto che il democratico Biden, allora presidente della Commissione Esteri del Senato, sostenne nel 2001 la decisione del presidente repubblicano Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan di 77 senatori che autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq con l’accusa (poi dimostratasi falsa) che esso possedeva armi di distruzione di massa.
Sempre durante l’amministrazione Bush, quando le forze Usa non riuscivano a controllare l’Iraq occupato, Joe Biden faceva passare al Senato, nel 2007, un piano sul «decentramento dell’Iraq in tre regioni autonome – curda, sunnita e sciita»: in altre parole lo smembramento del paese funzionale alla strategia Usa. Parimenti, quando Joe Biden è stato per due mandati vicepresidente dell’amministrazione Obama, i repubblicani hanno appoggiato le decisioni democratiche sulla guerra alla Libia, l’operazione in Siria e il nuovo confronto con la Russia. Il partito trasversale, che non appare alle urne, continua a lavorare perché «l’America, ancora una volta, guidi il mondo».

fonte: https://ilmanifesto.it/la-politica-estera-di-joe-biden/

Non è dunque per rompere gli entusiasmi per la sconfitta del lercio, ma la documentazione inoppugnabile di Dinucci dimostra che politica e cultura imperialiste sono incardinate in un sistema, quello capitalista statunitense, che ammette solo un cambio di facciata, e che gli USA giocheranno ancora per l’egemonia mondiale “manu militari”. Dollari e armi sono l’essenza stessa di quel sistema, comunque al tramonto. - fe.d. 





domenica 8 novembre 2020

Ernesto de Martino - Etnologia e civiltà moderna, 1964

 

Ernesto de Martino / Etnologia e civiltà moderna / / “Cultura e scuola”, anno III, nr.11, luglio-settembre 1964 - direttore: Umberto Bosco, ed. da Ente Nazionale per le Biblioteche Popolari e Scolastiche, Roma (1964)

Lo “scandalo” dell’”alieno” visto da un’altra cultura, l’incontro etnografico come umanesimo moderno: senza le proprie categorie di osservazione nessun fenomeno è osservabile. Il paradosso è che, senza questa osservazione, è impossibile un esame di coscienza della cultura occidentale e della sua storia. L’etnocentrismo dogmatico viene allora superato dall’etnocentrismo critico, un sistematico incontro-confronto che mira a raggiungere il fondo umano comune e le specificazioni culturali con cui i popoli, e non le astratte concezioni speculative, pensano se stessi e il mondo. Ricerca continua, dunque, e ricerca interdisciplinare nel sapere antropologico, che ricolloca gli stessi saperi delle scienze umane in relazione con l’etnologia, spezzando l’isolamento delle specializzazioni, e riconducendo ad unità la scienza dell’uomo produttore di cultura. Impossibile non osservare con i propri occhi, ma è impossibile distogliere lo sguardo se l’altro ti guarda con i suoi propri occhi. L’articolo che Ernesto de Martino scrisse nel 1964 per la rivista di Bosco “Cultura e scuola”, è un vero e proprio manifesto dell’etnocentrismo critico e dell’umanesimo etnografico. -fe.d.
- a cura di Ferdinando Dubla

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Ernesto de Martino (1908/1965)






venerdì 6 novembre 2020

Rottura e processo: “La storia non perdonerà gli indugi ai rivoluzionari” (Lenin)

 


diretta FB 7 novembre ore 17.30 Puglia comunista
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C’è un punto di rottura, ma la rivoluzione è un processo. La rivoluzione d’ottobre fu rivoluzione per la pace, la terra e il controllo operaio. Cuore pulsante e motore incessante ne furono il Partito Operaio Socialdemocratico russo (bolscevico) guidato da Lenin e il soviet di Pietrogrado. Il primo atto del Congresso dei Soviet fu l’avverata promessa, che congiunse definitivamente i bolscevichi con i sentimenti del popolo, con la sua maggioranza: confisca delle terre e redistribuzione ai contadini, e pace, una pace senza annessioni ne’ indennità. Il pensiero, l’ideale, si univano ai fatti, ai movimenti reali. ~ fe.d.

LA VOLONTÀ PLASMATRICE della realtà oggettiva: come alla volontà piace

Il giovane Gramsci legge la rivoluzione d’ottobre

di Guido Liguori
È ancora una volta la volontà che trionfa, nella visione di Gramsci: sono gli essere umani associati che possono comprendere,«i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà,finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace»[xxiii].

Al di là dell'attacco a effetto (la «rivoluzione contro Il Capitale» di Marx), in realtà l'articolo coglieva alcune motivazioni profonde dell'Ottobre russo: la guerra aveva reso possibile un evento inaudito e per i più inaspettato.
Marx aveva «preveduto il prevedibile», non aveva potuto prevedere la Prima guerra mondiale, il suo carattere senza precedenti, che «avrebbe suscitato in Russia la volontà collettiva popolare» in tempi molto più rapidi della norma («perché, normalmente, i canoni di critica storica del marxismo colgono la realtà»[xxiv]). In quanto «in Russia la guerra ha servito a spoltrire le volontà. Esse, attraverso le sofferenze accumulate in tre anni, si sono trovate all'unisono molto rapidamente. La carestia era immanente, la fame, la morte per fame poteva cogliere tutti, maciullare d'un colpo decine di milioni di uomini. Le volontà si sono messe all'unisono»[xxv].
cit. da A. Gramsci, La rivoluzione contro «Il Capitale», «Il Grido del Popolo», 1° dicembre 1917




DIECI GIORNI, QUEI MOMENTI IN CUI GLI UOMINI SI SANNO UGUALI
“Settembre e ottobre sono i due mesi peggiori dell’anno russo. Sotto un cielo grigio e basso la pioggia non smetteva di cadere, inzuppando tutto. Si camminava su un fango spesso, sdrucciolevole, attaccaticcio, la nebbia gelida invadeva le strade. Nelle case gli uomini montavano la guardia a turno armati di fucile. Karsavina danzava un nuovo balletto al Teatro Mariinsky”.
Con queste parole di John Reed il sesto numero del «Politecnico» presentava, in un autunno non meno gelido dell’Italia appena liberata nel 1945, la leggendaria Rivoluzione d’Ottobre per oltre venti anni taciuta. Un americano racconta come le forze del progresso vinsero in Russia, titolava a tutta pagina. Un americano, uno venuto da lontano, l’occhio dell’Occidente; come sarebbe stato Ernest Hemingway per la Spagna, Edgar Snow per la Cina di Mao. Per capire la fortuna straordinaria che ebbe questo libro, oggi ancora una volta ristampato, non serve la breve, eppur preziosa prefazione di Lenin che dice «Leggetelo, è tutto vero, io lo certifico». (..) John Reed traduceva la rivoluzione russa per l’Occidente, ed essa risentiva in lui la propria voce divenuta universale, quasi la prova, in una figura singolare ma significativa, dell’universalità del suo messaggio. Il riscatto sarebbe stato, già si profilava, comune; la sua necessità correva calorosa e scura come un flusso, più che di idee, di vite in mutamento. Il 1945 come il 1917, il 1917 come la rivoluzione americana... i giorni, appunto, che cambiano il mondo, e si somigliano nel miracoloso addensarsi di speranza. Uno dei pochi momenti in cui gli uomini si sanno uguali.
dall’introduzione di Rossana Rossanda a John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, trad. Marco Amante, BUR, Milano, Rizzoli, 1980
lo trovi qui, a cura del PCI, Genova
http://www.pci-genova.it/…/Reed-I-dieci-giorni-che-sconvols…




PP Pasolini, la critica all'egemonia della borghesia e all'omologazione ideologica

 

di Lucio Garofalo

Novembre richiama alla mia mente un triste anniversario, quello della morte di Pasolini, che è stato l'intellettuale italiano più inviso e più osteggiato dai palazzi del Potere, il più controverso e scomodo di tutto il Novecento. Questa circostanza offre ai vari sciacalli della disinformazione lo spunto per ripetere un'opera infame di strumentalizzazione ideologica, di mistificazione del pensiero di Pasolini. Alludo a quanti provano a distorcere in modo squallido e becero la posizione che Pasolini assunse il 16 giugno del 1968, quando apparve il componimento in versi dal titolo "Il PCI ai giovani", che si riferì agli scontri di Valle Giulia, nella città di Roma, tra studenti e polizia. In tale occasione è noto che Pasolini "si schierò" a fianco dei celerini, poiché di estrazione proletaria. Inoltre, accusò in maniera esplicita la "massa informe" composta dagli studenti sessantottini, che erano figli di quella borghesia che egli, Pasolini, detestava in modo viscerale. In pochi sanno che Pasolini non ebbe mai a disdegnare, né si rifiutò mai di collaborare con alcuni movimenti di contestazione che sorsero in quegli anni: in primis, con Lotta Continua, ma altresì con altre formazioni del panorama politico extraparlamentare, con cui ebbe modo di condividere varie esperienze di controinformazione significative. Si pensi soltanto alla controinchiesta del Collettivo politico di Lotta Continua, che condusse alla realizzazione del film-documento "12 dicembre", uscito nel 1972, dedicato alla strage fascista di Piazza Fontana. Fu un impegno che coinvolse Pasolini in modo diretto, in quanto contribuì anche al lavoro di sceneggiatura del film. La disonestà intellettuale di vari sedicenti "operatori dell'informazione", avvoltoi e sciacalli morali e ideologici, mercenari infami e biechi pennivendoli, prezzolati al soldo di un sistema di potere, affiora in modo particolare in questo fatto: essi raccontano solo la versione dei fatti a loro più comoda, o più conveniente, mentre tacciono, ovvero omettono, o fingono di ignorare e dimenticare la parte di verità che non è funzionale al Potere che servono e riveriscono. Un altro aspetto che mi interessa porre in netto risalto, è il rispetto quasi religioso che Pasolini nutriva nei confronti di quelle identità culturali ed antropologiche localistiche e particolaristiche. Un interesse ed un valore ideale, da non fraintendersi come attitudine di matrice retriva o codina, né solo di natura nostalgica, ma riconducibile ai valori più genuini dell'umanità. Valori vitali, annientati nel giro di pochi lustri da un processo di omologazione sociale e culturale, frutto dell'ideologia consumistica ed edonistica della classe borghese egemone. A tale riguardo mi viene in mente un'altra provocazione che Pasolini esternò oltre 45 anni fa, l'ennesima sua intuizione quasi "profetica", frutto del suo ingegno inarrivabile: in una società di stampo ultra-consumista di massa, che genera consensi verso le "rivoluzioni" di segno neoliberista, che si potrebbero definire "di destra", cioè antipopolari e antidemocratiche, il paradosso atroce è che i "rivoluzionari", in sostanza, sono quanti si definivano "conservatori", cioè si contrappongono ai bruschi e violenti mutamenti che si innescano nella cornice capitalista. Si tratta di processi di natura liberticida e disumana, effetto di un'accelerazione storica improvvisa, che ha generato un modello di sviluppo irrazionale, feroce ed alienante, con effetti di squilibrio sociale e morale. Il risultato finale è un pauroso scenario di "globalizzazione e colonizzazione" a spese dei popoli, a discapito dei diritti più elementari degli esseri umani, come i diritti a una sanità e un'istruzione pubblica e gratuita, garantiti a tutti i cittadini, e non privilegi esclusivi riservati alle classi più facoltose. In tal senso, l'attualità di Pasolini e delle sue idee, ci risulta a dir poco sconcertante: il suo pensiero, che all'epoca appariva eretico, visionario e corsaro, è oggi più vitale e moderno di ogni "mutamento liberale" imposto dal capitalismo.




domenica 1 novembre 2020

PASOLINI, DE MARTINO e LA FINE DEL MONDO

L'idea di progresso unilineare è cresciuta insieme al paradigma della civiltà industrialista del produttivismo e della mercificazione, inevitabilmente connessi al sistema capitalistico. La sensibile antenna pasoliniana (questo sviluppo è senza vero progresso) incontra l'apocalissi di de Martino nella "mutazione antropologica", risultato delle insanabili contraddizioni di quel sistema e di quel modello paradigmatico. La crisi del determinismo positivista è la crisi di una filosofia della storia: perchè nella storia c'è sia la natura sia la cultura dell'essere umano, strettamente intrecciate tra loro. La luce, dunque, per Pasolini, è solo della cultura ed è dentro di noi, nella rinuncia alle false consolazioni. Per mutazione antropologica, allora, cosa deve intendersi? La trasformazione dell’essere umano da naturale ad artificiale, nella crisi apocalittica della perdita di senso del suo rapporto con la natura, che dunque cambia la sua natura interna. Il produttivismo, la mercificazione, l’alienazione del sistema capitalista (P.P.Pasolini) o l’ancestrale timore della fine del mondo “per entro” un paradigma di civiltà al tramonto (E. de Martino) od entrambe, nella ricerca comunque dell’escaton (riscatto) e definitiva liberazione? -fe.d


di Daniele Balicco

 

Il rito, ogni rito, è un condensato di storia e preistoria: è un nocciolo dalla struttura fine e complessa, è un enigma da risolvere; se risolto, ci aiuterà a risolvere altri enigmi che ci toccano più da vicino. (Primo Levi)

 

La cultura contemporanea occidentale immagina il proprio futuro con  molta difficoltà. Non a caso la forma più comune di rappresentazione simbolica del futuro è la catastrofe. Naturalmente esistono ragioni oggettive che possono giustificare questo impulso simbolico autodistruttivo. Prima fra tutte, la percezione fisica, percettiva, estetica della distruzione dell'ecosistema e della biosfera; ma, subito dopo, potremmo enumerare una serie di condizioni di pericolo a cui ci stiamo abituando ad essere esposti, per lo meno a livello ipotetico: caos sociale, crisi economiche, povertà, violenza politica, guerre, terrorismo, se la nostra sensibilità è soprattutto storico politica; contaminazioni radioattive, manipolazioni genetiche, epidemie, avvelenamenti di massa, disastri tecnologici, se ci spaventano di più quelli che Ivan Illich avrebbe chiamato gli esiti contro-produttivi della produttività. [1]

 Anche solo l'elenco sommario di queste condizioni di pericolo mostra come, in questi ultimi decenni, la cultura occidentale abbia sperimentato, con intensità crescente, la crisi dell'idea di progresso non tanto a livello teorico, quanto a livello percettivo- sensibile.

(..)

La fine del mondo non è dunque semplicemente la catastrofe ambientale, benché sia anche questo. Il nostro mondo sta finendo perché l'alfabeto simbolico con cui l'uomo ha imparato ad interpretarlo da millenni non funziona più. Nel suo capolavoro incompiuto, il volume intitolato La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, [2] l'antropologo italiano Ernesto De Martino ha ricostruito una storia dei rituali della fine del mondo (nella cultura classica, in antropologia, nella storia delle religioni) comparandola con alcune forme simboliche della vita moderna (romanzi, quadri, musiche, teorie critiche, movimenti politici, referti psichiatrici). La tesi di fondo del volume è che già a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, la cultura occidentale ha iniziato a riprodurre, con intensità crescente, forme e tematiche sorprendentemente simili a quelle sperimentate, in altri tempi e in altre parti del mondo, dai rituali della fine del mondo. Con una differenza, però. La cultura occidentale sta esprimendo con forza la volontà di "perdere la presenza", di sperimentare cioè la conoscenza degli abissi sensoriali ed emotivi che si aprono al di là dell'esperienza quotidiana, fino alla possibilità dell'autodistruzione, senza tuttavia possedere i rituali, le tecniche simboliche, e soprattutto il controllo qualitativo del tempo con cui tanto la cultura classica quanto le culture non occidentali hanno sempre protetto queste forme di conoscenza dalla possibilità che si trasformassero, realmente, nella fine della vita, individuale e collettiva. De Martino lavorava a questo volume nella prima metà degli anni sessanta, quando l'autodistruzione della specie, per il possibile scoppio di una guerra atomica fra Unione Sovietica e Stati Uniti, era un'ipotesi remota, ma non del tutto impossibile. Pier Paolo Pasolini non ha potuto leggere  La fine del mondo, che è stato pubblicato postumo nel 1977, ma conosceva molto bene il lavoro di De Martino e, soprattutto, l'articolo che anticipa le tesi del volume:  Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche.[3]

 Lo fece pubblicare nel 1964 sulla rivista Nuovi Argomenti, di cui era lui stesso condirettore, insieme ad Alberto Moravia. La riflessione di Pasolini sulla mutazione antropologica della cultura italiana risente fortemente della lettura di questo saggio. [4]

Ma mentre De Martino si limita ad un'analisi comparata tra rituali della fine del mondo, referti psichiatrici e forme simboliche della cultura contemporanea, Pasolini individua la causa di questa apocalisse dell'uomo nel capitalismo a lui contemporaneo. Per Pasolini, il capitale come forma di potere è capace, infatti, attraverso la coazione al consumo e alla diffusione di una comunicazione mediatica ubiquitaria, di addomesticare l'umano, di plasmare i sogni, i desideri, la capacità lavorativa, la sessualità, la vita corporea. E', in altre parole, un potere mutageno in grado di produrre una forma di vita propria.

 

NOTE

[1]  Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un messaggio o una sfida, Armando, Roma, 1973

[2] Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 1977

[3] Id., Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in "Nuovi Argomenti", 69-71 (1964),pp.105-41

4] Sul rapporto tra Pasolini e De Martino si vedano, almeno: Nicola Gasbarro, Sacralità come éthos del trascendimento in Pasolini e l'interrogazione del sacro a.c. di Angela Felice, Gian Paolo Gri, Padova, 2013, pp.39-54; Giacomo Tinelli, Pasolini e De Martino. Uno studio di Giacomo Tinelli, http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-e-de-martino-una-ricerca-di-giacomo-tirelli-parte-i/

http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-e-de-martino-una-ricerca-di-giacomo-tinelli-parte-ii/

 

 

da Daniele Balicco, Letteratura e mutazione - Pier Paolo Pasolini, Ernesto De Martino, Franco Fortini, ed.Artemide, 2018, pp. 30 e 33-34



                                                      



Pier Paolo Pasolini (1922/1975)
                                                                     Ernesto de Martino (1908/1965)