Angiolo Gracci, vice-comandante della Brigata "Sinigaglia", fondatore de 'Il Partito-Linea Rossa', subito dopo la liberazione di Firenze dell'agosto 1944
GRACCO, UN COMUNISTA A TESTA ALTA
Angiolo Gracci, un marxista integrale, ci mancherà ma ci accompagnerà per tutta la vita. Il suo è stato un esempio politico e morale per un «risorgimento» comunista. Va sottolineata anche la sua forte passione per il riscatto del popolo meridionale Abbiamo avuto la fortuna di conoscere e di lavorare al fianco di Angiolo Gracci, il partigiano ‘Gracco’, venuto a mancare (a noi e a tutti i militanti comunisti coerentemente marxisti) il 9 marzo 2004. Ricordiamo la prima volta che lo vedemmo, ci colpì il suo portamento fiero, un comunista a testa alta. Fisicamente e politicamente. Un comunista d’altri tempi, dicemmo tra noi, che ricordava le orgogliose figure risorgimentali. E del Risorgimento Angiolo portava con sé i valori più progressivi, filtrati nella sua formazione da un marxismo-leninismo affatto accademico e schematico, ma dinamico e attualizzante. Aveva un amore smisurato per il suo paese e la sua indignazione era infinita contro una classe dominante che, dopo la Resistenza, vissuta fino in fondo con una partecipazione emozionale e razionale insieme, lo aveva asservito ai nuovi padroni imperialisti. Gracci è stato un esempio di internazionalista con le salde radici piantate nel proprio paese: dialetticamente, egli diceva, chi ama profondamente il proprio paese rispetta la patria di tutti; chi disprezza il proprio popolo, la sua specifica cultura, i suoi usi e costumi, disprezzerà anche gli altri popoli e conseguentemente i suoi aneliti di speranza e riscatto sociali. Il razzismo, in questo senso, è imperniato sull’imperialismo e pervade tutta la barbarie capitalista e l’oppressione dei popoli. L’asservimento del nostro paese all’imperialismo statunitense, con le basi USA che limitano pesantemente la sovranità popolare, era per lui intollerabile e uno dei veri e propri «tradimenti» della Resistenza antifascista. Angiolo non amava la categoria di «tradimento», la utilizzava con oculatezza e, riferito alle vicende del movimento comunista, la considerava assolutamente non adeguata e priva di reale valore interpretativo. Epperò, per ciò che riguardava le classi dirigenti italiane, non aveva dubbi: esse si sono rese complici di un secondo asservimento, dopo la catastrofe fascista, che tradiva, appunto, tutto lo spirito resistenziale. Vestiti i panni di ‘Gracco’, vicecomandante della ‘Sinigaglia’, vide i morti di Pian d’Albero nel ’44, vide la morte del suo comandante ‘Potente’, Aligi Barducci, ed ha voluto la sua camera ardente nello stesso posto, a S.Spirito, dove il capo partigiano cadde per mano fascista. Quando lo raccontava, ma lo si evince anche dallo scritto Brigata Sinigaglia,primo scritto nel 1945 sulle vicende resistenziali, ora ristampato da La Città del Sole, non poteva trattenere una forte commozione, che lo rendeva contrastante con il suo forte temperamento. La divisa di ‘Gracco’ non lo lascerà mai: e non solo nei confronti degli avversari dichiarati, i reazionari d’ogni risma, ma anche nei confronti delle classi politiche della sinistra, storica e non. Un personaggio come Angiolo, va scritto apertamente, era scomodo per tutti: la sua critica era sempre sferzante e incalzante, mai rinunciò all’esercizio dello spirito critico, in nome sempre dei principi ideali che dovevano permeare i comunisti prima che politicamente, moralmente e umanamente. Fu critico aspro della deriva del PCI: nel 1966 contribuì a fondare il Partito Comunista d’Italia (m-l) a Livorno e si gettò nell’impresa con tutta la passione di cui era capace. Una passione che non lo abbandonò neanche quando la nuova organizzazione si divise e frantumò tra le cosiddette ‘linea nera’ e ‘linea rossa’, ed egli divenne uno dei rappresentanti di quest’ultima con il giornale Il Partito. Ricordava con dolore quelle scissioni: ce le ha ricostruite con fatica, infatti, quando gli chiedemmo la sua testimonianza per il saggio Secchia, il PCI e il ’68 (Datanews ed., 1998), che si pregia di una sua incisiva prefazione, in cui ricordava la figura ammiratissima di Pietro Secchia e del suo incontro con lui proprio nel ’66. Con fatica perché ‘Gracco’ non era un minoritario e la sua intransigenza sui principi non ha mai fatto velo alla sempre dichiarata esigenza di analizzare le fasi storico-politiche e della necessità della dimensione popolare e di massa della lotta delle classi subalterne, pur mosse, innestate e guidate dalle avanguardie coscienti in senso leninista. E insieme a Secchia (e Gramsci) amava riferirsi costantemente alla figura di Mao, anche per la sua capacità di incidenza politica sulle larghe masse. Nell’ultimo nostro colloquio, al telefono, ci pregò di non abbandonare lo studio del maoismo, vero e proprio patrimonio di classe per la rinascita comunista. Un maoismo liberato da incrostazioni dogmatiche e consegnato alle giovani generazioni in tutta la sua possibilità riattualizzante. Una rinascita, un «risorgimento» comunista, in quanto ormai nutriva seri dubbi in una ‘rifondazione’ o, meglio, che la strada intrapresa dal PRC e dal suo gruppo dirigente maggioritario, potesse inverare quella scommessa in cui anche lui aveva creduto nel 1991: la rifondazione del partito comunista, esigenza insopprimibile per le sorti del socialismo nel nostro paese. Tante altre cose si potrebbero scrivere e affermare sulla sua personalità, sulla sua lezione. Sul suo lascito profondo: ma qui ci piace ricordare, in ultimo, il suo insistito meridionalismo. Gracci aveva ben presente i tratti della questione meridionale italiana. E con convinzione ribadiva sempre che il processo rivoluzionario sarebbe stato impossibile senza il protagonismo del popolo del Mezzogiorno. Era stato al fianco del popolo di Battipaglia nelle lotte della Piana del Sele alla fine degli anni ’70 e successivamente, si era speso sino in fondo in una battaglia che riteneva decisiva, quella contro la mafia e la corruzione dei ceti dirigenti che la alimentano. E considerava l’episodio di Portella delle Ginestre del ‘47 come un ulteriore stupro nei confronti del popolo meridionale, che connotava i caratteri del nuovo dominio della borghesia capitalista del dopoguerra, violentatore degli aneliti alla liberazione e all’affrancamento da ogni assoggettamento. Da qui anche il suo interesse per la rivoluzione giacobina partenopea del 1799, che legò a tutte le vicende successive del nostro paese, al Risorgimento, alla Resistenza, alla nuova questione meridionale. E scrisse, nel suo bellissimo La rivoluzione negata (La Città del Sole, 1999) che “è, quindi, nel Meridione che la Rivoluzione italiana ripone, anche oggi, le sue maggiori speranze.”(pag.220).
Angiolo Gracci , 1920_2004 |
Fondo Gracci a Firenze |