Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 21 aprile 2022

LA SOGLIA E L'ALTROVE (De Martino, Chambers, Teti)

 

IL SENSO DI APPARTENENZA e L'ANGOSCIA DELLO SRADICAMENTO SULLA SOGLIA DELL' ‘ALTROVE’


  Ernesto de Martino, Iain Chambers, Vito Teti


È possibile stabilire un nesso tra il ‘senso di appartenenza’ e il viaggio continuo nel mondo (l’”altrove”)? /Subaltern studies Italia


“Su questo ciglio, lungo questo confine fra tranquillità e dispersione, si palesa uno spazio distruttivo, un territorio esotico, una soglia in cui la comprensione precedente cede il posto a una nuova configurazione.” , Iain Chambers, Sulla soglia del mondo. L'altrove dell'Occidente. Meltemi, 2003 (1.ed.or. 2001), pag.204

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Riproponiamo uno dei passi più celebri de “La fine del mondo“ di Ernesto de Martino, la confortante ombra del campanile di Marcellinara (CZ) per il vecchio pastore attaccato alla sua terra.

 

- Ricordo un tramonto percorrendo in auto una strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una «patria perduta». Giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma, e scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori della tragica avventura che lo aveva strappato allo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice, possono patire di angoscia quando viaggiano negli spazi, quando perdono nel silenzio cosmico il rapporto con quel «campanile di Marcellinara» che è il pianeta terra, e il mondo degli uomini: e parlano, parlano senza interruzione con i terricoli, non soltanto per informarli del loro viaggio, ma per non perdere «il senso della loro terra».

Ernesto de Martino, La fine del mondo, ed. Einaudi 2002, pp. 480/81.

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 “Il problema centrale del mondo di oggi appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al Campanile di Marcellinara, ma all’intero pianeta terra” Ernesto de Martino, ivi

 

 

/ IL VIAGGIO NELL’ APPARTENENZA di VITO TETI /

 

- Prologo. Del restare

“Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni”. L’incipit di Tristi Tropici di Lévi-Strauss è forse la frase più celebre e più avvincente di tutta la letteratura antropologica, e ricorda come il viaggio e lo spaesamento rappresentino i tratti costitutivi dell’esperienza antropologica.

Nulla più dell’idea del “restare” potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del sapere antropologico e dell’etnografia. Restare sembra l’antitesi del viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla scoperta, all’incontro.

Ma davvero l’idea e la pratica del restare sono inconciliabili con l’esperienza antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un viaggiare separatamente dall’esperienza del restare e davvero il restare va accostato all’immobilità, alla scelta di non incontrare l’altro e di non fare i conti con la propria ombra, il proprio doppio, l’alterità? Restare è difendere un appaesamento o esiste anche una maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più scioccante del viaggiare? (..)

Sono nato in una terra in cui partenza e attesa hanno costruito una nuova mentalità, una nuova identità. L’emigrazione è fatta di dolore della partenza e di dolore dell’attesa, di speranza, di fallimenti, di successi di chi parte e di speranze, fallimenti, successi di chi resta. (..)

Anche il viaggio dell’antropologo è intrinsecamente legato all’esigenza di tornare, di raccontare, di spiegare ai rimasti e forse, prima di ogni cosa, al se stesso rimasto. La scrittura e la narrazione antropologica- almeno come bisogno- nascono ancora prima di andare sul campo.

 

Vito Teti, Pietre di pane - Un’antropologia del restare, Quodlibet Studio, 2011, (2^ ed.2014), pp.9-11





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