Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 3 luglio 2020

LE ANTROPOLOGIE PARALLELE (le affinità elettive tra Gramsci e de Martino)


DOPPIO SGUARDO
è quello di ANTONIO GRAMSCI ed ERNESTO DE MARTINO, necessario per il riscatto delle classi subalterne, l’uno attraverso la scienza politica e la filosofia della prassi, l’altro attraverso la ricerca sul campo e l’antropologia filosofica, l’uno e l’altro impegnati in uno sforzo di interpretazione, sviluppano categorie ermeneutiche che attraversano l’essere-umano in tutte le sue dimensioni, implicitamente alla ricerca di quell’”uomo onnilaterale” di Marx, in cui convivono razionalità e irrazionalità, sentimento e ragione, e si intrecciano natura, storia e cultura. 
Non si tratta, a nostro avviso, di "accostare" le categorie di egemonia, senso comune o folclore con la crisi della presenza e l'ethos del trascendimento o la destorificazione del negativo, ma di leggerle in senso olistico, come "doppio sguardo" dell'unitarietà umanistica, storica ed esistenziale, che abbraccia la ricca molteplicità e la pluridimensionalità dell'essere umano, nella sfera materiale, relazionale, "spirituale", senza residui "misterici", se non l'occultamento tramite l'apparenza fenomenologica, segno dialettico strutturale e sovrastrutturale insieme della società alienata e mercificata del sistema capitalistico. E' così che il "doppio sguardo" può cogliere quello del bracciante di Minervino.
Il raffronto è diretto (esplicito) quando de Martino studia Gramsci sulle edizioni degli scritti del 1947, 1948 e del 1951, ma è indiretto (implicito) quando l'etnologo partenopeo riflette sui temi dell'antropologia legata alla sua ricerca sul campo e sull'antropologia filosofica che, in particolare negli ultimi anni, si rivolge più analiticamente alla cultura filosofica europea e internazionale. Ma è soprattutto uno sguardo parallelo, come ben articolato nell'interpretazione di Giovanni Pizza, che va nella direzione non tanto della continuità-discontinuità comunque ben rappresentate dall'analisi filologica, ma in senso olistico, unitario, in uno sguardo che, su entrambi i suoi lati, converge sul riscatto-liberazione della vita reale vissuta dagli esseri umani, dalla schiavitù delle condizioni materiali così come da quella riveniente dal tentativo costante di trascendere il proprio essere. (fe.d.)


da Giovanni Pizza: Gramsci e de Martino. Appunti per una riflessione.
in Quaderni di teoria sociale nr.13/2013, Morlacchi ed. 2013

estratti dalle pp. 81-86, 89-90, 96, 100,102,104, 106-107,110-111
"(..)
a partire dallo studio etnografico di comportamenti magici, de Martino giunse a problematizzare le stesse nozioni di realtà, di follia e di normalità.
Quando incontrò la pagina gramsciana, dunque, lo studioso del Mondo magico era ormai pronto a rivolgere lo sguardo antropologico dal mondo esotico a quello endotico: il «mondo grande e terribile», secondo la nota espressione gramsciana ricorrente nelle lettere a Tatiana Schucht [L 44, 52, 158, 217, 423]. (..)
In seguito all’amorevole e appassionata lettura [nota: avvalendosi della testimonianza di Vittoria de Palma, Pietro Angelini ricorda “l’amore con cui tenne per anni sul suo comodino le Lettere dal carcere” [Angelini 1995, 58]  delle Lettere [Gramsci 1947] e del primo volume dei Quaderni nella edizione Einaudi [Gramsci 1948], de Martino visse un momento di intensa condivisione delle tesi di Gramsci. La sconfitta del movimento operaio e contadino alle elezioni lo spinse a valorizzare maggiormente la centralità della questione culturale, strategica per valutare il ruolo degli intellettuali nella dialettica egemonica, nel privilegiare un’analisi dei rapporti di forza e di potere rispetto alla ortodossa sopravvalutazione dei rapporti di produzione.
L’emozione della lettura è restituita nei toni di alcuni brevi suoi scritti del 1948, che riflettono la “scoperta” di Gramsci. Scritti considerati minori, nella produzione dello studioso napoletano, ma che nel nostro caso appaiono molto utili in quanto direttamente rivolti a valorizzare nello spazio pubblico italiano alcuni propositi dell’autore dei Quaderni. Mi riferisco all’articolo Cultura e classe operaia, in Quarto Stato, la rivista di Lelio Basso [de Martino 1948b], e a tre scritti quotidiani: Guerra ideologica, La civiltà dello spirito e Il mito marxista, apparsi nell’Avanti! rispettivamente l’8, il 18 e il 29 agosto dello stesso anno [de Martino 1948cde]. In questi scritti, una prima acuta lettura demartiniana di Gramsci si offre non solo come elogio tempestivo dell’innovativo progetto di scrittura carceraria del prigioniero di Turi, ma anche come indicazione di una nuova via da percorrere, in ragione della comprensione immediata da parte di de Martino del carattere vivente del laboratorio italiano di Gramsci.(..)
"Attraverso Gramsci per la prima volta da parte di un militante italiano della classe operaia venne effettuato il tentativo di fare i conti con la storia culturale della nazione, con l’Italia che ebbe la Rinascenza, che non ebbe la Riforma, che dopo il Rinascimento ebbe la Controriforma, che cercò di risollevarsi a una funzione culturale universale attraverso il Risorgimento, e che tuttavia, dopo il 1870, si ripiegò quasi su se stessa, lasciando disperdere e isterilire i fermenti dell’età precedente; con l’Italia che si inserì di nuovo nella grande tradizione culturale europea attraverso l’idealismo storicistico, svolgendo e mandando innanzi la coscienza culturale della filosofia classica tedesca; con l’Italia concreta, storica, hic et nunc, determinata, con le sue strutture sociali, col suo Mezzogiorno disgregato e col suo Cristo fermo ad Eboli, secondo l’immagine che piacque a Levi. 
Per questa Italia Gramsci operò e scrisse, senza tuttavia mai spezzare il legame con “Ilici”, cioè col movimento proletario più avanzato, con l’avanguardia e la guida del movimento. Questo lavoro, appena iniziato da Gramsci, è ora che sia portato innanzi, sistematicamente svolto, sì da formare tradizione culturale, ma tradizione vivente, che aspiri a diventare ordine e organismo e si muova senza sosta verso questa meta" [de Martino 1993, 109].
È in questo saggio che egli evoca il programma intellettuale e civile di una “tradizione vivente”, l’esigenza di un “incremento del marxismo come esperienza vivente della classe operaia” in grado di porsi “in rapporto con la infinita varietà delle situazioni storiche concrete in cui la classe operaia è chiamata ad operare”.(..)
Il discorso avviato proseguì nei tre articoli apparsi sull’Avanti!. In Guerra ideologica, de Martino sottolineava come nella strategia di attacco che le classi reazionarie conducevano contro il movimento operaio assumesse “un particolare rilievo la lotta sul terreno culturale”. La fabbricazione degli stereotipi reazionari contro  i comunisti “trinariciuti” e “ottusi”, volti alla demonizzazione dell’avanguardia operaia designata come “malefica procuratrice di una sorta di imbestiamento generale” [de Martino 1993, 111],  ancora una volta era perseguita attraverso l’analisi delle ragioni che avevano determinato l’unificazione in blocco egemonico dell’idealismo e del cattolicesimo. Il tentativo demartiniano di aprire una lucida analisi di controffensiva è avviato nel nome di Gramsci: (..)
il “vivente” gramsciano è reso in chiave etnografica, si incarna in Puglia dove de Martino lavora come funzionario del partito socialista [cfr. Merico 2000].
Egli, infatti, richiama un enunciato di un bracciante di Minervino, un frammento di storia di vita, che ha immediatamente l’effetto di incastrare nella esperienza quella “immensa ipocrisia” della accusa idealista nei confronti del materialismo storico di “ricaduta nella barbarie della materia”, accusa che de Martino, attraverso le parole del bracciante delle Murge, sofferente per le sue drammatiche condizioni
materiali di esistenza, ritorce contro l’alta cultura italiana: “Noi dobbiamo metterci dal punto di vista del bracciante di Minervino, per il quale il mondo storico nel quale viviamo “dipende” di fatto dalla zolla, dal cibo e dal sudore: ma col bracciante di Minervino dobbiamo avvertire tutta l’angoscia connessa alla precarietà di una vita così poco umanamente vissuta” [ivi, 115]. Mettersi dal punto di vista del bracciante, non è un semplice invito a cambiare la prospettiva dello sguardo. Per un antropologo,  politicamente impegnato, è la indicazione di un nuovo progetto di studio e di lavoro, il cui fine è una comprensione concreta, etnograficamente fondata, della dialettica egemonica italiana. (..) 
 Lo studioso che più di ogni altro incarnava, in quel momento genetico italiano, l’esigenza di un “passaggio dal sapere al comprendere al sentire e viceversa dal sentire al comprendere al sapere” [Gramsci 1948 (1996, 148), Q 451]. Si trattò di un passaggio dalla filosofia all’antropologia, dalla politica all’etnografia e viceversa, nell’intento di situare la conoscenza in contesti reali e costruire la teoria sempre a partire dalla esperienza di una ricerca vivente, condivisa, quindi impegnata e democraticamente incisiva già sul piano epistemologico.
Quelle parole dovettero costituire un incontro straordinario per lo studioso del mondo magico che muoveva dal presupposto di “sentire e comprendere” le più remote presenze umane, individuali e collettive, prodotte da diverse forme di vita culturale.(..)
Dalla lettura di Gramsci de Martino trasse un decisivo sostegno e alcune specifiche direzioni di marcia. Fu in quegli anni che egli maturò definitivamente la consapevolezza di come la centralità della critica culturale gramsciana potesse coincidere con l’etnografia, la “prassi” della ricerca antropologica. (..)
L’intero decennio che va dal 1949 al 1959 è quello delle sue più importanti ricerche sul Mezzogiorno,
fra la Lucania e la Puglia, nelle quali si riflette in più di una occasione una assimilazione personale e creativa della impostazione gramsciana. Nelle opere che costituiscono l’esito della ricerca etnografica nel Mezzogiorno, Gramsci non è sempre riferimento centrale, ma appare agente spesso in maniera non secondaria, ancorché implicita, in una metodologia di ricerca storica e antropologica.(..)
Si trattava in fondo della messa a punto etnografica del progetto gramsciano di una antropologia degli intellettuali, che de Martino seguì al punto da criticare espressamente ogni tentativo degli studiosi del folklore e delle tradizioni che lo avevano preceduto di separare una dimensione colta ed egemone da una dimensione popolare e subalterna. Questa dicotomia egemone-subalterno (pure spesso erroneamente attribuita a Gramsci anche nella antropologia italiana post-demartiniana), era totalmente inesistente nell’autore dei Quaderni, e de Martino ne fu nettamente consapevole. Nelle pagine stese a Turi, Gramsci deliberatamente non aveva mai delineato in maniera compiuta, sistematica o teorico-scientifica, la nozione di egemonia e men che meno la aveva identificata con la categoria di dominio. La complessa accezione dialettica gramsciana dei processi egemonici non prevedeva certo una contrapposizione egemonia-subalternità essendo l’egemonia un processo incessantemente in divenire, caratterizzato quindi dalla lotta per la ricomposizione delle forze disperse attraverso iniziative di volontà collettiva volte al mutamento dei rapporti di forza vigenti e alla fabbricazione di un senso comune nuovo, fondato su un progresso intellettuale critico di massa. L’insofferenza per gli schematismi dicotomici rappresenta dunque una affinità elettiva fra Gramsci e de Martino (..)
 de Martino sembra seguire una linea gramsciana quando nella Terra del rimorso scrive della necessità di studi antropologici “molecolari”.
Il termine molecolare ricorre nel testo più volte. Osserviamone, brevemente per quanto possibile, il contesto. Molecolare è qui usato sette volte al singolare, più una volta al plurale, molecolari, e una volta nella forma avverbiale molecolarmente.(..)
Vi è in Gramsci piena consapevolezza che la dimensione molecolare è centrale per la comprensione dei processi di incorporazione del senso comune e in definitiva per lo studio dei rapporti di forza che fabbricano la realtà e costituiscono il terreno della trasformazione. La sua attenzione è rivolta allo studio minimale delle forme incorporate della statualità nel quotidiano, per comprendere la vita intima dello Stato, l’efficacia politico-fisica della sua permanente attività culturale.(..)
Se nello studio delle forme culturali de Martino si servì di Gramsci per una sua teoria della cultura come prassi, quando invece si dispose alla stesura del suo lavoro rimasto incompiuto, La fine del mondo, studiando il rapporto fra apocalissi culturali e apocalissi individuali psicopatologiche, non riconobbe più in Gramsci un interlocutore diretto, ma anzi ne prese le distanze.(..)
In questo senso emerge la sensazione che il confronto fra Gramsci e de Martino sia, a ben vedere, un confronto fra due antropologie parallele. Entrambe si rivelano di avanguardia per i loro anni, ed entrambe conservano tratti di vitalità e attualità alla luce del senso comune delle discipline antropologiche contemporanee. Ora si potrebbe dire, metaforicamente, non già che de Martino incorpora
Gramsci all’indomani della sua lettura, ma che Gramsci aveva già in sé il suo de Martino
(nota 32. È interessante notare come in almeno due occasioni de Martino, senza fare riferimento
alle analisi gramsciane, toccasse specifiche questioni che Gramsci aveva già sviluppato
nei Quaderni. Per esempio, riguardo l’analisi critica del simbolo mitico dello sciopero in
Georges Sorel o nella valutazione del millenarismo di Davide Lazzaretti: cfr., nel primo caso, de
Martino 1962, 57-59; 1977, 421-422, 445, con Q 951, 1556, e cfr., nel secondo caso,
de Martino 1962, 92, con le raffinate analisi gramsciane del lazzarettismo Q 297-299, 1146-
1147, 2279-2283. Un analogo confronto parallelo potrebbe essere svolto fra le diverse valutazioni
di Freud, nelle differenti fasi della riflessione demartiniana e nelle acute notazioni
critiche gramsciane presenti nei Quaderni e nelle Lettere [per la bibliografia e alcuni spunti
antropologici sulla critica a Freud da parte di Gramsci cfr. Pizza 2003].) (..)
La distanza ravvicinata delle prime letture diventa una vicinanza ormai lontana. In tale quadro, la nostra lettura parallela genera connessioni non più dirette o reali, ma prodotte da una persistente “aria di famiglia” che può spingersi a sovrapporre le due figure verso un capovolgimento di ruoli inaspettato. Chi è il politico? Chi l’antropologo?(..)
Forse la vicinanza dell’antropologia alla filosofia, e l’inatteso capovolgimento di ruoli, trova in quella caratteristica vivente del pensiero italiano una motivazione che supera la ragione genealogica e resta aperta alla vita stessa.
In fondo era stato Gramsci stesso a qualificare come “una “antropologia”” la sua specifica declinazione della filosofia della prassi.

Riferimenti bibliografici

 P.Angelini, 1995 Gramsci, de Martino e la crisi della scienza del folklore, in G. Baratta, A. Catone
(a cura di), Antonio Gramsci e il “progresso intellettuale di massa”, Edizioni Unicopli, Milano, pp. 53-78.

A.Gramsci,
1947 Lettere dal carcere, Einaudi, Torino.
[L]. 1996 Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di A. A. Santucci, Sellerio, Palermo, 2
voll. /
1948 Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino [nuova
edizione Editori Riuniti, Roma, 1977, III edizione 1996].
[Q]. 1975 Quaderni del carcere, edizione a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 4 voll./

Ernesto de Martino
 1948b Cultura e classe operaia, Quarto Stato, III, 1, pp. 19-22 [poi in de Martino
1993, 103-109].
1948c Guerra ideologica, Avanti!, 8 agosto [poi in de Martino 1993, 111-113].
1948d La civiltà dello spirito, Avanti!, 18 agosto [poi in de Martino 1993, 115-117].
1948e Il mito marxista, Avanti!, 29 agosto [poi in de Martino 1993, 119-121].
1962 Furore, simbolo, valore, Il Saggiatore, Milano.
1993 Scritti minori su religione, marxismo e psicoanalisi, a cura di R. Altamura-P.
Ferretti, Nuove Edizioni Romane, Roma.

Merico, M.
2000 Ernesto de Martino, la Puglia, il Salento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

Pizza, G.
2003 Antonio Gramsci e l’antropologia medica  ora. Egemonia, agentività e 
trasformazioni della persona, AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 15-16, pp. 33-51.




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