nr.13/2013, Morlacchi ed. 2013
estratti dalle pp. 81-86, 89-90, 96, 100,102,104, 106-107,110-111
a partire dallo studio etnografico di comportamenti magici, de Martino giunse a problematizzare le stesse nozioni di realtà, di follia e di normalità.
era ormai pronto a rivolgere lo sguardo antropologico dal mondo esotico a quello endotico: il «mondo grande e terribile», secondo la nota espressione gramsciana ricorrente nelle lettere a Tatiana Schucht [
44, 52, 158, 217, 423]. (..)
In seguito all’amorevole e appassionata lettura [nota: avvalendosi della testimonianza di Vittoria de Palma, Pietro Angelini ricorda “l’amore con cui tenne per anni sul suo comodino le Lettere dal carcere” [Angelini 1995, 58] delle
nella edizione Einaudi [Gramsci 1948], de Martino visse un momento di intensa condivisione delle tesi di Gramsci. La sconfitta del movimento operaio e contadino alle elezioni lo spinse a valorizzare maggiormente la centralità della questione culturale, strategica per valutare il ruolo degli intellettuali nella dialettica egemonica, nel privilegiare un’analisi dei rapporti di forza e di potere rispetto alla ortodossa sopravvalutazione dei rapporti di produzione.
L’emozione della lettura è
restituita nei toni di alcuni brevi suoi scritti del 1948, che riflettono la “scoperta”
di Gramsci. Scritti considerati minori, nella produzione dello studioso
napoletano, ma che nel nostro caso appaiono molto utili in quanto direttamente
rivolti a valorizzare nello spazio pubblico italiano alcuni propositi dell’autore
dei Quaderni. Mi riferisco all’articolo Cultura e classe operaia, in Quarto Stato, la rivista di
Lelio Basso [de Martino 1948b], e a tre scritti quotidiani: Guerra ideologica, La civiltà dello spirito e Il mito marxista, apparsi nell’Avanti!
rispettivamente l’8, il 18 e il 29 agosto dello stesso anno [de Martino
1948cde]. In questi scritti, una prima acuta lettura demartiniana di Gramsci si
offre non solo come elogio tempestivo dell’innovativo progetto di scrittura
carceraria del prigioniero di Turi, ma anche come indicazione di una nuova via
da percorrere, in ragione della comprensione immediata da parte di de Martino
del carattere vivente del laboratorio italiano di
Gramsci.(..)
"Attraverso Gramsci per la prima volta da parte
di un militante italiano della classe operaia venne effettuato il tentativo di
fare i conti con la storia culturale della nazione, con l’Italia che ebbe la
Rinascenza, che non ebbe la Riforma, che dopo il Rinascimento ebbe la
Controriforma, che cercò di risollevarsi a una funzione culturale universale
attraverso il Risorgimento, e che tuttavia, dopo il 1870, si ripiegò quasi su
se stessa, lasciando disperdere e isterilire i fermenti dell’età precedente;
con l’Italia che si inserì di nuovo nella grande tradizione culturale europea
attraverso l’idealismo storicistico, svolgendo e mandando innanzi la coscienza
culturale della filosofia classica tedesca; con l’Italia concreta, storica, hic et nunc, determinata, con le sue strutture sociali, col suo
Mezzogiorno disgregato e col suo Cristo fermo ad Eboli, secondo l’immagine che
piacque a Levi.
Per questa Italia Gramsci operò e scrisse, senza tuttavia mai
spezzare il legame con “Ilici”, cioè col movimento proletario più avanzato, con
l’avanguardia e la guida del movimento. Questo lavoro, appena iniziato da
Gramsci, è ora che sia portato innanzi, sistematicamente svolto, sì da formare
tradizione culturale, ma tradizione vivente, che aspiri a diventare ordine e
organismo e si muova senza sosta verso questa meta" [de Martino 1993, 109].
È in questo saggio che egli evoca il programma
intellettuale e civile di una “tradizione vivente”, l’esigenza di un “incremento
del marxismo come esperienza vivente della classe operaia” in grado di porsi “in
rapporto con la infinita varietà delle situazioni storiche concrete in cui la
classe operaia è chiamata ad operare”.(..)
Il discorso avviato proseguì nei tre articoli apparsi
sull’Avanti!. In Guerra
ideologica, de Martino
sottolineava come nella strategia di attacco che le classi reazionarie conducevano
contro il movimento operaio assumesse “un particolare rilievo la lotta sul
terreno culturale”. La fabbricazione degli stereotipi reazionari contro i comunisti “trinariciuti” e “ottusi”, volti
alla demonizzazione dell’avanguardia operaia designata come “malefica
procuratrice di una sorta di imbestiamento generale” [de Martino 1993, 111], ancora una volta era perseguita attraverso l’analisi
delle ragioni che avevano determinato l’unificazione in blocco egemonico dell’idealismo
e del cattolicesimo. Il tentativo demartiniano di aprire una lucida analisi di
controffensiva è avviato nel nome di Gramsci: (..)
il “vivente” gramsciano è reso in chiave etnografica,
si incarna in Puglia dove de Martino lavora come funzionario del partito
socialista [cfr. Merico 2000].
Egli, infatti, richiama un enunciato di un bracciante
di Minervino, un frammento di storia di vita, che ha immediatamente l’effetto
di incastrare nella esperienza quella “immensa ipocrisia” della accusa
idealista nei confronti del materialismo storico di “ricaduta nella barbarie
della materia”, accusa che de Martino, attraverso le parole del bracciante
delle Murge, sofferente per le sue drammatiche condizioni
materiali
di esistenza, ritorce contro l’alta cultura italiana: “Noi dobbiamo metterci
dal punto di vista del bracciante di Minervino, per il quale il mondo storico
nel quale viviamo “dipende” di fatto dalla zolla, dal cibo e dal sudore: ma col
bracciante di Minervino dobbiamo avvertire tutta l’angoscia connessa alla
precarietà di una vita così poco umanamente vissuta” [ivi, 115]. Mettersi dal punto di vista del bracciante, non è un semplice invito a
cambiare la prospettiva dello sguardo. Per un antropologo, politicamente
impegnato, è la indicazione di un nuovo progetto di studio e di lavoro, il cui
fine è una comprensione concreta, etnograficamente fondata, della dialettica
egemonica italiana. (..)
Lo studioso che più di ogni altro incarnava, in quel
momento genetico italiano, l’esigenza di un “passaggio dal sapere al comprendere al sentire e viceversa dal sentire al
comprendere al sapere” [Gramsci 1948 (1996, 148), Q 451]. Si trattò di un passaggio
dalla filosofia all’antropologia, dalla politica all’etnografia e viceversa,
nell’intento di situare la conoscenza in contesti reali e costruire la teoria
sempre a partire dalla esperienza di una ricerca vivente, condivisa, quindi
impegnata e democraticamente incisiva già sul piano epistemologico.
Quelle parole dovettero costituire un incontro
straordinario per lo studioso del mondo magico che muoveva dal presupposto di “sentire
e comprendere” le più remote presenze umane, individuali e collettive, prodotte
da diverse forme di vita culturale.(..)
Dalla lettura di Gramsci de Martino trasse un decisivo
sostegno e alcune specifiche direzioni di marcia. Fu in quegli anni che egli
maturò definitivamente la consapevolezza di come la centralità della critica
culturale gramsciana potesse coincidere con l’etnografia, la “prassi” della
ricerca antropologica. (..)
L’intero decennio che va dal 1949 al 1959 è quello
delle sue più importanti ricerche sul Mezzogiorno,
fra la Lucania e la Puglia, nelle quali si riflette in
più di una occasione una assimilazione personale e creativa della impostazione
gramsciana. Nelle opere che costituiscono l’esito della ricerca etnografica nel
Mezzogiorno, Gramsci non è sempre riferimento centrale, ma appare agente spesso
in maniera non secondaria, ancorché implicita, in una metodologia di ricerca
storica e antropologica.(..)
Si trattava in fondo della messa a punto etnografica
del progetto gramsciano di una antropologia degli intellettuali, che de Martino
seguì al punto da criticare espressamente ogni tentativo degli studiosi del
folklore e delle tradizioni che lo avevano preceduto di separare una dimensione
colta ed egemone da una dimensione popolare e subalterna. Questa dicotomia egemone-subalterno
(pure spesso erroneamente attribuita a Gramsci anche nella antropologia
italiana post-demartiniana), era totalmente inesistente nell’autore dei Quaderni, e de Martino ne fu nettamente
consapevole. Nelle pagine stese a Turi, Gramsci deliberatamente non aveva mai
delineato in maniera compiuta, sistematica o teorico-scientifica, la nozione di
egemonia e men che meno la aveva identificata con la categoria di dominio. La
complessa accezione dialettica gramsciana dei processi egemonici non prevedeva
certo una contrapposizione egemonia-subalternità essendo l’egemonia un processo
incessantemente in divenire, caratterizzato quindi dalla lotta per la
ricomposizione delle forze disperse attraverso iniziative di volontà collettiva
volte al mutamento dei rapporti di forza vigenti e alla fabbricazione di un
senso comune nuovo, fondato su un progresso intellettuale critico di massa. L’insofferenza
per gli schematismi dicotomici rappresenta dunque una affinità elettiva fra
Gramsci e de Martino (..)
de Martino sembra seguire una linea gramsciana quando nella
Terra del
rimorso scrive della
necessità di studi antropologici “molecolari”.
Il termine molecolare ricorre nel testo più volte. Osserviamone, brevemente
per quanto possibile, il contesto. Molecolare è qui usato sette volte al singolare, più una volta al
plurale, molecolari, e una volta nella forma
avverbiale molecolarmente.(..)
Vi è in Gramsci piena consapevolezza che la dimensione
molecolare è centrale per la comprensione dei processi di incorporazione del
senso comune e in definitiva per lo studio dei rapporti di forza che fabbricano
la realtà e costituiscono il terreno della trasformazione. La sua attenzione è
rivolta allo studio minimale delle forme incorporate della statualità nel
quotidiano, per comprendere la vita intima dello Stato, l’efficacia
politico-fisica della sua permanente attività culturale.(..)
Se nello studio delle forme culturali de Martino si
servì di Gramsci per una sua teoria della cultura come prassi, quando invece si
dispose alla stesura del suo lavoro rimasto incompiuto, La fine del mondo, studiando il rapporto fra
apocalissi culturali e apocalissi individuali psicopatologiche, non riconobbe
più in Gramsci un interlocutore diretto, ma anzi ne prese le distanze.(..)
In questo senso emerge la sensazione che il confronto
fra Gramsci e de Martino sia, a ben vedere, un confronto fra due antropologie
parallele. Entrambe si rivelano di avanguardia per i loro anni, ed entrambe
conservano tratti di vitalità e attualità alla luce del senso comune delle
discipline antropologiche contemporanee. Ora si potrebbe dire, metaforicamente,
non già che de Martino incorpora
Gramsci all’indomani della sua lettura, ma che Gramsci
aveva già in sé il suo de Martino
(nota 32. È interessante notare come in almeno due occasioni de
Martino, senza fare riferimento
alle analisi gramsciane, toccasse
specifiche questioni che Gramsci aveva già sviluppato
nei Quaderni. Per esempio, riguardo l’analisi
critica del simbolo mitico dello sciopero in
Georges Sorel o nella valutazione
del millenarismo di Davide Lazzaretti: cfr., nel primo caso, de
Martino 1962, 57-59; 1977,
421-422, 445, con Q 951, 1556, e cfr., nel secondo
caso,
de Martino 1962, 92, con le
raffinate analisi gramsciane del lazzarettismo Q 297-299, 1146-
1147, 2279-2283. Un analogo
confronto parallelo potrebbe essere svolto fra le diverse valutazioni
di Freud, nelle differenti fasi
della riflessione demartiniana e nelle acute notazioni
critiche gramsciane presenti nei Quaderni e nelle Lettere [per la bibliografia e alcuni
spunti
antropologici sulla critica a
Freud da parte di Gramsci cfr. Pizza 2003].) (..)
La distanza ravvicinata delle prime letture diventa
una vicinanza ormai lontana. In tale quadro, la nostra lettura parallela genera
connessioni non più dirette o reali, ma prodotte da una persistente “aria di famiglia”
che può spingersi a sovrapporre le due figure verso un capovolgimento di ruoli
inaspettato. Chi è il politico? Chi l’antropologo?(..)
Forse la vicinanza dell’antropologia alla filosofia, e
l’inatteso capovolgimento di ruoli, trova in quella caratteristica vivente del pensiero italiano una
motivazione che supera la ragione genealogica e resta aperta alla vita stessa.
In fondo era stato Gramsci stesso a qualificare come “una
“antropologia”” la sua specifica declinazione della filosofia della prassi.
Riferimenti bibliografici
P.Angelini, 1995 Gramsci, de Martino e la crisi della scienza del
folklore, in G.
Baratta, A. Catone
(a cura di), Antonio
Gramsci e il “progresso intellettuale di massa”, Edizioni Unicopli, Milano, pp. 53-78.
A.Gramsci,
1947 Lettere dal
carcere, Einaudi,
Torino.
[L]. 1996 Lettere dal
carcere 1926-1937, a cura di
A. A. Santucci, Sellerio, Palermo, 2
voll. /
1948 Il
materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino [nuova
edizione Editori Riuniti, Roma, 1977, III edizione
1996].
[Q]. 1975 Quaderni del
carcere, edizione a
cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 4 voll./
Ernesto de Martino
1948b Cultura e
classe operaia, Quarto
Stato, III, 1, pp. 19-22 [poi in de Martino
1993, 103-109].
1948c Guerra
ideologica, Avanti!, 8
agosto [poi in de Martino 1993, 111-113].
1948d La civiltà
dello spirito, Avanti!,
18 agosto [poi in de Martino 1993, 115-117].
1948e Il mito
marxista, Avanti!,
29 agosto [poi in de Martino 1993, 119-121].
1962 Furore,
simbolo, valore, Il
Saggiatore, Milano.
1993 Scritti
minori su religione, marxismo e psicoanalisi, a cura di R. Altamura-P.
Ferretti, Nuove Edizioni Romane, Roma.
Merico, M.
2000 Ernesto de
Martino, la Puglia, il Salento, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli.
Pizza, G.
2003 Antonio
Gramsci e l’antropologia medica ora.
Egemonia, agentività e
trasformazioni della persona, AM.
Rivista della Società italiana di antropologia medica, 15-16, pp. 33-51.
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