dai Subaltern ai Postcolonial studies (2)
“La Rani
divenne uno strumento. Ed è così che furono tracciate le linee della
restaurazione della storia di (una) donna secondo le definizioni occidentali di
storicità” (1). Secondo quel Canone occidentale che Spivak rigetta, in
primis, per se stessa e per il proprio lavoro. (..)
1.
Gayatri
Chakravory Spivak, Critica della ragione
postcoloniale, Verso una storia del presente in dissolvenza, trad. it. di
Patrizia Calefato, Meltemi, 2004. La Critica della ragione postcoloniale è
uscita nella versione originale nel 1999,(..) Con l’esplicita formula kantiana,
l’opera è una corposa perlustrazione decostruttiva dei campi del sapere, sulle
tracce dell’informante nativo forcluso. “Campi del sapere” che Spivak
provocatoriamente presenta in quattro macro – capitoli, che seguono le
ripartizioni epistemiche dell’Occidente: la Filosofia, la Letteratura, la
Storia e la Cultura al fine di evidenziarne i costrutti etnocentrici che li
definiscono come totalità distinte.
La Rani di Sirmur: allestimento di una scena
Siamo
intorno al 1820, nella regione di Sirmur, basso Himalaya. Lì visse, secondo gli
archivi inglesi, una Rani (“regina”) sposata ad un Rajah. Sono anni decisivi
per il consolidamento della presenza imperiale britannica in India: negli
ultimi decenni del XVIII secolo una serie di interventi legislativi aveva
modificato in profondità la struttura e le funzioni della Compagnia delle Indie
Orientali, delineando un sistema di governo che sarebbe durato fino alla rivolta
anti- britannica del 1857. Subito dopo, muovendo dall’esigenza di
razionalizzare il sistema del prelievo fiscale, e in particolare l’imposta
fondiaria, la Compagnia aveva finito per realizzare un intervento di ampia
portata sulla definizione stessa delle figure sociali nelle campagne del
Bengala, introducendovi un diritto proprietario modellato su quello inglese.
Nel 1813, la dichiarazione di sovranità della Corona britannica sul territorio
acquisito nel subcontinente, rappresentò anche formalmente un momento di
stabilizzazione del dominio coloniale. Sono anche gli anni dell’uscita della
monumentale History of British India del filosofo James Mill che, ben
guardandosi dal mettere piede in Asia, aveva dato espressione ad un
significativo mutamento nell’atteggiamento britannico nei confronti dell’India:
la fascinazione per gli aspetti esotici dell’Oriente diventava una schietta
rivendicazione di superiorità culturale dell’Occidente.
È in questo
contesto che ha luogo un episodio “minore” nella storia del colonialismo
britannico in India. Il Rajah di Sirmur, Karam Prakash, viene deposto dai
britannici in ragione della sua barbarie e dissolutezza, anche se vi sono buone
ragioni per pensare che la principale prova a suo carico fosse il fatto che
aveva la sifilide. La reggenza è assegnata a un figlio minorenne del Rajah, di
cui viene riconosciuta come tutrice la regina (la Rani). Un bambino come
reggente, posto sotto la tutela di una donna: una situazione ottimale per
preparare la soluzione, a cui puntavano gli inglesi, lo smembramento di Sirmur.
Sembrerebbe
che fosse necessario tenere Sirmur sotto la guida di un bambino, sotto la
tutela di una donna, perché lo “smembramento di Sirmur” (come riportato in una
comunicazione segreta) era molto probabile. L’intera metà orientale di Sirmur,
e alla fine anche tutto il resto, doveva essere immediatamente annessa per
mettere al sicuro le rotte commerciali della Compagnia e la frontiera con il
Nepal, per indagare l’efficacia dell’“apertura di una comunicazione commerciale
attraverso il Bussaher con il paese al di là delle montagne innevate”
(2).
La reggenza
è affidata alla Rani semplicemente “because she is a king’s wife and a weaker
vessel” (3): la privilegiata posizione sociale ed economica della Rani è
subordinata alla sua identità di genere come madre del futuro re e come vedova
del Rajah.
Avviene,
però, qualcosa di imprevisto. Un funzionario britannico, un certo Capitano
Birch, informa il Residente a Dehli che la Rani ha comunicato la propria
decisione di farsi ardere sulla pira funebre del marito. Il Capitano chiede di
essere autorizzato a intervenire nel modo più deciso per scongiurare il
suicidio della Rani di Sirmur, coniugando opportunità politica e riprovazione
morale per un’usanza barbara come il sacrificio rituale delle vedove. Quel sati
su cui già nel decennio precedente erano divampate furiose polemiche che
avevano coinvolto amministratori coloniali e sezioni delle élite autoctone, e
che sarebbe stato dichiarato illegale dal governatore generale Lord Bentinck
nel 1829. Gli archivi non riportano la conclusione della vicenda, ma pare che
la Rani di Sirmur sia morta di morte naturale.
È questo
dunque il motivo per cui la Rani affiora fugacemente dagli archivi, nella sua
individualità: perché sulla scacchiera del Grande Gioco è moglie di un re e
appartiene al sesso debole. Non siamo nemmeno sicuri del suo nome: “Talvolta ci
si riferisce a lei come Rani Gulani e talvolta come Gulari. In generale viene
propriamente indicata come la Ranee dagli alti ufficiali della Compagnia, e
“questa Ranni” da Geoffrey Birch e Robert Ross.
È qui che
comincia “il racconto di una singolare manipolazione della sua vita privata”,
divisa tra patriarcato e imperialismo. Il sacrificio delle Vedove, nel discorso
braminico, è una
manipolazione
della formazione del soggetto femminile attraverso una contronarrazione
artefatta della coscienza della donna, e dunque, dell’essere – brava della
donna, e dunque il desiderio della brava donna, e dunque il desiderio della
donna.[...] Suggerirò che i britannici ignorassero lo spazio del Sati come
campo di battaglia ideologico e costruissero la donna come oggetto del
massacro, il cui salvataggio può marcare il momento in cui una società, non
solo civile, ma anche buona, si origina dal caos domestico. Tra la formazione
patriarcale del soggetto e la costituzione imperialista dell’oggetto, è lo
spazio della libera volontà dell’agentività del soggetto sessuato come
femminile a essere efficacemente cancellata.
La Rani di
Sirmur è costruita in due frasi, distillato massimo della violenza epistemica
tanto dell’imperialismo quanto del patriarcato: “Uomini bianchi stanno salvando
donne scure da uomini scuri”, espressione della volontà dei britannici di
abolire il “barbaro” rituale del sati e, in risposta a questa, la dichiarazione
nativista indiana, nostalgica per le origini perdute, “le donne volevano
morire”. La Rani emerge dalla storia solo quando è necessaria per la
“produzione” imperiale” (3) o patriarcale. Spivak è inequivocabile:
Non è
meramente tautologico dire che la subalterna coloniale o postcoloniale si
definisca come l’essere dall’altro lato della differenza, o della frattura
epistemica, anche rispetto ad altri gruppi di colonizzati.
La subalternità diventa di genere: “By the inexorable ideological production
of the sexed subject, such a death can be understood as an exceptional
signifier of her own desire, exceeding the general rule for a widow’s
conduct”(4).
Il
sacrificio delle vedove non è prescritto da alcun codice religioso. Il Sati è
semplicemente un exceptional signifier creato da patriarcato ed imperialismo.
Il maschio nativo subalterno “produce” il sati come la condotta della buona
moglie che desidera seguire il proprio marito nella morte: “The proper place
for the woman to annul the proper name of suicide through the destruction of
her proper self is on a dead spouse’s pyre” (4). Il maschio britannico
colonizzatore, invece, “produce” il sati per giustificare la propria missione
civilizzatrice, ovvero la propria colonizzazione.
Le donne non
si sacrificano, sono sacrificate. Non si suicidano. Sono suicidate. La loro
subalternità è doppia, perché doppiamente escluse dai discorsi e dalle
rappresentazioni in quanto donne e in quanto subalterne.
(2)
Citazioni da Gayatri Chakravorty Spivak, Critica
della ragione postcoloniale, cit., pp. 241, 223, 244, 247,248, 296,299,
319
(3) Idem, The Rani of Sirmur: An Essay in Reading the Archives, in “History
and Theory”, XXIV, 3, p. 266 e 270
(4) Gayatri Chakravorty Spivak, Can
the Subaltern Speak?, in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura
di C. Nelson, L. Grossberg, University of Illinois Press, Urbana 1988,
pag.300
di Pamela De Lucia
Rosalind C. Morris, Can the Subaltern Speak?: Reflections on the History of an Idea, Columbia University Press, New York 2010, p. I.
Alessandro
Corio, Spettri di Spivak: “presa di
parola” e “rappresentazione” ai margini del canone occidentale, in
“Trickster”, 5, 2008
Ranajit Guha, Gayatri Chakravory Spivak,
Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra, Ombre Corte, Verona 2002
a cura di
Ferdinando Dubla - Subaltern studies Italia
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