Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 9 novembre 2021

LA RANI di SIRMUR e il CANONE OCCIDENTALE

 

dai Subaltern ai Postcolonial studies (2)


“La Rani divenne uno strumento. Ed è così che furono tracciate le linee della restaurazione della storia di (una) donna secondo le definizioni occidentali di storicità” (1).  Secondo quel Canone occidentale che Spivak rigetta, in primis, per se stessa e per il proprio lavoro. (..) 

1.      Gayatri Chakravory Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Verso una storia del presente in dissolvenza, trad. it. di Patrizia Calefato, Meltemi, 2004. La Critica della ragione postcoloniale è uscita nella versione originale nel 1999,(..) Con l’esplicita formula kantiana, l’opera è una corposa perlustrazione decostruttiva dei campi del sapere, sulle tracce dell’informante nativo forcluso. “Campi del sapere” che Spivak provocatoriamente presenta in quattro macro – capitoli, che seguono le ripartizioni epistemiche dell’Occidente: la Filosofia, la Letteratura, la Storia e la Cultura al fine di evidenziarne i costrutti etnocentrici che li definiscono come totalità distinte.

 

La Rani di Sirmur: allestimento di una scena

Siamo intorno al 1820, nella regione di Sirmur, basso Himalaya. Lì visse, secondo gli archivi inglesi, una Rani (“regina”) sposata ad un Rajah. Sono anni decisivi per il consolidamento della presenza imperiale britannica in India: negli ultimi decenni del XVIII secolo una serie di interventi legislativi aveva modificato in profondità la struttura e le funzioni della Compagnia delle Indie Orientali, delineando un sistema di governo che sarebbe durato fino alla rivolta anti- britannica del 1857. Subito dopo, muovendo dall’esigenza di razionalizzare il sistema del prelievo fiscale, e in particolare l’imposta fondiaria, la Compagnia aveva finito per realizzare un intervento di ampia portata sulla definizione stessa delle figure sociali nelle campagne del Bengala, introducendovi un diritto proprietario modellato su quello inglese. Nel 1813, la dichiarazione di sovranità della Corona britannica sul territorio acquisito nel subcontinente, rappresentò anche formalmente un momento di stabilizzazione del dominio coloniale. Sono anche gli anni dell’uscita della monumentale History of British India del filosofo James Mill che, ben guardandosi dal mettere piede in Asia, aveva dato espressione ad un significativo mutamento nell’atteggiamento britannico nei confronti dell’India: la fascinazione per gli aspetti esotici dell’Oriente diventava una schietta rivendicazione di superiorità culturale dell’Occidente.

È in questo contesto che ha luogo un episodio “minore” nella storia del colonialismo britannico in India. Il Rajah di Sirmur, Karam Prakash, viene deposto dai britannici in ragione della sua barbarie e dissolutezza, anche se vi sono buone ragioni per pensare che la principale prova a suo carico fosse il fatto che aveva la sifilide. La reggenza è assegnata a un figlio minorenne del Rajah, di cui viene riconosciuta come tutrice la regina (la Rani). Un bambino come reggente, posto sotto la tutela di una donna: una situazione ottimale per preparare la soluzione, a cui puntavano gli inglesi, lo smembramento di Sirmur.

Sembrerebbe che fosse necessario tenere Sirmur sotto la guida di un bambino, sotto la tutela di una donna, perché lo “smembramento di Sirmur” (come riportato in una comunicazione segreta) era molto probabile. L’intera metà orientale di Sirmur, e alla fine anche tutto il resto, doveva essere immediatamente annessa per mettere al sicuro le rotte commerciali della Compagnia e la frontiera con il Nepal, per indagare l’efficacia dell’“apertura di una comunicazione commerciale attraverso il Bussaher con il paese al di là delle montagne innevate” (2). 

La reggenza è affidata alla Rani semplicemente “because she is a king’s wife and a weaker vessel” (3):  la privilegiata posizione sociale ed economica della Rani è subordinata alla sua identità di genere come madre del futuro re e come vedova del Rajah.

Avviene, però, qualcosa di imprevisto. Un funzionario britannico, un certo Capitano Birch, informa il Residente a Dehli che la Rani ha comunicato la propria decisione di farsi ardere sulla pira funebre del marito. Il Capitano chiede di essere autorizzato a intervenire nel modo più deciso per scongiurare il suicidio della Rani di Sirmur, coniugando opportunità politica e riprovazione morale per un’usanza barbara come il sacrificio rituale delle vedove. Quel sati su cui già nel decennio precedente erano divampate furiose polemiche che avevano coinvolto amministratori coloniali e sezioni delle élite autoctone, e che sarebbe stato dichiarato illegale dal governatore generale Lord Bentinck nel 1829. Gli archivi non riportano la conclusione della vicenda, ma pare che la Rani di Sirmur sia morta di morte naturale.

È questo dunque il motivo per cui la Rani affiora fugacemente dagli archivi, nella sua individualità: perché sulla scacchiera del Grande Gioco è moglie di un re e appartiene al sesso debole. Non siamo nemmeno sicuri del suo nome: “Talvolta ci si riferisce a lei come Rani Gulani e talvolta come Gulari. In generale viene propriamente indicata come la Ranee dagli alti ufficiali della Compagnia, e “questa Ranni” da Geoffrey Birch e Robert Ross. 

È qui che comincia “il racconto di una singolare manipolazione della sua vita privata”, divisa tra patriarcato e imperialismo. Il sacrificio delle Vedove, nel discorso braminico, è una

manipolazione della formazione del soggetto femminile attraverso una contronarrazione artefatta della coscienza della donna, e dunque, dell’essere – brava della donna, e dunque il desiderio della brava donna, e dunque il desiderio della donna.[...] Suggerirò che i britannici ignorassero lo spazio del Sati come campo di battaglia ideologico e costruissero la donna come oggetto del massacro, il cui salvataggio può marcare il momento in cui una società, non solo civile, ma anche buona, si origina dal caos domestico. Tra la formazione patriarcale del soggetto e la costituzione imperialista dell’oggetto, è lo spazio della libera volontà dell’agentività del soggetto sessuato come femminile a essere efficacemente cancellata.

La Rani di Sirmur è costruita in due frasi, distillato massimo della violenza epistemica tanto dell’imperialismo quanto del patriarcato: “Uomini bianchi stanno salvando donne scure da uomini scuri”, espressione della volontà dei britannici di abolire il “barbaro” rituale del sati e, in risposta a questa, la dichiarazione nativista indiana, nostalgica per le origini perdute, “le donne volevano morire”. La Rani emerge dalla storia solo quando è necessaria per la “produzione” imperiale” (3) o patriarcale. Spivak è inequivocabile:

Non è meramente tautologico dire che la subalterna coloniale o postcoloniale si definisca come l’essere dall’altro lato della differenza, o della frattura epistemica, anche rispetto ad altri gruppi di colonizzati.

La subalternità diventa di genere: “By the inexorable ideological production of the sexed subject, such a death can be understood as an exceptional signifier of her own desire, exceeding the general rule for a widow’s conduct”(4).

Il sacrificio delle vedove non è prescritto da alcun codice religioso. Il Sati è semplicemente un exceptional signifier creato da patriarcato ed imperialismo. Il maschio nativo subalterno “produce” il sati come la condotta della buona moglie che desidera seguire il proprio marito nella morte: “The proper place for the woman to annul the proper name of suicide through the destruction of her proper self is on a dead spouse’s pyre” (4). Il maschio britannico colonizzatore, invece, “produce” il sati per giustificare la propria missione civilizzatrice, ovvero la propria colonizzazione.

Le donne non si sacrificano, sono sacrificate. Non si suicidano. Sono suicidate. La loro subalternità è doppia, perché doppiamente escluse dai discorsi e dalle rappresentazioni in quanto donne e in quanto subalterne. 

 

(2) Citazioni da Gayatri Chakravorty Spivak, Critica della ragione postcoloniale, cit., pp. 241, 223, 244, 247,248, 296,299, 319 

(3) Idem, The Rani of Sirmur: An Essay in Reading the Archives, in “History and Theory”, XXIV, 3, p. 266 e 270 

(4) Gayatri Chakravorty Spivak, Can the Subaltern Speak?, in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di C. Nelson, L. Grossberg, University of Illinois Press, Urbana 1988, pag.300 

 da IMMAGINI in DISSOLVENZA - Lettura “interessata” di Can The Subaltern Speak? di Gayatri Chakravorty Spivak, pp.105/107 

di Pamela De Lucia

in DEP - Deportate, esuli, profughe, rivista telematica di studi sulla memoria femminile, nr.21/2013 - afferisce al Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Universita’ di Venezia.


vedi anche: 

Rosalind C. Morris, Can the Subaltern Speak?: Reflections on the History of an Idea, Columbia University Press, New York 2010, p. I.

Alessandro Corio, Spettri di Spivak: “presa di parola” e “rappresentazione” ai margini del canone occidentale, in “Trickster”, 5, 2008

Ranajit Guha, Gayatri Chakravory Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra, Ombre Corte, Verona 2002

 

a cura di Ferdinando Dubla - Subaltern studies Italia 





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