dai Subaltern ai Postcolonial studies (1.)
contributi da Quaderni di Kaleidos e Pamela De Lucia
Tra le
analisi critiche delle ambivalenze della democrazia, del multiculturalismo e
dello stesso femminismo occidentale nell'età del capitalismo globale,
finanziario e transnazionale, spicca per radicalità e acutezza la riflessione
della filosofa femminista di origine indiana-bengalese Gayatri Chakravorty
Spivak. Pensatrice dalle molteplici "provenienze" - dai Subalterni
Studies e dalla costellazione del marxismo postcoloniale, alla filosofia di
Derrida -, Spivak vive tra gli Stati Uniti, dove insegna alla Columbia
University, e l'India, dove da molti anni si dedica alla formazione di maestri
nelle comunità aborigene del Bengala occidentale. Si è affermata nel dibattito
internazionale con un celebre scritto, significativamente intitolato "Can
the Subaltern Speak?", ripreso e rielaborato all'interno del ponderoso
volume intitolato "Critica della ragione postcoloniale".
Per
caratterizzare il senso generale del suo libro, attualmente considerato una
delle pietre miliari del pensiero postcoloniale, Spivak dichiara nella
prefazione di aver voluto intraprendere una critica - in un'accezione del
termine che si richiama a Kant, in prima istanza, ma anche a Hegel e
soprattutto a Marx -, nel senso di un esame delle "strutture della
produzione della ragione postcoloniale".
In tale
direzione, il testo si propone come ricognizione, a carattere decostruttivo,
delle "tracce", di quel particolare "soggetto" che Spivak
definisce "Informante Nativo" nelle "pratiche" responsabili
della sua produzione. Ma chi è, innanzitutto, l'Informante Nativo? Il termine
risale all'antropologia culturale, una scienza che, nel suo sorgere, accompagna
il colonialismo e contribuisce in modo essenziale a costruire, confermare e
rafforzare lo sguardo coloniale. In senso generale, l'Informante Nativo va
inteso come quella figura eletta a rappresentazione della "cultura"
di un determinato popolo e/o "etnia". Tale "cultura", per
lo più pensata come un sistema unitario e totalizzante, viene contrapposta alla
razionalità europea e/o occidentale intesa come misura di ciò che si può
definire "umano" e che viene chiamata all'occorrenza in causa per
promuovere una "necessaria" opera di modernizzazione e di
"umanizzazione". Al di là dell'uso specifico del termine
nell'antropologia, che nel corso della sua storia l'ha ampiamente sottoposto a
critica e revisione, la figura dell'Informante Nativo può venire eletta come
emblematica del modo in cui la modernità europea e occidentale prima, durante e
dopo il colonialismo costruisce la propria autorappresentazione e
autocelebrazione mediante e grazie alla produzione di Altri/e che vengono in
diversi modi a occupare lo spazio di un "fuori" costitutivo del
"dentro".
L'esame
condotto da Spivak dei vari testi della tradizione filosofica e letteraria
europea e occidentale, ma anche di episodi della storia coloniale e
postcoloniale indiana, mette in luce come nella produzione del Discorso
coloniale, e in forme diverse nel Discorso postcoloniale, che ne costituisce
una sorta di Aufhebung hegeliana (che supera ma conserva), l'Informante Nativo
si riveli nel contempo necessario e forcluso. Ciò significa che viene prodotto,
come l'Altro dall'Europa, dalla ragione, dalla civiltà, secondo un codice che
lo rende decifrabile, e nel contempo espulso e silenziato, perché la sua voce,
e la sua specifica agentività (agency), vengono ignorate e/o significate
unicamente all'interno del Discorso che lo nomina. Ciò che emergerà nel corso
delle analisi, in cui l'adozione di un punto di vista femminista è esplicitata
come fondamentale, è che "il modello dell'Informante Nativo attualmente
forcluso sia la più povera donna del Sud". È su di lei che si esercita, in
modo emblematico e in maniere diverse, dissimulate anche sotto forma di
strategie di empowerment e di sviluppo (come le agenzie Onu su "genere e
sviluppo"), quella violenza epistemica che marchia come "insensate”
tutte le forme di resistenza che non rientrano negli schemi di senso, o
economici, previsti, negando ogni agentività (capacità di agire) a quei
soggetti, le donne più povere del Sud, che possono semmai essere vittimizzate
per giustificare bellicose "missioni di pace” e interventi di civilizzazione.
Le subalterne possono parlare? La risposta è evidentemente negativa.
E tale
consapevolezza dovrebbe costituire un elemento di critica e autocritica anche
per tutti quelli e quelle che si dichiarano in qualche modo i portavoce dei
subalterni, come gli/le intellettuali migranti dai paesi ex coloniali impegnati
negli studi di genere, postcoloniali, culturali, che nell'inevitabile
assunzione della posizione dell'Informante Nativo non riescono sempre a evitare
una complicità con la logica del dominio imperialista e dell'ingiustizia
redistributiva nell'età del capitalismo globale transnazionale. In tal senso,
Spivak osserva: "Il multiculturalismo liberal, senza una consapevolezza
socialista globale, non fa altro che espandere la base statunitense, corporativa
o comunitaria”.
Nella
prefazione all'opera, Spivak chiarisce come tale consapevolezza critica delle
ambivalenze della posizione dei Cultural Studies e della critica postcoloniale,
anche femminista, muove dall'esigenza di "gettare uno sguardo
all'indietro, per vedere come altri ci vedrebbero. Non tuttavia nell'intento di
un'interruzione del lavoro, ma affinché esso risulti meno fazioso".
Il soggetto
che emerge dalla decostruzione di Spivak, soggetto femminista, postcoloniale,
marxista, - secondo le principali autorappresentazioni dell'identità della
stessa Spivak -, è un soggetto che nel suo agire, nell'esercizio della sua
libertà, si lascia disfare dall'irruzione dell'imprevisto, rispondendo
all'ingiunzione di un'alterità che è letteralmente differente (in quanto lo
destabilizza, lo destituisce e lo ricostituisce). Parafrasando Emmanuel
Lévinas, Spivak sottolinea come solo così l'etico, inteso come ineffabile
potenza di un agire "fuori dai cardini", possa interrompere
l'epistemologico, quell'imperialismo dell'Uno all'opera, forse inevitabilmente,
in ogni desiderio di soggettivazione.
da Quaderni di Kaleidos, nr.6/2014,
redazionale
IMMAGINI in DISSOLVENZA - Lettura “interessata” di Can The Subaltern Speak? di Gayatri Chakravorty Spivak
di Pamela De
Lucia
in DEP - Deportate, esuli, profughe, rivista
telematica di studi sulla memoria femminile, nr.21/2013 - afferisce al
Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Universita’ di
Venezia.
1^parte vedi 23 ottobre 2021 post SSI -
https://www.facebook.com/Subaltern-studies-Italia-102006355428935
VIOLENZA EPISTEMICA, concetto da DECOSTRUZIONE
La forclusione dell’informante nativo è il filo rosso che percorre tutta la Critica della ragione postcoloniale. Innanzitutto, l’informante nativo è una figura centrale del discorso antropologico novecentesco: è il “nativo”, inteso come “non-nativo-europeo”, che opera una mediazione tra l’antropologo ed il gruppo studiato. È colui che opera concretamente, essendo stato addestrato a farlo, la “traduzione” dell’alterità nell’unica lingua che la Ragione intende, rendendole possibile un accesso all’Altro che rafforza il Soggetto occidentale operando, però, una “forclusione”. Il termine “forclusione”, così come è usato da Spivak, è liberamente tratto dall’impianto concettuale di Lacan: a differenza della rimozione, che prevede il ritorno del rimosso, la forclusione cancella definitivamente un avvenimento che non rientrerà più nella memoria psichica. Secondo Lacan ciò che è stato forcluso dal simbolico riappare poi, in forma allucinatoria, nel reale. In Spivak la forclusione passa dalla speculazione psicanalitica alla responsabilità etica, per cui l’espulsione o il rigetto dell’Informante Nativo dal nome dell’Uomo “è servito e serve da energica ed efficace difesa della missione civilizzatrice”. O, ancora: “Penso all’informante nativo come nome per quel marchio di espulsione dal nome di Uomo – un marchio che elide l’impossibilità della relazione etica” (in Critica della ragione postcoloniale, p. 31). La forclusione è lo strumento della violenza epistemica dell’imperialismo, che non opera attraverso un gesto puramente negativo di esclusione, bensì produce un soggetto coloniale che, secondo l’efficace definizione di Spivak, “si autoimmola per la glorificazione della missione sociale del colonizzatore”
(in Critica della ragione postcoloniale, p.
143).
+ Gayatri
Chakravory Spivak, Critica della ragione
postcoloniale, Verso una storia del presente in dissolvenza, trad. it. di
Patrizia Calefato, Meltemi, 2004.
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