Can the subaltern Speak? della Gayatri C. Spivak letto da Miguel Mellino
Diversamente
da Bhabha, Spivak cerca di gettare le basi di una critica postcoloniale, del
progetto di una contro-storia anticoloniale, non tanto inseguendo una
qualche traccia positiva del
Subalterno nei diversi archivi coloniali, bensì dichiarando sin dall’inizio
proprio l’impossibilità di portare a compimento una strategia di questo genere.
Dal suo punto punto di vista, gli archivi storici e culturali occidentali non
possono affatto contenere alcuna traccia della voce autentica (della resistenza,
della parola, dell’agency) del
vero subalterno-coloniale: dato che ciò che abbiamo al loro interno sono
soltanto delle rappresentazioni di
tale alterità. Occorre partire da questo presupposto per comprendere una delle
sue affermazioni più note “ il subalterno non può parlare” (Spivak 1988,p.310).
In effetti, nel suo Can the
Subaltern Speak? (1988) Spivak ci propone una
lettura femminista della
storia coloniale in cui la reale figura della subalternità- un concetto ripreso in
modo piuttosto originale dalle teorie di Gramsci- è costituita dalla “ donna
del terzo mondo”. Prendendo spunto dalle vicissitudini coloniali tra le
autorità britanniche e i nativi indiani sul fenomeno del rito della sati, Spivak suggerisce di
pensare the third-world woman alla
stregua di un significante, di un effetto discorsivo vuoto e fluttuante, nel
senso che lungo la storia tutti (patriarcato locale, imperialismo, femminismo
occidentale), tranne se stessa, hanno potuto parlare per lei. Attraverso tali
espressioni, ciò che Spivak tenta di dirci è che la donna non-occidentale,
subalterno tra i subalterni, è stata scritta e ri-scritta tanto dalle società
patriarcali locali quanto dall’imperialismo e anche dal femminismo occidentale
senza aver mai raggiunto lo status di una piena soggettività autonoma.
Dobbiamo precisare però che
le sue conclusioni si fondano sull’analisi storica di un caso
particolare:quello della Rani (regina) di Sirmur (regione della parte
meridionale dell’ Himalaya). Si tratta della vicenda della moglie di un Rajah
locale deposto dai britannici nei primi decenni del XIX secolo a causa dei suoi
apparenti costumi “ barbari e dissoluti” che decide di disubbidire alle
disposizioni delle autorità imperiali comunicando loro la sua volontà di farsi
bruciare viva sulla pira alla morte del marito. Scandalizzati dalle intenzioni
della regina di voler sottomettersi a un costume così “primitivo” e
“selvaggio”, i funzionari tentano di dissuaderla dal suicidio. Il desiderio
della Rani di diventare una sati- la pratica venne dichiarata illegale
dall’Impero britannico nel 1829 con il beneplacito della borghesia indiana
illuminata- non si è mai avverato, ma agli occhi di Spivak il suo caso appare
sintomatico sia della condizione o dell’agency dei subalterni, sia della
loro “assenza” all’interno dei registri storici o degli archivi ufficiali. Le
tracce puramente fugaci e del tutto frammentarie lasciate dalla Rani (non si sa
nemmeno il suo nome) nei documenti coloniali ci ricordano in modo eloquente che
la soggettività dei veri subalterni non ha trovato posto (e certamente non ne
può trovare) all’interno degli apparati discorsivi dominanti,che non fanno che
riprodurre una visione del mondo del tutto estranea alle forme della loro
“coscienza”. Così, Spivak ci chiede di pensare, alla stregua di questa sati
mancata- contesa tra il patriarcato locale, l’imperialismo e il femminismo
occidentale- a tutte “ le più povere donne del Sud”: chiunque nella storia ha
potuto (e può tutt’ora) parlare per loro tranne loro stesse.
É questo il motivo per cui la soggettività di queste donne non potrà mai venire
fuori dai documenti storici. In sintesi, per Spivak, non è che i subalterni non
abbiano parlato o non abbiano espresso forme di resistenza al dominio colonialista
o al patriarcato locale, bensì i regimi discorsivi dominanti,per via di
apparati concettuali unilateralmente selettivi,non sono riusciti ad ascoltare o a registrare la loro “voce”. Il
silenzio delle donne subalterne nei documenti coloniali o nelle “storie
ufficiali”,dunque, è soltanto la conseguenza di ciò che Spivak chiama un
“fallimento cognitivo irriducibile” +(Guha, Spivak 2002,p.106)+ di vuoto
originato dallo scontro o dall’incomunicabilità, per così dire, tra due
universi di senso piuttosto diversi: quello dominante e quello subalterno . Se
facciamo nostra questa ipotesi, sostiene l’autrice indiana, il primo compito di
cui l’intellettuale postcoloniale o l’emergere della loro voce più autentica
all’interno dei saperi occidentali moderni. Solo dopo una simile “frattura
epistemologica” saremo in grado di leggere le vere forme di resistenza dei ceti
subalterni,che per Spivak sembrano manifestarsi più attraverso pratiche e
atteggiamenti “negativi”, ovvero mediante il “rifiuto” esplicito e/o implicito
degli status e dei ruoli riservati loro dalla versione egemonica del mondo
necessariamente più attraverso le vie dell’ exit - della “sottrazione”,
“della defezione ”, dell’ “evasione” e dell’ “insurrezione spontanea” - che non
attraverso quelle della voice o “presa di parola”
chiaramente esplicita o discorsiva. È così che la soggettività subalterna
appare a Spivak come qualcosa di “irriducibilmente storico”, fluttuante,
instabile, assente, dislocato, locale, incoerente e molteplice. E quindi come
qualcosa di profondamente “intraducibile” e “irrecuperabile”.
+ Guha, Spivak, Modernità e (post) colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra, Ombre
Corte, 2002+
da PASQUINELLI, MELLINO , CULTURA - Introduzione
all’antropologia, Carocci, 2019
(1^ ed. 2017),
par.16.7, pp. 269/271
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