di Bruno Steri«L’obiettivo dei comunisti e di una sinistra di classe resuscitata dal coma in cui è precipitata deve essere, quale esito di un’opposizione “intelligente”, il disvelamento delle contraddizioni strutturali contenute nel combinato disposto Di Maio/Salvini & C e, con ciò, il fallimento del patto politico “post-ideologico”». Questo dicevamo una diecina di giorni fa; e questo va ribadito oggi, alla luce del progetto di manovra appena licenziato dal governo.
martedì 30 ottobre 2018
LA MANOVRA
Riceviamo dal compagno Bruno Steri e pubblichiamo come contributo alla discussione sulla fase politica che stiamo attraversando
di Bruno Steri«L’obiettivo dei comunisti e di una sinistra di classe resuscitata dal coma in cui è precipitata deve essere, quale esito di un’opposizione “intelligente”, il disvelamento delle contraddizioni strutturali contenute nel combinato disposto Di Maio/Salvini & C e, con ciò, il fallimento del patto politico “post-ideologico”». Questo dicevamo una diecina di giorni fa; e questo va ribadito oggi, alla luce del progetto di manovra appena licenziato dal governo.
di Bruno Steri«L’obiettivo dei comunisti e di una sinistra di classe resuscitata dal coma in cui è precipitata deve essere, quale esito di un’opposizione “intelligente”, il disvelamento delle contraddizioni strutturali contenute nel combinato disposto Di Maio/Salvini & C e, con ciò, il fallimento del patto politico “post-ideologico”». Questo dicevamo una diecina di giorni fa; e questo va ribadito oggi, alla luce del progetto di manovra appena licenziato dal governo.
Detto di passaggio, al suddetto obiettivo ha inteso corrispondere la manifestazione dello scorso 20 ottobre, cui il Pci ha aderito, essendo i contenuti della stessa concentrati nella parola d’ordine «nazionalizzazioni»: ciò al fine di evidenziare l’attrito fra le estemporanee dichiarazioni degli esponenti governativi e il più che probabile perdurare di un’assenza di fatti concreti; ma anche per riappropriarsi di un tema strategico che è nostro, che cioè comparirebbe in primo piano in una nostra proposta programmatica, accanto a una riforma fiscale fortemente orientata in senso progressivo (l’opposto della flat tax) e a una consistente imposta patrimoniale (la stessa che Matteo Salvini ha seccamente escluso) . La fase è difficile e tutt’altro che favorevole dal punto di vista dei rapporti di forza, ma ciò non autorizza a restare silenti in attesa degli eventi. Occorre ricostituire le forze, muovendo sin dall’inizio i passi giusti. E provando a dire le cose giuste.
Dare a Cesare quel che è di Cesare
Ma ricapitoliamo i termini della questione. Cominciando in primo luogo col riconoscere a Cesare quel che è di Cesare. Per quel che è dato capire dalla Nota di aggiornamento del Documento economia e finanza (Nadef), la manovra contiene impegni in direzione di un miglioramento sociale che il mondo del lavoro da tempo non vedeva: da quando, per un verso, è iniziata l’epopea berlusconiana e, per altro verso, la sinistra ha smesso di fare la sinistra (anche solo socialdemocratica), votandosi al rigore di Bruxelles e Berlino (questo e non altro ci dice l’approvazione del pareggio di bilancio in Costituzione) e piegando la testa davanti a orientamenti politici chiaramente antipopolari. Certo gli impegni vanno verificati all’atto della loro concretizzazione e, come vedremo, non è tutto oro quel che riluce nelle misure annunciate dall’esecutivo: siamo lontani cioè da una riscossa di classe. Tuttavia, la drammatica situazione in cui è precipitata una larga parte della popolazione del nostro Paese non consente atteggiamenti «aristocratici» e strumentalmente minimizzanti. Nella manovra c’è un «reddito di cittadinanza» (e per un disoccupato avere 780 euro è meglio che non avere niente); c’è il superamento della legge Fornero con l’instaurazione della cosiddetta «quota 100» (e per un lavoratore andare in pensione a 62 anni dopo 38 anni di lavoro è meglio che andarci a 67 anni); c’è un ridimensionamento, almeno iniziale, della cosiddetta «flat tax», con aliquota piatta al 15% per piccole imprese e partite Iva fino a 65 mila euro (con sollievo di una fetta importante di piccola borghesia); c’è un abbattimento dell’Ires sugli utili d’impresa, ma non a pioggia e condizionato al loro reinvestimento; c’è qualche provvidenza per risarcire quanti sono stati vittime delle “crisi bancarie” (leggi: ruberie bancarie); ci sono i tagli alle “pensioni d’oro”; c’è la cosiddetta «norma Bramini», che abolisce il pignoramento della casa per chi ha contratto debiti con banche ma ha crediti non riscossi con lo Stato; c’è qualche (risicata) risorsa per progetti regionali che puntino ad una limitazione delle liste d’attesa nella sanità; c’è la proroga degli ammortizzatori sociali per il 2018 e 2019 per imprese con più di cento dipendenti. Tutto ciò è in linea con il rifiuto di abbassare per il 2018 il rapporto tra deficit e Pil al di sotto del 2,4% per andare incontro al diktat imposto dal fiscal compact, la normativa europea che prevede pareggi di bilancio o, in ogni caso, deficit contenuti in vista di un rientro a tappe forzate dal debito pubblico.
Dell’assai meno esaltante capitolo del condono e del senso complessivamente deficitario della manovra dirò più avanti. Sin qui però dovrebbe risultare chiaro che una componente «sociale» nella manovra è presente; e, cosa importante, essa è particolarmente tenuta sotto osservazione dal mondo del lavoro e non solo. Lo ha chiaramente fatto intendere Pierpaolo Leonardi, segretario generale della Usb, nel corso della riunione che ha preparato la succitata manifestazione, auspicando di rendere preminenti contenuti capaci di metter pressione sul governo senza tuttavia disconoscere le pur delimitate migliorie sociali. Lo ha altresì fatto capire in una recente intervista a «La Repubblica» (del 19 ottobre scorso) la stessa Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil, lasciando trapelare cautela dietro l’ufficialità dell’opposizione al governo. Segno evidente che le organizzazioni sindacali non possono non tener conto della percezione diffusa di una discontinuità, nonché di elementari esigenze materiali e determinati umori dei lavoratori (non sarà un caso se i primi sondaggi dicono che il 60% degli italiani approva la manovra). Se si considera che il precedente governo si era accomodato a prevedere, in sintonia con le richieste dell’Unione europea, un rapporto deficit/Pil dello 0,9% per il 2019, il pareggio di bilancio per il 2020 e un avanzo dello 0,2% per il 2021, si può apprezzare il ben visibile cambio di marcia. Tutto ciò sembra dunque giustificare il giudizio sulla manovra dato a suo tempo e con beneficio d’inventario da Stefano Fassina («Una manovra coraggiosa, quella che avrebbe dovuto fare il Pd»); e, viceversa, spiega l’irritazione subito manifestata dal centro-destra di Berlusconi e Meloni, i quali hanno invitato la Lega a sciogliere un sodalizio di governo che a loro dire avrebbe imboccato una strada «statalista», tradendo il mandato elettorale ispirato al taglio delle tasse e al sostegno alla libertà d’impresa. Nella serrata dialettica interna al patto di governo, questo delicato passaggio di politica economica ha dunque inizialmente fatto registrare una certa ripresa dell’impostazione più vicina al M5S: ripresa che l’economista Riccardo Puglisi (lavoce.info) si è incaricato di tradurre in euro, evidenziando i dati di «una manovra molto più gialla che verde». Nella distribuzione delle risorse messe a disposizione dallo sforamento del 2,4%, 6,75 miliardi di euro finanzierebbero il reddito di cittadinanza voluto da Di Maio; 600 milioni andrebbero a supporto della Flat tax sponsorizzata dalla Lega di Salvini; 6,76 miliardi sarebbero destinati a coprire la spesa (iniziale) prevista per il superamento della legge Fornero, auspicato da entrambe le parti. Risultato di questa partita intra-governativa: 10,12 miliardi complessivi a Di Maio; 3,975 a Salvini.
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