Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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lunedì 9 settembre 2024

IL PENSIERO DECOLONIALE E LA CATEGORIA DI "COLONIALISMO INTERNO"

 

La categoria del “colonialismo interno” [già presente per alcuni aspetti in Gramsci e in alcuni più accorti ‘meridionalisti' di ascendenza marxista (Cinanni, Misefari, Zitara)] serve, a nostro avviso, a reinquadrare la tradizionale “questione meridionale” italiana, nell’ambito del pensiero decoloniale e la rimodulazione non latitudinaria del Sud e dei Sud del mondo, restituendo così le cause sociali, politiche, economiche e culturali inerenti i processi di sistema oggi specifici dell’ineguaglianza strutturale del capitalismo e dell’imperialismo colonialista. Studiamone dunque lo spessore ermeneutico / fe.d.


Salvo Torre, Il pensiero decoloniale, UTET, 2024

Scheda del libro

- A partire dalla metà del XX secolo, con una forza crescente, sono state espresse critiche e proposte politiche che invitano a ripensare in modo radicale la storia degli ultimi secoli e le gerarchie su cui si sono fondati i sistemi di dominio. È un insieme di teorie che ha fatto irruzione nel campo delle scienze sociali e della teoria politica, rivendicando modi di interpretare il mondo, ha animato movimenti politici e sociali, ha mostrato come la violenza brutale dell'esperienza coloniale sia stata fondamentale per la costruzione della modernità capitalista. Con il termine pensiero decoloniale si può indicare ormai questo insieme di idee e teorie che sono nate in aree differenti e che stanno contribuendo a ridefinire anche la grande crisi planetaria degli ultimi decenni. È un pensiero che tende costantemente a ridefinirsi, cerca spazi innovativi e si reinterpreta continuamente, per questo è più facile definirlo come un processo, non come un campo classico di studi o una corrente di ricerca. Il pensiero decoloniale ci propone di immaginarci oltre i nostri limiti storici, di collocarci in un tempo e in uno spazio sociale differenti da quelli attuali, di costruire un mondo liberato dalle forme di oppressione.

-Salvo Torre è ricercatore di Geografia presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Catania, docente di Geografia culturale, fa parte del comitato di redazione della rivista “La libellula”.

 

SUL COLONIALISMO INTERNO

 

Nel 2010 viene ripubblicato un testo del 1984, “Oprimidos pero no vencidos” (Rivera Cusicanqui,  2010a), che propone una ricostruzione della storia della conflittualità politica e sociale contadina nelle  comunità aymara e quechua del XX secolo. Il testo contiene diverse indicazioni metodologiche ed è  anche un’occasione per rilanciare la teoria sul colonialismo interno. L’autrice opera un interessante  parallelismo con il pensiero di Marc Bloch (1949), si concentra sull’idea della memoria corta (breve),  costruita nelle narrazioni di potere e assunta in toto dagli oppressi, la definisce un elemento che nella  società boliviana accomuna campesiños e operai, i ceti lavoratori. Nella sua specificità, soprattutto nel  sottolineare come i campesiños non siano tutti appartenenti alle comunità indigene e non abbiano  necessariamente le stesse richieste o esigenze, in realtà si riconnette molto alla struttura della critica  marxista. Silvia Rivera Cusicanqui sembra intravedere nello scontro tra la memoria breve e la memoria  lunga (la memoria larga), una parte consistente di tale processo. In questo quadro la costruzione della  memoria nazionalista è contrapposta e conflittuale rispetto a quella indigena. La nuova nazione, nata  dall’indipendenza, deve inglobare le minoranze e collocarle in spazi contenuti e per realizzare ciò ha  bisogno anche di una narrazione identitaria forte e di distruggere le altre memorie.  Una parte del ragionamento proviene indubbiamente anche dagli studi di Maurice Halbwachs  (1925), sulla costruzione della memoria condivisa. Lo spostamento dell’attenzione sulla costruzione del  discorso ci sembra in effetti un punto di incontro forte anche con i dispositivi foucaultiani, sul necessario  riconoscimento da parte dei colonizzati dell’ordine sociale generale (Restrepo, 2004). L’applicazione di  quel quadro di indagine al caso delle comunità andine, porta la sociologa a considerare la memoria  collettiva un campo specifico di lotta per la decolonizzazione di tutte le relazioni sociali: il recupero della  memoria genera consapevolezza dello sfruttamento di lungo periodo e sostiene la ricerca di un’identità  forte4.  Nello stesso anno viene pubblicata anche una riflessione sulle pratiche decolonizzatrici,  “Ch’ixinakax utxiwa”, testo che riveste una certa importanza per la comprensione del metodo proposto.  La rivendicazione iniziale, «Io sono Chixi», il modo con cui è scritto, cioè il confronto con la comunità  aymara e l’uso ricorrente del pronome collettivo, per indicare che il testo è una responsabilità condivisa,  rappresentano anche una specifica proposta di pratica decolonizzatrice (Rivera Cusicanqui, 2010b;  2012). Il testo contiene anche un intervento che sintetizza il conflitto diretto con la teoria della  decolonialidad e con i postcolonial studies. Si tratta di una posizione forte, indigenista e antioccidentale,  in cui autori come Quijano e Mignolo sono considerati esplicitamente espressione del sistema di potere  coloniale delle accademie statunitensi e in cui allo stesso modo gli esponenti dei postcolonial studies  vengono indicati come subordinati a quel sistema di potere. Silvia Rivera ritiene che la categoria di  colonialismo interno ispirata da Pablo González Casanova sia più utile a definire le modalità di  funzionamento del potere.

Sebbene il colonialismo interno come sistema di dominio somigli molto a  varie proposte del dibattito post-strutturalista sull’analisi del potere, in realtà González Casanova (1963;  1987) offre una lettura della società molto più dipendente dai processi economici e interna al marxismo  latinoamericano. Per González Casanova (1965) il colonialismo interno è strettamente legato alla nascita  dello Stato-nazione e alle modalità con cui la questione dello Stato coinvolge l’autodeterminazione dei  popoli, l’espressione della loro autonomia. Il dibattito a cui fa riferimento è essenzialmente quello della  storia politica europea, soprattutto della lettura storica dei conflitti sociali che hanno determinato la  composizione nazionale degli stati.

da Salvo Torre, Maura Benegiamo, Alice Dal Gobbo,“Il pensiero decoloniale: dalle radici del dibattito ad una  proposta di metodo”, in ACME: An International Journal for Critical Geographies, 19(2), 448–468. https://doi.org/10.14288/acme.v19i2.1946

Biblio.:

-Rivera Cusicanqui, Silvia. 2010c. Violencias (re)encubiertas en Bolivia. La Paz: La Mirada  Salvaje/Editorial PiedraRota.

-Rivera Cusicanqui, Silvia. 2010b. Ch’ixinakax utxiwa: una reflexión sobre prácticas y discursos  descolonizadores, Buenos Aires: Tinta Limón.

-Rivera Cusicanqui, Silvia. 2012. Ch’ixinakax utxiwa: A Reflection on the Practices and Discourses of  Decolonization, The South Atlantic Quarterly 111 (1), 95-109.

-Bloch, Marc. 1949. Apologie pour l'histoire ou métier d'historien. Paris: Armand Colin, Cahier des  Annales, 3.

-Halbwachs, Maurice. 1925. Les Cadres sociaux de la mémoire. Paris: Félix Alcan.

-Restrepo, Eduardo. 2004. Teorías contemporáneas de la etnicidad. Stuart Hall y Michel Foucault.  Santiago de Cali: Editorial Universidad del Cauca.

-González Casanova, Pablo. 1963. Sociedad plural, colonialismo interno y desarrollo en América Latina.  Revista del Centro Latinoamericano de Ciencias Sociales 3, 31-51.

-González Casanova, Pablo. 1965. La democracia en México. Ciudad de México: Era. 

González Casanova, Pablo. 1987. Sociología de la explotación. Ciudad de México: Siglo XXI. 

-González Casanova, Pablo. 2000. La formación de conceptos en los pueblos indios. In, Velasco,  Ambrosio (ed.). El concepto de heurística en las ciencias y las humanidades. Ciudad de México:  Siglo XXI.



Cfr. su questo blog:







mercoledì 4 settembre 2024

JAMES C. SCOTT: LA ‘CONDIZIONE UMANA’ È SENZA STATO

 

“vivere in assenza di strutture statali era la norma della condizione umana”



James Campbell Scott (Mount Holly, 2 dicembre 1936 – Durham, 19 luglio 2024)

LA TRASCRIZIONE  NASCOSTA

L’antropologo statunitense James Campbell Scott si è spento il 19 luglio scorso nella sua casa di Durham (Connecticut) a 87 anni.

Professore di antropologia a Yale, è stato autore di importanti ricerche sulla resistenza dei contadini del sud-est asiatico alle forme di dominio. Intellettuale libertario, può essere annoverato tra gli studiosi “subalternisti”, con numerosi libri tradotti in tutto il mondo:

Il dominio e l'arte della resistenza, I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale, Elèuthera, 2006 (3.a ed. 2021)

dove espone la teoria de “la trascrizione nascosta dei subalterni” *

Elogio dell'anarchismo, Elèuthera, 2014

Le origini della civiltà, Einaudi, 2018

Lo sguardo dello Stato, Elèuthera, 2019

L'arte di non essere governati, Einaudi, 2020

* “La trascrizione nascosta dei subalterni”

In Domination and the Arts of Resistance: Hidden Transcripts (1990) Scott sostiene che i gruppi subalterni utilizzano strategie di resistenza che passano inosservate. Le definisce "infrapolitiche". L’antropologo descrive le interazioni pubbliche tra dominatori e oppressi come una "trascrizione pubblica" e la critica del potere che avviene fuori scena come una "trascrizione nascosta". I gruppi sotto dominazione - schiavistica e violenta - non possono essere compresi solo dalle loro apparenze. Per studiare i sistemi di dominio, occorre prestare molta attenzione a ciò che si nasconde sotto la superficie del comportamento evidente e pubblico. In pubblico, gli oppressi accettano il loro dominio, ma lo mettono sempre in discussione fuori scena. Nel caso di una pubblicizzazione di questa "trascrizione nascosta", le classi dominate e/o gruppi subalterni assumono apertamente il loro discorso e diventano consapevoli del loro destino comune.

I verbali segreti» stanno dietro i comportamenti codificati tra dominanti e dominati. Al di là delle apparenze, queste relazioni sono conflittuali e intrise d'inganno: da una parte i subordinati simulano la propria deferenza al potere e dall'altra i detentori del potere «recitano» la propria supremazia. Utilizzando innumerevoli esempi tratti, nel tempo e nello spazio, dalla letteratura, dalla storia e dall'etnologia, Scott propone un'inedita analisi sia dei ruoli interpretati sulla scena pubblica da potenti e subalterni, sia del loro «discorso» dietro le quinte, reciprocamente irridente e astioso. Uno studio sull'infrapolitica dei «senza potere», ovvero sulle strategie di insubordinazione messe in atto al di fuori dell'ambito politico, che rimane una pietra miliare per la comprensione della subordinazione, della resistenza, dell'egemonia, della cultura popolare e della rivolta.

L’IMPORTANTE OPERA DI JAMES C. SCOTT: I “SENZA STATO” DEGLI ALTIPIANI

L’antropologo recentemente scomparso è autore di un altro libro importante, “L’arte di non essere governati - Una storia anarchica degli altopiani del Sud-est asiatico”, Einaudi, 2020, ora anche in formato digitale, da cui citiamo.

- scheda-

Per duemila anni, fino a metà del secolo scorso, le comunità di una vasta regione montuosa del Sud-est asiatico hanno tenacemente resistito all'idea di integrarsi in una qualche forma di dominio da parte dello Stato. 'Zomia' è il nome di quest'area d'insubordinazione che non appare su alcuna carta (una zona montagnosa grande come l'Europa, che attraversa cinque nazioni del Sud-est asiatico e quattro province della Cina), ed è il vasto altopiano dove trovarono rifugio circa cento milioni di persone unite dalla volontà di sfuggire al controllo dei governi delle pianure. Trattati come «barbari», questi popoli nomadi misero in atto strategie di resistenza a volte sorprendenti per evitare lo Stato, sinonimo di lavoro forzato, tasse, epidemie e leva militare obbligatoria. Favorirono pratiche agricole che incentivavano la mobilità residenziale, insieme a forme sociali egualitarie, fondate sull'eclettismo religioso e l'accoglienza. Alcuni popoli decisero persino di abbandonare la scrittura per evitare l'appropriazione della loro memoria e della loro identità, mentre l'oralità consentiva di riformulare continuamente la negoziazione degli accordi tra gruppi. 'Zomia' ci rammenta che «civiltà» può essere sinonimo di oppressione e che il significato della storia non è così univoco come pensiamo.



Cit.:

“Zomia è un nuovo nome che designa i territori posti a un’altitudine superiore a circa trecento metri che si estendono dagli Altopiani centrali del Vietnam fino all’India nord-orientale, attraverso cinque nazioni del Sud-est asiatico (Vietnam, Cambogia, Laos, Thailandia e Birmania) e quattro province della Cina (Yunnan, Guizhou, Guangxi e parte del Sichuan). Questi territori si estendono per 2,5 milioni di chilometri quadrati e sono abitati all’incirca da cento milioni di persone, appartenenti a minoranze, con un’incredibile varietà di etnie e linguaggi.”

“ La vasta letteratura sulla creazione dello stato, nella storia e nella contemporaneità, non presta quasi attenzione al fenomeno opposto, vale a dire all’essere, in modo deliberato e attivo, senza stato. Questo libro è la storia di quelli che se ne sono andati: senza tenerne conto non si può comprendere la storia della creazione dello stato. Questo è anche ciò che rende questa storia una storia anarchica. Il mio resoconto implicitamente riunisce le storie di tutti i popoli espulsi a causa della formazione coercitiva dello stato e dei sistemi di lavoro forzato: gli zingari, i cosacchi, le tribú poliglotte formate dai rifugiati delle reducciones spagnole nel Nuovo Mondo e nelle Filippine, le comunità di schiavi fuggitivi, gli arabi delle paludi, i boscimani e cosí via.“

Nel suo elogio dell’anarchia l’etnologo Scott cerca fondamenti antropologici all’anarchismo politico, trovando nelle popolazioni degli altopiani del Sud Est asiatico la caratterizzazione storica e culturale di questa fondazione. “Zomia” è un nuovo nome che designa i territori posti a un’altitudine superiore a circa trecento metri che si estendono dagli Altopiani centrali del Vietnam fino all’India nord-orientale, attraverso cinque nazioni del Sud-est asiatico (Vietnam, Cambogia, Laos, Thailandia e Birmania) e quattro province della Cina (Yunnan, Guizhou, Guangxi e parte del Sichuan). Questi territori si estendono per 2,5 milioni di chilometri quadrati e sono abitati all’incirca da cento milioni di persone, appartenenti a minoranze, con un’incredibile varietà di etnie e linguaggi.

“Tutti si consideravano portatori di ordine, progresso, conoscenza e civiltà. Tutti volevano portare in zone non ancora governate i vantaggi della disciplina amministrativa, associata allo stato o a una religione organizzata.”

“Lo scontro tra stati espansionisti e popoli autogovernati non è avvenuto solo nel Sud-est asiatico: si ritrova nel processo culturale e amministrativo del «colonialismo interno» che caratterizza la formazione di gran parte degli stati-nazione occidentali moderni;”

“Solo lo stato moderno, sia nella forma coloniale sia di stato indipendente, ha avuto le risorse per attuare il progetto di dominio che il suo antenato precoloniale poteva solo desiderare: costringere all’obbedienza spazi e popoli non statali.”

James C.Scott, in The Art of Not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia, Yale University Press, 2009, ed. digitale in it. Einaudi, 2020

a cura di Ferdinando Dubla. Subaltern studies Italia

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