Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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lunedì 14 ottobre 2024

Can Spivak speak?

 


CAN THE SUBALTERN SPEAK?



Gayatri Chakravorty Spivak, migrante metropolitana femminista, come ella stessa si definisce nella Critica della ragione postcoloniale “è un’intellettuale organica al pianeta” , commista di partiture teoretiche tra cui Kant, Hegel, il marxismo, la decostruzione, la grammatologia di Derrida, la psicoanalisi freudiana e il femminismo. Per comprendere il mondo, non si può che partire dal punto in cui ci si trova, dalla confusione e dall’ossessione che ci assale, smascherando, così, quella che, con un uso molto libero della terminologia di Lacan, chiama la “forclusione dell’informante nativo”, quel paradosso di parlare dell’altro, al solo fine di rafforzare il proprio io, soggetto dominante. Il termine “subalterno” è attinto dai Quaderni di Antonio Gramsci, secondo cui le classi subalterne possono avere coscienza di se stesse superando la loro disgregazione e articolando la loro azione politica nel progetto di un’egemonia costruita dalle élite politiche e culturali. Un gruppo di storici indiani nato nei primi anni 80 sotto la guida di Ranajit Guha e di cui la stessa Spivak è tra i maggiori, riadattano il termine gramsciano, decontestualizzando e trasformandolo in una ricerca storica alternativa: HISTORY FROM BELOW.

- Tuttavia, Spivak si distanzia dall’uso della categoria che ne fa Guha applicato al contadino indiano poiché l’identità del soggetto subalterno viene definita sempre come una somma di sottrazioni, delineando la storia di un fallimento. Da una parte, infatti la conclusione formale del dominio coloniale, presa in se stessa, significa ben poco dal punto di vista del perdurante governo della conoscenza coloniale, mentre dall’altra, le condizioni materiali e simboliche della subalternità, si sono riprodotte nel presente postcoloniale. E Can the Subaltern Speak? diventa il manifesto di una rottura, di una denuncia, di una rivendicazione. La sua domanda sul “parlare” dei subalterni rompe l’impostazione del Gruppo: Spivak reclama una capacità di agire, un’egemonia non convenzionale, non tanto sinonimo di potere, ma di un progetto che possa e sappia andare oltre il simbolico prestabilito. Denuncia la prospettiva di Guha e degli intellettuali occidentali, che raccontano la donna partendo sempre da storie di Altri. Al Collettivo imputa un positivismo fossilizzato sugli archivi, agli intellettuali occidentali la benevolenza redentrice. Difatti Spivak mostra come l’interessamento degli intellettuali occidentali nei confronti del soggetto coloniale finisca sempre per essere benevolente. Il loro atteggiamento mentale e il loro punto di vista, alla fine coincide con la narrazione imperialista perché quel che promette al nativo è la redenzione.

 

DAL SUBALTERNISMO AL DECOSTRUZIONISMO, DAI SUBALTERN STUDIES ALLA CRITICA POSTCOLONIALE: LA PARABOLA DELLA GAYATRI C. SPIVAK

La “rottura” della Spivak è nel passaggio dal “soggetto che irrompe nella storia” al “soggetto che decostruisce”. È il suo passaggio da Guha a Derrida. Un nodo teorico importante per gli studi subalterni. / fe.d.

- La prosa di Spivak non è solo una decostruzione che sfida, svela ed infrange i limiti del linguaggio. Sin dal primo  saggio che, nel 1988, dedica al tema della decostruzione, “Subaltern Studies: decostruire la storiografia“ [1988- Subaltern Studies: Decostructing Historiography, Routledge], * individua nel riconoscimento del “fallimento” di Guha, nell’ “alienazione” irriducibile del soggetto, il necessario punto di partenza. È da qui che deve (ri)iniziare il discorso dei Subaltern Studies, da una pratica di decostruzione che sia in grado di mettere in discussione l’autorità del soggetto della ricerca senza paralizzarlo, trasformando continuamente le condizioni di impossibilità in possibilità”. Una necessità rivendicata con forza maggiore nel breve saggio “La messa all’opera della decostruzione“ inserito come Appendice alla “Critica della ragione postcoloniale“ [1999 - A Critique of Postcolonial Reason. Toward a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts]. *1

Qui Spivak “interpreta la decostruzione specificatamente nel lavoro di Derrida” dando indicazioni sulla sua applicazione nel contesto della critica postcoloniale. Seguendo le tappe del suo pensiero, Spivak nota un punto di svolta: “Si trattava di una svolta rispetto al “tenere di guardia la domanda” – l’insistere sulla priorità di un interrogativo a cui non si può rispondere, la questione della différance – verso una ‘chiamata al completamente altro’ – ciò che deve essere differito – deferito affinché possiamo, per così dire, postulare noi stessi”.  Spivak traduce ciò nell’ “applicazione” diretta ai testi prodotti dalla cultura, in cui si fa esperienza dell’impossibile, che non può essere concettualizzato, perché “l’incontro con il completamente altro, ha un’imprevedibile relazione con le nostre regole etiche” . La singolarità è un’esperienza che non può essere generalizzata, pena la caduta in forme di dominio che deformano, obliterandole, le differenze esistenti. La “messa all’opera” della decostruzione, suggerisce Spivak, “potrebbe essere di un certo interesse per molti osistemi culturali marginalizzati”. Ma perché ciò avvenga, il soggetto che decostruisce, deve dichiarare sia il proprio interesse per l’ “opera”, il proprio punto di partenza, sia la complicità tra chi opera la decostruzione e il testo oggetto d’analisi: “Le decostruzioni – scrive Spivak – nella misura in cui sia possibile intraprenderle, sono sempre asimmetriche per via dell’‘interesse’ di chi le opera”. Unica possibilità per evitare nuove forme di colonialismo culturale attraverso l’ingannevole, per quanto rassicurante, perpetuarsi del principio di identità che non riconosce ciò che è diverso.

* in it. nel volume curato da Sandro Mezzadra “Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo”, Ombre Corte, 2002

*1. in it. “Critica della ragione postcoloniale”, Meltemi, 2004




LA RAPPRESENTAZIONE

Quella di Spivak è una decostruzione doppia e in contro luce: la decostruzione dell’opposizione tra il collettivo e il subalterno, e la decostruzione dell’“apparente continuità esistente tra gli studiosi in questione e i loro modelli anti-umanistici” . Poiché, scrive, una lettura contro luce deve sempre essere strategica, essa non deve mai avere la pretesa di stabilire la verità autoritativa di un testo, deve sempre restare dipendente dalle esigenze pratiche e non deve essere mai legittimata a formulare un’ortodossia teoretica. Nel caso del gruppo dei Subaltern Studies, ciò dovrebbe sottrarlo alla pericolosa pretesa di stabilire la vera conoscenza del subalterno e della sua coscienza. Quella del Collettivo sembrerebbe un progetto positivista in quanto alla ricerca di un qualcosa da cui poi partire per costruire una struttura di sapere/potere. Ma qui, avverte Spivak, è al lavoro una forza che potrebbe “contraddire tale metafisica” , in quanto l’accesso alla coscienza subalterna è possibile solo indirettamente, per mezzo del metodo “indiziale” di Guha, attraverso gli archivi della “contro-insurrezione”. Indizi, che probabilmente non consentiranno mai di recuperare la coscienza dei Subalterni. Qui è in gioco quello che Spivak, con terminologia post-strutturalista, definisce effetto-soggetto subalterno. Un effetto – soggetto = ciò che sembra agire come un soggetto può essere parte di un’immensa rete discontinua di fili a cui si possono attribuire i nomi di politica, ideologia, economia, storia, sessualità, linguaggio e così via. I diversi intrecci e le diverse configurazioni di questi fili, determinati da fattori eterogenei che sono essi stessi dipendenti da una miriade di circostanze, danno vita al soggetto agente. Il recupero, quindi, di una posizione positiva del soggetto in Spivak diviene “strategia adeguata ai nostri tempi”, capace di influenzare e di modellare la storiografia ufficiale, mantenendo comunque la costante consapevolezza del rischio di un’oggettivazione del subalterno, che finirebbe per rinchiuderlo nel “gioco del sapere come potere” o di soffocarlo nella catacresi di figure e segni destinati a mancare sempre il referente che evocano. Il problema, dunque, è la rappresentazione, anzi, le rappresentazioni, dell’Altro/a.

- Spivak accusa il pensiero occidentale di riprodurre, nel momento stesso in cui si autocritica, quella forclusione dell’Altro (o dell’informante nativo) operata dall’episteme imperialista.

APPUNTI SCOLASTICI SULLA SPIVAK

https://www.studocu.com/it/document/universita-di-bologna/analisi-dei-processi-decisionali-e-sistema-politico/approfondimento-spivak/39517035?origin=home-recent-3

Corso: Analisi dei processi decisionali e sistema politico

Università di Bologna

 

Femminismo e subalternismo, comunismo e decostruzionismo, Gramsci e Derrida, altermondialismo/terzo_quartomondismo, critica alla ‘violenza epistemica’ dell’imperialismo culturale occidentalista, la rivoluzione disciplinare delle scienze umane. Breve biblio della Gayatri C.Spivak.



di e su Spivak in questo blog:









giovedì 10 ottobre 2024

GRAMSCI, LA ”SINISTRA WOKE” E LA CATACRESI

 


La catacresi, l’estensione del significato di un termine oltre i limiti della proprietà della cosa rappresentata dalla parola, è una figura retorica, un gioco linguistico. “Questa notte la luna mi parla”. Bella immagine poetica, ma catacretica, perché la luna non parla. La catacresi, in latino abusio, abuso del linguaggio appunto, nella dialettica significante/significato. La catacresi è il legame esistente tra ciò che si autodefinisce e viene nominata dai suoi avversari politici “sinistra”, il “politicamente corretto”, la woke culture e il capitalismo ‘woke’. Il principe non deve baciare Biancaneve: è abuso. E guai a metterlo in discussione. Al bando, fuori la legalità, l’inquisizione è woke. Il capitalismo ‘woke’, a nostro modo di vedere, impernia molta pubblicità, la forma di persuasione mercantile che si impone alle grandi masse. L’ Eni, che con i suoi pozzi distrugge le testimonianze della civiltà contadina in Basilicata e contribuisce all’inquinamento di Taranto, tanto per fare un esempio, ha nelle sue campagne la pulita energia del futuro, legandosi così al senso comune delle battaglie ambientaliste. O le banche, cuore dell’egemonia del capitale finanziario, il parassitismo mediatore dell’estorsione di plusvalore: amano l’arte, finanziano restauri, sponsorizzano opere. Vanno cioè incontro al ‘socialmente corretto’, che diventa il ‘politicamente corretto’. Si cui si fonda l’impalcatura di quella che viene mediaticamente appellata ‘sinistra’. Ma che sinistra non è se non per gioco linguistico. La catacresi, appunto. Temi presenti nelle modalità del suo tempo anche nelle analisi del filologo Gramsci: tra le sue categorie analitiche più importanti ci sono infatti quella di ‘senso comune’ e ‘conformismo’ di massa.

La catacresi. Della ‘sinistra’. Annega nella woke culture, del ‘politicamente corretto’ del conformismo borghese e della piccola borghesia declassata. Del senso comune di massa che indica il dominio, il potere e il suo segno di classe, come ci ha insegnato Gramsci. Non può esistere sinistra borghese, esiste una borghesia che si crede di ‘sinistra’. Perorando cause di diritti già universali per renderli ‘legalmente riconosciuti’, ma senza lotta di classe. Diritti e tutele sociali rischiano così di non incontrarsi mai. Il ‘vokismo’ è diventato uno strumento del capitalismo imperialista. Ecco perchè critichiamo la stessa  Sahra Wagenknecht, fondatrice e leader del partito BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht, cioè un partito personale!) e il suo libro “Contro la sinistra neo liberale”, Fazi, 2022. Bisognerebbe scrivere correttamente ‘sinistra neoliberista’. Che è un ossimoro. O sinistra, o neoliberisti. Non esiste una sinistra ‘alla moda’. È accettare che il termine "sinistra" ricalchi lo stereotipo coniato dall’egemonia capitalista del senso comune guidato dalla destra politica. Non è sinistra la palude centrista neoliberista. La sinistra, o è di classe o non è. La sinistra o è antagonista o non è. Comunisti, socialisti, anarchici, devono nuotare in questa sinistra. Formarla, soprattutto. / fe.d.

Due libri importanti per l'analisi della 'woke culture' e del 'capitalismo woke'

 

L’INQUISIZIONE NON È PIÙ “SANTA”

La categoria gramsciana di ‘senso comune’ incrocia il conformismo di massa per il tramite dell’influenza del potere politico e dei suoi strumenti di persuasione ed è compito proprio della coscienza di classe penetrare la coltre dell’apparenza nel rapporto lessico-significato. La cultura ‘Woke’ e il ‘politicamente corretto’ si situano oggi allo stesso livello di potenza dei mezzi della comunicazione diffusa, sui social, in rete. L’”anomia” di Durkheim diventa l’ombra di un ‘grande fratello’. Le percezioni individuali una non più santa ma comunque terribile inquisizione e l’azzeramento della discussione collettiva in nome di assiomatiche asserzioni giocate su un lessico che permea dal senso comune i suoi significati. Il totalitarismo del neoliberismo permea così i valori relativi come assoluti, nell’”ordine naturale delle cose”. Ma c’è anche un limite in questa analisi: la dialettica struttura-sovrastruttura viene ‘rovesciata’ (è il caso di utilizzare il termine hegeliano ma nella circolarità dialettica di segno marxiano) illudendosi di un ‘binario parallelo’ fra diritti individuali e tutele sociali. Non è così, perchè solo le più forti delle tutele sociali determinano i diritti individuali nella dimensione collettiva.

- Andrea Zhok, “La profana inquisizione e il regno dell'anomia. Sul senso storico del «politicamente corretto» e della cultura woke”, Il Cerchio, 2024



Andrea Zhok è filosofo e professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano.

Il tema del libro ruota intorno al politicamente corretto e alla profana inquisizione, che ha le stesse caratteristiche di quella santa, salvo l'assenza di ispirazioni teologico/confessionali: la profana inquisizione, infatti, si ispira all'istanza anomica. E qui si arriva all'altro tema principale dello scritto: il concetto di anomia. Coniato dal sociologo Emile Durkheim, il termine indica un disorientamento di ordine valoriale e etico, un'assenza di direzione che guida la società, visibile, già ai suoi tempi, soprattutto nelle città occidentali. "Oggi questa forma culturale ha raggiunto un carattere egemonico - ha scritto Zhok - E' diventata un'ideologia estremamente influente nella componente della popolazione che ha le leve della cultura e dei media e che, quindi, ha la possibilità di influenzare l'opinione pubblica".

Cioè, un’élite funzionale alle classi dirigenti e ai gruppi di potere che corrodono la democrazia sostanziale.

- Infine: la critica radicale al capitalismo può portare ad un’escatologia salvifica di un’apocalissi culturale? È questo il comunismo? Ma l’apocalissi non è solo culturale, è il rischio immanente conseguenziale del conformismo di mercato. E del mercato politico.

CAPITALISMO WOKE [1]



Carl Rhodes, “Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia”, Fazi, 2023 - [pp.314]

dalla prefazione di Carlo Galli - estratto

- woke è il progressista mainstream che ipocritamente ostenta virtù civili per essere alla moda e che conformisticamente si colloca nella parte “giusta” della società, per stigmatizzare gli “altri”.

- la società è un unico magma informe, in cui i poteri forti sono quelli delle corporations, non certo quelli politici. È questo lo scenario del neoliberismo maturo, naturalmente, in cui le grandi aziende, i loro AD, danno per scontato che lo Stato abbia fallito nel risolvere determinate questioni sociali e che tocchi all’economia gestirle o direttamente oppure sponsorizzando movimenti politici di massa come, ad esempio, Me Too, Black Lives Matter, o le cause ambientali. Non più quindi i vecchi investimenti culturali nei grandi musei e nelle grandi biblioteche fondate nel Novecento dai “baroni ladri” ritiratisi in pensione, ma nuovi investimenti sociali delle aziende, che vogliono surrogare la politica. L’economia non si limita a invadere l’intera società, ma si sostituisce direttamente allo Stato.

- Sono cause meritevoli sì, ma simboliche o morali, ed economicamente innocue: hanno a che fare con diritti civili, non con diritti sociali strutturali, legati ai rapporti di potere tra capitale e lavoro. Rispetto ai quali funzionano come un diversivo: in ogni caso, l’attivismo aziendale le fa diventare cool, le integra nel discorso mainstream. È questa, del resto, la direzione prevalente delle politiche orientate “a sinistra” in età neoliberista.

- il capitalismo compra tempo – è la sua strategia di fondo, come ha argomentato Stiglitz –: non cerca soluzioni, ma differisce fin che può l’esplosione dei problemi che esso stesso genera.

- Il capitalismo woke è un capitalismo intelligente e sofisticato che, a differenza di quello conservatore antiwoke, si preoccupa del medio termine: e non vuole lasciare spazio a nulla al di fuori di sé, ma vuole dimostrare che solo il capitalismo è il motore della produzione economica, della ricostruzione sociale, della strategia politica.

“l’etica può anche sfidare il sistema stesso su cui poggia il capitalismo.”

“il capitalismo woke dovrebbe essere contrastato e combattuto su basi democratiche, poiché esso fa sì che gli interessi politici pubblici vengano sempre più dominati dagli interessi privati del capitale globale. (..) Quando la nostra stessa moralità viene imbrigliata e sfruttata come risorsa aziendale, dietro c’è sempre all’opera l’interesse privato delle imprese.“

“Come ci ricorda la politologa Wendy Brown, il concetto di democrazia non va confuso con l’idea del moderno Stato liberale democratico. Brown sostiene che, nell’attuale congiuntura storica, «gli impegni dello Stato democratico per l’uguaglianza, la libertà, l’inclusione e il costituzionalismo sono ora subordinati al progetto di crescita economica, di posizionamento competitivo e di valorizzazione del capitale». “

Su Wendy Brown in questo blog cfr. PER UNA CRITICA DELLA TEORIA CRITICA - Wendy Brown ed Agnes Heller

“la vera democrazia si fonda sul credere prima di tutto nella sovranità popolare.”

“Il capitalismo woke è l’odierna derivazione di questo feudalesimo rinnovato, che cede alle imprese non soltanto l’autorità legale, ma anche quella morale e politica.”

Stralci da Carl Rhodes, “Capitalismo woke”, Fazi ed., cit. da ed. digitale

- Su Sahra Wagenknecht, il suo partito e il marxismo leninismo -

appiccicano etichette: rosso-bruni, conservatori di sinistra, nostalgici della DDR. In realtà il limite serio della formazione di sinistra uscita da una costola della Linke è un accentuato leaderismo personalistico. Nel nome innanzitutto: BSW significa Bündnis Sahra Wagenknecht. Ad ogni modo mandiamo via tutti gli stereotipi che ci impone la narrazione delle classi dominanti europee: il punto che a noi sembra dirimente è un altro. Alcuni altri: tra questi c’è la specularità tra diritti civili e tutele sociali. La sfida del socialismo come ideale politico del presente e dell’avvenire non può essere la riproposizione di un azzeramento dei diritti che provengono dal liberalismo, ma combattere il liberismo con il libertarismo, il libertarismo sociale, perchè esiste anche quello falso-borghese.






È questa la vera ‘next revolution‘ in occidente. Così come il fenomeno dell’immigrazione: va certo studiato, analizzato ma anche gestito con la fraternità dei popoli, faro degli ideali comunisti e libertari nello stesso tempo. Non contrapposizione tra diritti e tutele, accoglienza e sfruttamento del capitale, centralità delle classi lavorative e marginali. Ma ricomposizione. In un processo rivoluzionario. Perchè rivoluzionario? Perchè fondamentale è il movimento di massa, la mobilitazione popolare, non solo la rappresentanza istituzionale per il riformismo del Welfare. Nessuna civetteria poi con il ciarpame ideologico di destra, nessuna possibilità di confusione. Il marxismo leninismo (senza trattino) del XXI secolo è tutta nelle sfide della nostra irriducibilità al capitalismo, alle guerre imperialiste, al fascismo e ai loro dis/valori. / fe.d.

 

Su questo blog vedi anche:

SENSO COMUNE E CONSENSO

 

LA CONQUISTA DELLA COSCIENZA di CLASSE per ANTONIO GRAMSCI


 a cura di Ferdinando Dubla, pagina FB: https://www.facebook.com/profile.php?id=61555253424792



 



lunedì 7 ottobre 2024

SINOSSI DELLA LOTTA DELLE CLASSI - da Domenico Losurdo

 

a cura di Ferdinando Dubla

LA LOTTA DI CLASSE DI LOSURDO. UNA STORIA POLITICA E FILOSOFICA

Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza 2015

Un libro fondamentale del filosofo italiano e intellettuale comunista scomparso nel giugno 2018. Da studioso, passa ora ad essere studiato come uno degli autori più significativi in ambito marxista



Domenico Losurdo (1924-2018)

Scheda del libro

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche "sfruttamento di una nazione da parte di un'altra", come denunciava Marx, e l'oppressione "del sesso femminile da parte di quello maschile", come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell'ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

IL PLURALE DELLA LOTTA È NEI PROCESSI RIVOLUZIONARI

da un fondamentale libro di Domenico Losurdo

“Non c’è dubbio: per Dahrendorf, Habermas e Ferguson (ma anche, come vedremo, per autorevoli studiosi di orientamento marxista o post-marxista), la lotta di classe rinvia esclusivamente al conflitto tra proletariato e borghesia, e anzi a un conflitto tra proletariato e borghesia che è diventato acuto e di cui entrambe la parti hanno consapevolezza; ma è questa la visione di Marx ed Engels? Com’è noto, dopo aver evocato «lo spettro del comunismo» che si «aggira per l’Europa» e prima ancora di analizzare la «lotta di classe (Klassenkampf) già in atto» tra proletariato e borghesia, il Manifesto del partito comunista si apre enunciando una tesi destinata a diventare celeberrima e a svolgere un ruolo di primissimo piano nei movimenti rivoluzionari dell’Otto e Novecento: «La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe» (Klassenkämpfe) (MEW, 4; 462 e 475). Il passaggio dal singolare al plurale fa chiaramente intendere che quella tra proletariato e borghesia è solo una delle lotte di classe e queste, attraversando in profondità la storia universale, non sono affatto una caratteristica esclusiva della società borghese e industriale. Se ancora ci fossero dubbi, qualche pagina dopo il Manifesto ribadisce: «La storia di tutta la società si è svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche hanno assunto forme diverse» (MEW, 4; 480). Dunque, a essere declinate al plurale non sono solo le «lotte di classe», ma anche le «forme» che esse assumono nelle diverse epoche storiche, nelle diverse società, nelle diverse situazioni concrete che via via si verificano. Ma quali sono le molteplici lotte di classe ovvero le molteplici configurazioni della lotta di classe?“



Domenico Losurdo, di Sannicandro di Bari (1941-2018) uno dei più importanti storici della filosofia marxista italiani

 

Domenico Losurdo, La lotta di classe: una storia politica e filosofica, Laterza, 2015



cit. da formato digitale, tratta di nodi teorico-politici molto importanti per lo stesso marxismo, primi tra tutti lo “Stato-nazione” e la sua degenerazione negli assetti imperialistici in quanto coloniali, il nazionalismo identitario, e la transizione al socialismo nel passaggio sempre necessario dalla “rottura” al “processo” rivoluzionario.

- La lotta delle classi intrecciata alle lotte di liberazione nazionale.

È proprio questo intreccio, non il nazionalismo identitario, che rende i processi di liberazione dei popoli oppressi oggettivamente, oltre che soggettivamente, rivoluzionari contro l’imperialismo colonialista, cioè la forma acuta di dominio ed egemonia del sistema economico del capitalismo. In Marx ed Engels

“l’interesse per i «moti delle nazionalità oppresse» non è meno vivo e costante di quello riservato all’agitazione del proletariato e delle classi subalterne.”, ma nell’ambito internazionalista, tant’è che

“ovvia è la necessità di una «economia politica della classe operaia», ma ciò non basta; occorre chiarire «alle classi operaie il dovere d’iniziarsi ai misteri della politica internazionale, di vegliare sugli atti dei loro rispettivi governi, di opporsi a essi, se è necessario, con tutti i mezzi in loro potere»; occorre che esse si rendano conto che la lotta per una «politica estera» di appoggio alle nazioni oppresse è parte integrante della «lotta generale per l’emancipazione della classe operaia» (MEW, 16; 11 e 13)+

 + la sigla MEW, seguita dall’indicazione del volume e della pagina, rinvia ai Werke, Marx K., Engels F. (1955-89), Werke, Dietz, Berlin (in traduzione it. ora per La Città del sole “Opere complete”, 2011-2016)

 

  La transizione al socialismo è preminentemente una questione politica.

Per leggerla gramscianamente è il passaggio dal dominio all’egemonia, dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”. Per Losurdo parte dalla distinzione, netta in Mao Tse Tung, tra “espropriazione politica” ed “espropriazione economica”.

L’ identità fra la lotta nazionale e la lotta di classe, secondo Mao, tende a verificarsi nelle rivoluzioni anticoloniali. La lotta di classe entra nelle guerre di resistenza e di liberazione nazionale e le insurrezioni e rivoluzioni anticoloniali.

[d’altra parte è stato così anche per la Resistenza italiana, cfr. l’analisi di Pietro Secchia in Ferdinando Dubla, “La Resistenza accusa ancora- Pietro Secchia e l’antifascismo comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/45)”, Nuova Editrice Oriente, 2002]

 

“quando Marx parla della storia come storia della lotta di classe intende leggere in questa chiave non solo gli scioperi e i conflitti sociali di ogni giorno ma anche e soprattutto le grandi crisi, le grandi svolte storiche che si compiono sotto gli occhi di tutti: la lotta di classe è una macrostoria essoterica, non la microstoria esoterica cui spesso viene ridotta.” Certo, rimane il problema del segno di classe degli eventi storici: c’è il processo rivoluzionario (che è sia soggettivo che oggettivo) e c’è la reazione, la conservazione o il ritorno ad assetti regressivi dei sistemi sociali fondati sulla dialettica materialistica, asse portante dell’analisi marxista. Se la dialettica diventa genericamente masse/potere la lettura sociale diventa populista-qualunquista, anarcoide non anarchica, nel senso anche individuato da Gramsci: contro le frasi di «‘ribellismo’, di ‘sovversivismo’, di ‘antistatalismo’ primitivo ed elementare», espressione in ultima analisi di sostanziale «apoliticismo», cfr. Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, p. 2108-109 e 326-27.

 

prox.: LA “CATARSI” DI GRAMSCI, una nuova coscienza di classe per la transizione al socialismo dentro un processo rivoluzionario

 



Ferdinando Dubla- storico della filosofia, è condirettore della Scuola di Filosofia di Manduria "Giulio Cesare Vanini" e ricercatore di Subaltern studies Italia

 

Scuola di Filosofia "Giulio Cesare Vanini", Manduria (Ta) https://t.me/+q88FhLb0vFIyNjBk

Subaltern studies Italia - web -

http://lavoropolitico.it/subaltern_studies_italia.htm

Subaltern studies Italia FB

https://www.facebook.com/people/Subaltern-studies-Italia/100071061380125/

 

di e su Losurdo in questo blog

 

DOMENICO LOSURDO (1941-2018)

 

 

STORIA, STORIE E CONTROSTORIA: la premessa di Domenico Losurdo


 

martedì 1 ottobre 2024

DAL GENERE ALLA CLASSE TO BACK - Per una prospettiva marxista del femminismo

 


Il femminismo internazionalista guarda alla sperimentazione del confederalismo democratico del Rojava, all’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, dove centrale è la prassi della parità assoluta di genere, obiettivo del socialismo. Il femminismo internazionalista guarda, nella prassi e nella teoria, alla coniugazione della lotta di classe con la parità di genere, nè patriarcale nè matriarcale, termini dell’antropologia culturale che indicano la preminenza sociale di un genere sull’altro. L’ottica di classe è fondamentale anche nelle tesi subalterniste dell’analisi postcoloniale della Gayatry Spivak. Il femminismo internazionalista non è subalterno alla woke-culture, tipica delle società occidentali capitalistiche ad egemonia borghese. Generi di tutto il mondo, unitevi. / fe.d.

 

- A Roma dicono: "Famo a chiarisse". Per tutte quelle compagne che hanno salutato positivamente l'ascesa al "trono" di Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ribadisco che hanno tralignato dalla retta via o, nel caso delle giovanissime, mancano di una minima conoscenza storica. Per essere sintetica:

l'intersezionalismo, difeso dai movimenti femministi, nega il carattere classista dell'oppressione della donna promuovendo una lotta che si dovrebbe intersecare con una serie di lotte particolari tra le quali anche la lotta di classe. Ma, ahimè, quest'ultima non è intesa come lotta contro lo Stato, ma semplicemente come lotta economica e sindacale con la conseguente costruzione di movimenti di opinioni che non scalfiscono minimamente la classe dominante. Anzi, questi movimenti consentono a donne borghesi e piccolo borghesi di rompere il soffitto di cristallo occupando posti di potere nella società civile e nella politica. Indirizzare la lotta delle donne esclusivamente sul piano rivendicativo, di cui si riconosce l'importanza, non pone le basi per una reale liberazione ed emancipazione realizzabile solo con un'organizzazione di massa con orientamento di classe che miri alla costruzione di un governo socialista, democratico e popolare.

Le conquiste delle donne italiane, avvenute in un passato molto recente, diritto all'aborto, al divorzio, al voto, nell'Urss erano presenti già dopo la Rivoluzione di Ottobre. Mi si obietterà che alcune di tali conquiste vennero abolite o messe in discussione sotto Stalin. Ma anche qui, alla luce di un'analisi marxista, possiamo individuare le cause di tale regresso. Concludo dicendo che ignorare le contraddizioni di classe e di genere nel nostro sistema capitalistico e di imperialismo straccione, lottare per l'uguaglianza uomo-donna in contrapposizione fra loro, è un errore gravissimo e imperdonabile. L'uguaglianza di genere non è realizzabile nell'attuale sistema senza il suo abbattimento, senza una lotta che accomuni uomini e donne. Questo sistema imperialista e guerrafondaio, basato sul sangue delle classi più povere, per garantirsi la sopravvivenza ci sta spingendo sul precipizio di una terza guerra mondiale. Nello specifico, la Meloni, donna, madre e cristiana, conduce una guerra senza sosta in modo particolare contro le donne degli strati popolari. Care compagne della sedicente sinistra, non basta essere donne per condurre una lotta di liberazione della donna . La Meloni, da post fascista, cresciuta nell'ideologia fascio-razzista, pratica una politica di emarginazione delle donne delle fasce più deboli perchè lei è lei e non non siamo un .... Capito?




CHE GENERE DI DONNA

Meloni: una donna contro le donne.

Giorgia Meloni, è stata eletta Presidente del Consiglio,, paradosso della storia, grazie alle lotte e al lavoro collettivo di migliaia di donne, fra cui le madri costituenti che si sono battute per avere il diritto di voto, il diritto di autodeterminazione , la parità uomo-donna. Fra queste ultime e Meloni non c’è e non può esserci, per ragioni anagrafiche e per le sue radici culturali fasciste, nessuna corrispondenza d’amorosi sensi, anzi è in lei   un’avversione che non riesce a celare e che è presente nelle azioni politiche.  La sua storia ha un filo conduttore che non si è mai interrotto. Ha fatto politica fra gli uomini assorbendone  un humus razzista che le impedisce di avere qualsiasi coscienza di genere; appartiene a quella destra che si caratterizza per la normatività e la rigida separazione dei ruoli del patriarcato: donne madri  e uomini condottieri con una netta divisione dei compiti e con uno sguardo alla realtà odierna: tu, donna, puoi lavorare anche fuori  fuori casa, ma non dimenticare mai che la tua missione fondamentale è fare figli per la patria e a lei si affianca il cognato Lollobrigida con la proposta di servire la patria nell’agricoltura. Chiede di essere chiamata “il presidente” rifiutando in tal modo non solo la femminilità, ma veicolando l’idea che il potere anche quando è esercitato da una donna deve avere una matrice maschile.

Se anche le parole definiscono l’individuo  e ne rivelano la storia, quale enorme differenza fra il  discorso della presidentessa del Messico Claudia Sheinbaum e quello della nostra Presidente del Consiglio! La prima : “Non sono arrivata qui da sola ma ci siamo arrivate tutte insieme, le nostre eroine che hanno creato la patria, le nostre antenate, le nostre figlie e le nostre nipoti”; la Meloni cita una serie di nomi senza cognome, Tina, Teresa, Nilde senza sottolineare che assieme a tante altre donne hanno lottato contro l’emarginazione e l’oppressione della donna durante la dittatura  fascista  di quel Mussolini che, da ragazza, definì grande statista.

Al di là degli spot elettorali  Dio, Patria e Famiglia ( Su cui ci sarebbe molto da dire) urlati con occhi fuori dalle orbite ( vi ricorda qualcuno?), a definirne l’essenza fascista sono i provvedimenti adottati in questi due anni di governo nero. Infatti, la cara estimatrice della famiglia tradizionale, ha tagliato il 70% delle risorse per la prevenzione della violenza contro le donne passando dai 17 milioni di euro stanziati dal governo Draghi ai 5 milioni del 2023 previsti soprattutto per la repressione. Prevenzione ed educazione sono state tralasciate contravvenendo alla convenzione di Istanbul.

A conti fatti la politica “Dio patria e famiglia” ha peggiorato le condizioni di vita delle donne italiane registrando un arretramento relativamente a welfare, lavoro, servizi pubblici. Ha aumentato le tasse sui beni di prima necessità per l’infanzia e per l’igiene intima  ( la legge di bilancio del 2024 ha aumentato l’Iva dal 5 al 10% per latte in polvere e pannolini e al 22%per i seggiolini  da installare nelle automobili, riportato l’Iva al 22%  sugli assorbenti), ha tolto le facilitazioni per la pensione ( Opzione donna- Ape  sociale), ha tagliato i fondi del PNNR destinati alla costruzione di asili nido e centri antiviolenza al sud utilizzando beni confiscati alle mafie. La Meloni è ossessionata dall’inverno demografico, considera le donne solo in quanto madri al pari del duce; propone il riconoscimento giuridico dell’embrione, agisce con lucida violenza obbligando le donne che vogliono abortire ad ascoltare il battito del cuore, ostacolando l’aborto farmaceutico ed introduce la presenza dei Pro vita nei consultori stanziando fondi del PNRR.

Le politiche della Presidente del Consiglio sono quelle che discendono dal MSI neofascista, un partito costituito dai sostenitori del dittatore Benito Mussolini, salito al potere grazie all’appoggio di industriali ed agrari.

La Meloni, una donna contro le donne, chiariamoci: contro le donne proletarie, le donne degli strati popolari che devono vivere per sfornare figli che siano schiavi del capitalismo, carne da cannone per le guerre di cui la Presidente è sostenitrice. Una madre a senso unico, che è incapace di empatie nei confronti delle madri palestinesi che generano figli che vedranno morire prima degli anni di Cristo e che oggi vedono la luce della vita e il buio della notte nello stesso giorno. Sotto il cielo del capitalismo nasce l’oppressione di uomini e donne proletari, lumpen e piccolo borghesi.

 

Settimia Martino, 28.09.2024




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