CAN THE SUBALTERN SPEAK?
Gayatri Chakravorty
Spivak, migrante metropolitana femminista, come ella stessa si definisce nella
Critica della ragione postcoloniale “è un’intellettuale organica al pianeta” ,
commista di partiture teoretiche tra cui Kant, Hegel, il marxismo, la
decostruzione, la grammatologia di Derrida, la psicoanalisi freudiana e il
femminismo. Per comprendere il mondo, non si può che partire dal punto in cui
ci si trova, dalla confusione e dall’ossessione che ci assale, smascherando,
così, quella che, con un uso molto libero della terminologia di Lacan, chiama
la “forclusione dell’informante nativo”, quel paradosso di parlare dell’altro,
al solo fine di rafforzare il proprio io, soggetto dominante. Il termine
“subalterno” è attinto dai Quaderni di Antonio Gramsci, secondo cui le classi
subalterne possono avere coscienza di se stesse superando la loro disgregazione
e articolando la loro azione politica nel progetto di un’egemonia costruita
dalle élite politiche e culturali. Un gruppo di storici indiani nato nei primi
anni 80 sotto la guida di Ranajit Guha e di cui la stessa Spivak è tra i
maggiori, riadattano il termine gramsciano, decontestualizzando e
trasformandolo in una ricerca storica alternativa: HISTORY FROM BELOW.
- Tuttavia, Spivak si
distanzia dall’uso della categoria che ne fa Guha applicato al contadino indiano
poiché l’identità del soggetto subalterno viene definita sempre come una somma
di sottrazioni, delineando la storia di un fallimento. Da una parte, infatti la
conclusione formale del dominio coloniale, presa in se stessa, significa ben
poco dal punto di vista del perdurante governo della conoscenza coloniale,
mentre dall’altra, le condizioni materiali e simboliche della subalternità, si
sono riprodotte nel presente postcoloniale. E Can the Subaltern Speak? diventa
il manifesto di una rottura, di una denuncia, di una rivendicazione. La sua
domanda sul “parlare” dei subalterni rompe l’impostazione del Gruppo: Spivak
reclama una capacità di agire, un’egemonia non convenzionale, non tanto
sinonimo di potere, ma di un progetto che possa e sappia andare oltre il
simbolico prestabilito. Denuncia la prospettiva di Guha e degli intellettuali
occidentali, che raccontano la donna partendo sempre da storie di Altri. Al
Collettivo imputa un positivismo fossilizzato sugli archivi, agli intellettuali
occidentali la benevolenza redentrice. Difatti Spivak mostra come
l’interessamento degli intellettuali occidentali nei confronti del soggetto
coloniale finisca sempre per essere benevolente. Il loro atteggiamento mentale
e il loro punto di vista, alla fine coincide con la narrazione imperialista
perché quel che promette al nativo è la redenzione.
DAL
SUBALTERNISMO AL DECOSTRUZIONISMO, DAI SUBALTERN STUDIES ALLA CRITICA
POSTCOLONIALE: LA PARABOLA DELLA GAYATRI C. SPIVAK
La
“rottura” della Spivak è nel passaggio dal “soggetto che irrompe nella storia”
al “soggetto che decostruisce”. È il suo passaggio da Guha a Derrida. Un nodo teorico
importante per gli studi subalterni. / fe.d.
- La prosa di Spivak
non è solo una decostruzione che sfida, svela ed infrange i limiti del
linguaggio. Sin dal primo saggio che,
nel 1988, dedica al tema della decostruzione, “Subaltern Studies: decostruire
la storiografia“ [1988- Subaltern Studies: Decostructing Historiography,
Routledge], * individua nel riconoscimento del “fallimento” di Guha, nell’
“alienazione” irriducibile del soggetto, il necessario punto di partenza. È da
qui che deve (ri)iniziare il discorso dei Subaltern Studies, da una pratica di
decostruzione che sia in grado di mettere in discussione l’autorità del
soggetto della ricerca senza paralizzarlo, trasformando continuamente le
condizioni di impossibilità in possibilità”. Una necessità rivendicata con
forza maggiore nel breve saggio “La messa all’opera della decostruzione“
inserito come Appendice alla “Critica della ragione postcoloniale“ [1999 - A
Critique of Postcolonial Reason. Toward
a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge,
Massachusetts]. *1
Qui Spivak “interpreta
la decostruzione specificatamente nel lavoro di Derrida” dando indicazioni
sulla sua applicazione nel contesto della critica postcoloniale. Seguendo le
tappe del suo pensiero, Spivak nota un punto di svolta: “Si trattava di una
svolta rispetto al “tenere di guardia la domanda” – l’insistere sulla priorità
di un interrogativo a cui non si può rispondere, la questione della différance
– verso una ‘chiamata al completamente altro’ – ciò che deve essere differito –
deferito affinché possiamo, per così dire, postulare noi stessi”. Spivak traduce ciò nell’ “applicazione”
diretta ai testi prodotti dalla cultura, in cui si fa esperienza
dell’impossibile, che non può essere concettualizzato, perché “l’incontro con
il completamente altro, ha un’imprevedibile relazione con le nostre regole
etiche” . La singolarità è un’esperienza che non può essere generalizzata, pena
la caduta in forme di dominio che deformano, obliterandole, le differenze
esistenti. La “messa all’opera” della decostruzione, suggerisce Spivak,
“potrebbe essere di un certo interesse per molti osistemi culturali
marginalizzati”. Ma perché ciò avvenga, il soggetto che decostruisce, deve
dichiarare sia il proprio interesse per l’ “opera”, il proprio punto di
partenza, sia la complicità tra chi opera la decostruzione e il testo oggetto
d’analisi: “Le decostruzioni – scrive Spivak – nella misura in cui sia
possibile intraprenderle, sono sempre asimmetriche per via dell’‘interesse’ di
chi le opera”. Unica possibilità per evitare nuove forme di colonialismo
culturale attraverso l’ingannevole, per quanto rassicurante, perpetuarsi del
principio di identità che non riconosce ciò che è diverso.
* in it. nel volume
curato da Sandro Mezzadra “Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo”,
Ombre Corte, 2002
*1. in it. “Critica
della ragione postcoloniale”, Meltemi, 2004
LA
RAPPRESENTAZIONE
Quella di Spivak è una
decostruzione doppia e in contro luce: la decostruzione dell’opposizione tra il
collettivo e il subalterno, e la decostruzione dell’“apparente continuità
esistente tra gli studiosi in questione e i loro modelli anti-umanistici” .
Poiché, scrive, una lettura contro luce deve sempre essere strategica, essa non
deve mai avere la pretesa di stabilire la verità autoritativa di un testo, deve
sempre restare dipendente dalle esigenze pratiche e non deve essere mai
legittimata a formulare un’ortodossia teoretica. Nel caso del gruppo dei
Subaltern Studies, ciò dovrebbe sottrarlo alla pericolosa pretesa di stabilire
la vera conoscenza del subalterno e della sua coscienza. Quella del Collettivo
sembrerebbe un progetto positivista in quanto alla ricerca di un qualcosa da
cui poi partire per costruire una struttura di sapere/potere. Ma qui, avverte
Spivak, è al lavoro una forza che potrebbe “contraddire tale metafisica” , in
quanto l’accesso alla coscienza subalterna è possibile solo indirettamente, per
mezzo del metodo “indiziale” di Guha, attraverso gli archivi della
“contro-insurrezione”. Indizi, che probabilmente non consentiranno mai di
recuperare la coscienza dei Subalterni. Qui è in gioco quello che Spivak, con
terminologia post-strutturalista, definisce effetto-soggetto subalterno. Un
effetto – soggetto = ciò che sembra agire come un soggetto può essere parte di
un’immensa rete discontinua di fili a cui si possono attribuire i nomi di
politica, ideologia, economia, storia, sessualità, linguaggio e così via. I
diversi intrecci e le diverse configurazioni di questi fili, determinati da
fattori eterogenei che sono essi stessi dipendenti da una miriade di
circostanze, danno vita al soggetto agente. Il recupero, quindi, di una
posizione positiva del soggetto in Spivak diviene “strategia adeguata ai nostri
tempi”, capace di influenzare e di modellare la storiografia ufficiale,
mantenendo comunque la costante consapevolezza del rischio di un’oggettivazione
del subalterno, che finirebbe per rinchiuderlo nel “gioco del sapere come
potere” o di soffocarlo nella catacresi di figure e segni destinati a mancare
sempre il referente che evocano. Il problema, dunque, è la rappresentazione,
anzi, le rappresentazioni, dell’Altro/a.
- Spivak accusa il
pensiero occidentale di riprodurre, nel momento stesso in cui si autocritica,
quella forclusione dell’Altro (o dell’informante nativo) operata dall’episteme
imperialista.
APPUNTI SCOLASTICI
SULLA SPIVAK
Corso: Analisi dei
processi decisionali e sistema politico
Università di Bologna
Femminismo
e subalternismo, comunismo e decostruzionismo, Gramsci e Derrida,
altermondialismo/terzo_quartomondismo, critica alla ‘violenza epistemica’
dell’imperialismo culturale occidentalista, la rivoluzione disciplinare delle
scienze umane. Breve biblio della Gayatri C.Spivak.
di e su Spivak in
questo blog:
Gramsci
può parlare? - Il Gramsci della Spivak
LE
TRACCE IN ELENCO non sono più IN ELENCO - testo, traduzione e decostruzione del
Gramsci della Spivak
I
CONCETTI DI INFORMANTE NATIVO E FORCLUSIONE NELL'OPERA DI SPIVAK
LA
RANI di SIRMUR e il CANONE OCCIDENTALE
THE
THIRD-WORLD WOMAN: l’agency della soggettività femminile autonoma e subalterna
SCOPRIRE
LE PAROLE, DECOSTRUIRE I SIGNIFICATI. SPIVAK traduce DERRIDA
a cura di
Ferdinando Dubla - Subaltern
studies Italia
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