Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 30 ottobre 2024

RIPENSANDO SECCHIA E I SUBALTERNI: PER UN'ANALISI DI FASE, OGGI

 

da Paolo De Nardis, Alessandro Barile, Danilo Ruggeri, Ferdinando Dubla



Pietro Secchia (1903-1973)

L'OFFICINA DI SECCHIA

Scomparsa ogni ipotesi realizzabile di alternativa politica, per le classi dirigenti non è più necessario ricercare una qualche forma di consenso da parte dei subalterni. Basta il governo della popolazione, dinamica questa che ha portato lo Stato a ritirarsi dal suo ruolo di attore economico per tornare a svolgere quelle funzioni "minime" pre-novecentesche. Uno Stato amministrativo-repressivo, che ha reso marginali tutta una serie di soggetti sociali un tempo integrati nel sistema di rappresentanza politica e capaci di strappare quote di benessere economico non secondarie. Il disinteresse statale all'inclusione di determinate quote di popolazione ha prodotto la dinamica descritta dai media generalisti come "crisi della democrazia", cioè l'impossibilità congenita dei sistemi liberali di rappresentare politicamente tutti i soggetti sociali di un paese. Crisi, questa, che in assenza di alternative politiche si va esprimendo sempre di più nel rifiuto alla partecipazione elettorale e nei saltuari riot urbani, sintomatici di una mancata integrazione politica e al tempo stesso "gemito" alienato di una impossibile inclusione nella società integrata. Al contempo, l'affacciarsi sullo scenario interno di figure migranti centrali nel processo di valorizzazione del capitale, ma completamente escluse da ogni possibile rapporto con la rappresentanza politica ha complicato ulteriormente il quadro. Oggi le periferie metropolitane rivestono più la forma di retroterra coloniale che parti integrate di un "sistema paese". Periferie dove (soprav)vive un proletariato sempre più inserito nei gangli produttivi decisivi per reggere la competizione internazionale basata sulla produttività senza limiti ma che al contempo rappresenta "altro da sè" rispetto alla società riconosciuta, quella ufficiale e ufficialmente rappresentata dall'offerta politica generalista. Una discrasia socio-politica che non potrà che produrre, nel futuro, crisi strutturali del sistema politico dei paesi dell'Occidente capitalistico.

Alessandro Barile, Danilo Ruggieri: "Pietro Secchia rivoluzionario eretico - Scritti scelti". Presentazione di Paolo De Nardis, Bordeaux ed., 2016, pag.40.



I testi che presentiamo in questa antologia hanno un filo comune che li lega e rappresentano in qualche modo il lascito politico di Pietro Secchia alle generazioni a venire, nel senso che sia nell'introduzione al testo Le armi del fascismo (Feltrinelli, 1971), che nello scritto postumo dedicato alle "nuove generazioni" (Lotta antifascista e giovani generazioni, La Pietra, 1973, uscito qualche mese dopo la sua morte, avvenuta il 7 luglio 1973, a seguito di una improvvisa e da molti considerata misteriosa malattia), l'anziano dirigente biellese sintetizza parte di un grande lavoro di sistemazione, di raccolta, di elaborazione e bilancio storico ma soprattutto politico della lotta antifascista e della Resistenza, intesa e concepita come un'opera viva, non una vicenda logora, per addetti ai lavori, da consumare in qualche stantìo convegno celebrativo, ma come un'arma di lotta, di coscienza e di organizzazione per le nuove generazioni. La lettura politica del passato, dei suoi errori soggettivi e dei suoi limiti oggettivi, è vissuta come patrimonio da trasmettere alle nuove avanguardie e alle masse popolari che si affacciano alla storia presente, rivendicando giustizia sociale, diritti e un'intera nuova società. Questo è il profilo politico che Secchia delinea per la sua attività negli anni caldi della contestazione studentesca e operaia. Egli tenta con la sua opera di svolgere una funzione ideale di ponte e di attenzione verso le nuove forme della politica che si sviluppano molto spesso fuori dal partito comunista e sempre più spesso anche in contrasto con esso.

Ivi, pp.109-110 


LINEA ROSSA E LINEA NERA

Non è chiara la rottura irreparabile e fratricida, con una violenza verbale (e non solo quella) ben oltre i limiti di una polemica politica, nel PCd’I (m-l), fra quella che fu indicata come la linea nera e la linea rossa e che obiettivamente vanificò il tentativo più serio, da parte marxista-leninista, di costruire una forza di classe organizzata e di massa alla sinistra del PCI. Il numero di Lavoro Politico n.11/12 (ottobre 1968-gennaio 1969) e il numero ‘unico’ de Il Partito di martedi 21 gennaio 1969,  le due testate della linea rossa contrapposte a Nuova Unità, indicata poi come organo della linea nera,  centralizzano le differenze sul tema dell’organizzazione e danno conto della scissione come atto inevitabile per ripulire il partito dall’opportunismo e carrierismo infiltratosi e dalla sterilità parolaia dei gruppi dirigenti, dal loro massimalismo verbale di natura libresca (il dogmatismo) che cercava di nascondere la inattività e la pochezza dell’azione politica. L’atto storico della rottura si consumò nel Comitato Centrale del 6 ottobre 1968 fra il gruppo facente capo a Fosco Dinucci, Pesce e il responsabile dell’organizzazione Risaliti (costituitisi autonomamente il 24 novembre successivo) e il gruppo Peruzzi-Gracci. Questi ultimi ebbero l’appoggio della maggioranza della redazione di Lavoro Politico, mentre i primi conservarono la proprietà della testata Nuova Unità. E’ emblematico ravvisare l’analisi della rottura dai documenti della linea rossa:

“Idee, modi di vedere e comportamenti borghesi contrastano in modo irrimediabile con le idee, i modi di vedere e i comportamenti proletari che devono guidare i militanti e il Partito rivoluzionario. Penetrando al suo interno tali influenze borghesi si traducono nella tendenza a ‘rivedere’ l’ideologia marxista-leninista per renderla ‘conciliabile’ con le abitudini e i pregiudizi borghesi, fino a corromperne il significato rivoluzionario. (..)  I dirigenti e i militanti che insistono nel loro errore e rifiutano di autocriticarsi diventano oggettivamente dei controrivoluzionari, le tendenze errate diventano una linea nera che si oppone alla linea rossa del Partito per prendere il potere al suo interno. La lotta ideologica attiva deve, per conseguenza, convertirsi in lotta di classe aperta e dichiarata. La lotta di classe fra le due linee antagonistiche non può risolversi - come la lotta ideologica - con l’unità di tutti i militanti del Partito. Essa deve necessariamente risolversi con la liquidazione dell’una o dell’altra linea. Il problema è di sapere chi prenderà il potere nel Partito, se la linea proletaria o la linea borghese, la linea rossa o la linea nera. (..) Legame della teoria con la pratica significa combinare i principi universali con la loro applicazione creativa alla luce delle specifiche condizioni del proprio paese, analizzate sulla base della teoria marxista-leninista. Questo significa anche legare il partito alle masse, ossia mettere il partito proletario in grado di conoscere la vita delle masse, partecipare alla loro stessa esperienza, trarre da tale esperienze elementi per elaborare una linea politica che sia linea di massa capace di mobilitare concretamente le masse verso l’obiettivo della conquista del potere e non semplicemente di predicare loro la rivoluzione, senza saperla nè organizzare, nè dirigere. (..) Ma il marxismo-leninismo e il partito leninista che essi difendono non è che una morta astrazione, una costruzione puramente intellettuale che non opera fra le masse, che non si lega ad esse, che non le guida sulla via della rivoluzione. E’ un partito di tipo opportunista e burocratico, revisionista. (..) essi volevano costruire un partito di quadri che si autoproclamano grandi dirigenti al di fuori della pratica e che si considerano ‘perfetti comunisti’ sulla base di una ripetizione libresca di formule non applicate in modo creativo alla specifica realtà del loro paese, e nella lotta di classe.”[1]

E ne Il Partito del 21 gennaio 1969, pubblicato come ‘Giornale-manifesto del PCd’I (m-l)’:

“La separazione della teoria dalla pratica significa separazione fra le ‘parole’ rivoluzionarie e il concreto impegno a ‘fare’ la rivoluzione. (..) Il reclutamento individuale dei ‘quadri’, la loro organizzazione al di fuori della lotta, attraverso una azione di pura propaganda: a ciò essi cercavano di ridurre l’attività del Partito. (..) tutti i rapporti interni di partito tendevano ad essere visti come rapporti di ‘dipendenza gerarchica fra superiore e inferiore’, al di fuori di una discussione sulla linea politica che deve centralizzare i militanti e le istanze, dando un senso alla stessa disciplina organizzativa. (..) Il marxismo non è un ‘dogma morto’ ma una ‘guida per l’azione’. I suoi principi devono perciò essere fermamente difesi, contro ogni tendenza a ‘rivedere’ e ‘aggiornare’ la teoria. Ma, contemporaneamente essi devono venire applicati alla specifica realtà del nostro paese, devono essere utilizzati per condurre una analisi delle contraddizioni di classe nelle quali dobbiamo intervenire – in modo che la teoria rivoluzionaria serva alla pratica della rivoluzione in Italia.”

 

Analisi e accuse che, pur colorite con espressioni mutuate da altre esperienze, e in particolare dall’esperienza della rivoluzione culturale cinese, andavano al cuore di uno dei nodi più critici della tradizione del movimento operaio e comunista: d’altra parte erano guidate dalla profonda e acuta riflessione maoista sulla lotta tra le ‘due linee’, della lotta di classe ‘esterna’ e ‘interna’ al partito di classe. I marxisti-leninisti italiani, quelli con più radici di massa e legami popolari, si scontravano anch’essi con la dura realtà borghese, quella che utilizza l’arma dei propri valori fondanti per infiltrare i movimenti e organizzazioni di classe e romperli al loro interno. Non era lotta tra le ‘due linee’ quella che Secchia aveva combattuto nel PCI, la prima negli anni ‘30, poi durante la ‘guerra di movimento’ nella Resistenza,  poi nel PCI del dopoguerra? E non era lotta tra le ‘due linee’ quella che, sconfitta per ultimo la generazione dei resistenti alla Secchia e D’Onofrio, vedeva nel PCI la contrapposizione tra il conservatorismo di Amendola, che però utilizzava ecletticamente modelli e prassi mutuati dal terzinternazionalismo, e Ingrao e le cosiddette culture ‘critiche’ che si coaguleranno nel raggruppamento de Il Manifesto, che contestavano modelli e prassi della tradizione leninista (o almeno la loro ricezione ‘classica’), ma ponevano il problema dei movimenti e della coerente azione rivoluzionaria?

Il mancato scioglimento di questi nodi, il persistere di confusioni, occultamenti e contraddizioni riguardo il nesso tra organizzazione, partito e rivoluzione, la lotta tra le ‘due ‘linee,  dipana il processo dialettico che situa la vicenda di Pietro Secchia sul crinale dei rapporti tra il PCI e il movimento del ‘68.

La diaspora tra linea nera e linea rossa sarà una costante irrisolta dei movimenti e delle organizzazioni del proletariato che va ben al di là del ‘68 e della peculiare storia del PCd’I (m-l) o della particolare vicenda politica e personale di Secchia e chiama in causa la reale possibilità della trasformazione rivoluzionaria nel cuore dell’occidente capitalistico.

 

Ferdinando Dubla, da "Secchia, il PCI e il '68", Datanews, 1998, pp.97-100



[1] Cfr. Lavoro Politico, n.11/12, cit., Viva il Partito Comunista d’Italia (m-l)!, pp.1/9. 




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