da
Paolo De Nardis, Alessandro Barile, Danilo Ruggeri, Ferdinando Dubla
L'OFFICINA
DI SECCHIA
Scomparsa ogni ipotesi
realizzabile di alternativa politica, per le classi dirigenti non è più
necessario ricercare una qualche forma di consenso da parte dei subalterni.
Basta il governo della popolazione, dinamica questa che ha portato lo Stato a
ritirarsi dal suo ruolo di attore economico per tornare a svolgere quelle
funzioni "minime" pre-novecentesche. Uno Stato
amministrativo-repressivo, che ha reso marginali tutta una serie di soggetti
sociali un tempo integrati nel sistema di rappresentanza politica e capaci di
strappare quote di benessere economico non secondarie. Il disinteresse statale
all'inclusione di determinate quote di popolazione ha prodotto la dinamica
descritta dai media generalisti come "crisi della democrazia", cioè
l'impossibilità congenita dei sistemi liberali di rappresentare politicamente
tutti i soggetti sociali di un paese. Crisi, questa, che in assenza di
alternative politiche si va esprimendo sempre di più nel rifiuto alla
partecipazione elettorale e nei saltuari riot
urbani, sintomatici di una mancata integrazione politica e al tempo stesso
"gemito" alienato di una impossibile inclusione nella società
integrata. Al contempo, l'affacciarsi sullo scenario interno di figure migranti
centrali nel processo di
valorizzazione del capitale, ma completamente escluse da ogni possibile rapporto con la rappresentanza politica
ha complicato ulteriormente il quadro. Oggi le periferie metropolitane
rivestono più la forma di retroterra coloniale che parti integrate di un
"sistema paese". Periferie dove (soprav)vive un proletariato sempre
più inserito nei gangli produttivi decisivi per reggere la competizione
internazionale basata sulla produttività senza limiti ma che al contempo
rappresenta "altro da sè" rispetto alla società riconosciuta, quella
ufficiale e ufficialmente rappresentata dall'offerta politica generalista. Una
discrasia socio-politica che non potrà che produrre, nel futuro, crisi
strutturali del sistema politico dei paesi dell'Occidente capitalistico.
Alessandro Barile, Danilo Ruggieri: "Pietro Secchia rivoluzionario eretico - Scritti scelti". Presentazione di Paolo De Nardis, Bordeaux ed., 2016, pag.40.
I testi che presentiamo
in questa antologia hanno un filo comune che li lega e rappresentano in qualche
modo il lascito politico di Pietro Secchia alle generazioni a venire, nel senso
che sia nell'introduzione al testo Le
armi del fascismo (Feltrinelli, 1971), che nello scritto postumo dedicato
alle "nuove generazioni" (Lotta
antifascista e giovani generazioni, La Pietra, 1973, uscito qualche mese
dopo la sua morte, avvenuta il 7 luglio 1973, a seguito di una improvvisa e da
molti considerata misteriosa malattia), l'anziano dirigente biellese sintetizza
parte di un grande lavoro di sistemazione, di raccolta, di elaborazione e
bilancio storico ma soprattutto politico della lotta antifascista e della
Resistenza, intesa e concepita come un'opera viva, non una vicenda logora, per
addetti ai lavori, da consumare in qualche stantìo convegno celebrativo, ma
come un'arma di lotta, di coscienza e di organizzazione per le nuove
generazioni. La lettura politica del passato, dei suoi errori soggettivi e dei
suoi limiti oggettivi, è vissuta come patrimonio da trasmettere alle nuove
avanguardie e alle masse popolari che si affacciano alla storia presente,
rivendicando giustizia sociale, diritti e un'intera nuova società. Questo è il
profilo politico che Secchia delinea per la sua attività negli anni caldi della
contestazione studentesca e operaia. Egli tenta con la sua opera di svolgere
una funzione ideale di ponte e di attenzione verso le nuove forme della
politica che si sviluppano molto spesso fuori dal partito comunista e sempre
più spesso anche in contrasto con esso.
Ivi,
pp.109-110
LINEA
ROSSA E LINEA NERA
Non è chiara la rottura
irreparabile e fratricida, con una violenza verbale (e non solo quella) ben
oltre i limiti di una polemica politica, nel PCd’I (m-l), fra quella che
fu indicata come la linea nera e la linea rossa e che obiettivamente vanificò il tentativo più
serio, da parte marxista-leninista, di costruire una forza di classe
organizzata e di massa alla sinistra del PCI. Il numero di Lavoro Politico n.11/12 (ottobre 1968-gennaio 1969) e il numero
‘unico’ de Il Partito di martedi 21 gennaio
1969, le due testate della linea rossa contrapposte a Nuova Unità,
indicata poi come organo della linea nera, centralizzano le differenze sul tema
dell’organizzazione e danno conto della scissione come atto inevitabile per
ripulire il partito dall’opportunismo e carrierismo infiltratosi e dalla
sterilità parolaia dei gruppi dirigenti, dal loro massimalismo verbale di
natura libresca (il dogmatismo) che cercava di nascondere la inattività e la
pochezza dell’azione politica. L’atto storico della rottura si consumò nel
Comitato Centrale del 6 ottobre 1968 fra il gruppo facente capo a Fosco Dinucci, Pesce e il responsabile dell’organizzazione Risaliti (costituitisi autonomamente il 24 novembre
successivo) e il gruppo Peruzzi-Gracci. Questi ultimi
ebbero l’appoggio della maggioranza della redazione di Lavoro Politico, mentre i primi conservarono la proprietà della
testata Nuova Unità. E’ emblematico
ravvisare l’analisi della rottura dai documenti della linea rossa:
“Idee,
modi di vedere e comportamenti borghesi contrastano in modo irrimediabile con
le idee, i modi di vedere e i comportamenti proletari che devono guidare i
militanti e il Partito rivoluzionario. Penetrando al suo interno tali influenze
borghesi si traducono nella tendenza a ‘rivedere’ l’ideologia
marxista-leninista per renderla ‘conciliabile’ con le abitudini e i pregiudizi
borghesi, fino a corromperne il significato rivoluzionario. (..) I dirigenti e i militanti che insistono nel
loro errore e rifiutano di autocriticarsi diventano oggettivamente dei
controrivoluzionari, le tendenze errate diventano una linea nera che si oppone alla linea rossa del Partito per prendere il potere al suo
interno. La lotta ideologica attiva deve, per conseguenza, convertirsi in lotta
di classe aperta e dichiarata. La lotta di classe fra le due linee
antagonistiche non può risolversi - come la lotta ideologica - con l’unità di
tutti i militanti del Partito. Essa deve necessariamente risolversi con la
liquidazione dell’una o dell’altra linea. Il problema è di sapere chi prenderà
il potere nel Partito, se la linea proletaria o la linea borghese, la linea
rossa o la linea nera. (..) Legame della teoria con la pratica significa
combinare i principi universali con la loro applicazione creativa alla luce
delle specifiche condizioni del proprio paese, analizzate sulla base della
teoria marxista-leninista. Questo significa anche legare il partito alle masse,
ossia mettere il partito proletario in grado di conoscere la vita delle masse,
partecipare alla loro stessa esperienza, trarre da tale esperienze elementi per
elaborare una linea politica che sia linea
di massa
capace di mobilitare concretamente le masse verso l’obiettivo della conquista
del potere e non semplicemente di predicare loro la rivoluzione, senza saperla
nè organizzare, nè dirigere. (..) Ma il marxismo-leninismo e il partito leninista
che essi difendono non è che una morta astrazione, una costruzione puramente
intellettuale che non opera fra le masse, che non si lega ad esse, che non le
guida sulla via della rivoluzione. E’ un partito di tipo opportunista e
burocratico, revisionista. (..) essi volevano costruire un partito di quadri
che si autoproclamano grandi dirigenti al di fuori della pratica e che si
considerano ‘perfetti comunisti’ sulla base di una ripetizione libresca di
formule non applicate in modo creativo alla specifica realtà del loro paese, e
nella lotta di classe.”[1]
E ne Il Partito del 21 gennaio 1969, pubblicato come
‘Giornale-manifesto del PCd’I (m-l)’:
“La separazione della
teoria dalla pratica significa separazione fra le ‘parole’ rivoluzionarie e il
concreto impegno a ‘fare’ la rivoluzione. (..) Il reclutamento individuale dei
‘quadri’, la loro organizzazione al di fuori della lotta, attraverso una azione
di pura propaganda: a ciò essi cercavano di ridurre l’attività del Partito.
(..) tutti i rapporti interni di partito tendevano ad essere visti come
rapporti di ‘dipendenza gerarchica fra superiore e inferiore’, al di fuori di
una discussione sulla linea politica che deve centralizzare i militanti e le
istanze, dando un senso alla stessa disciplina organizzativa. (..) Il marxismo
non è un ‘dogma morto’ ma una ‘guida per l’azione’. I suoi principi devono
perciò essere fermamente difesi, contro ogni tendenza a ‘rivedere’ e
‘aggiornare’ la teoria. Ma, contemporaneamente essi devono venire applicati
alla specifica realtà del nostro paese, devono essere utilizzati per condurre
una analisi delle contraddizioni di classe nelle quali dobbiamo intervenire –
in modo che la teoria rivoluzionaria serva alla pratica della rivoluzione in Italia.”
Analisi e accuse che,
pur colorite con espressioni mutuate da altre esperienze, e in particolare
dall’esperienza della rivoluzione culturale cinese, andavano al cuore di uno dei nodi più
critici della tradizione del movimento operaio e comunista: d’altra parte erano
guidate dalla profonda e acuta riflessione maoista sulla lotta tra le ‘due linee’,
della lotta di classe ‘esterna’ e ‘interna’ al partito di classe. I
marxisti-leninisti italiani, quelli con più radici di massa e legami popolari,
si scontravano anch’essi con la dura realtà borghese, quella che utilizza
l’arma dei propri valori fondanti per infiltrare i movimenti e organizzazioni
di classe e romperli al loro interno. Non era lotta tra le ‘due linee’ quella
che Secchia aveva combattuto nel PCI, la prima negli anni
‘30, poi durante la ‘guerra di movimento’ nella Resistenza, poi nel PCI del dopoguerra? E non era lotta
tra le ‘due linee’ quella che, sconfitta per ultimo la generazione dei
resistenti alla Secchia e D’Onofrio, vedeva nel PCI
la contrapposizione tra il conservatorismo di Amendola, che però
utilizzava ecletticamente modelli e prassi mutuati dal terzinternazionalismo, e
Ingrao e le cosiddette culture ‘critiche’ che si
coaguleranno nel raggruppamento de Il
Manifesto, che contestavano modelli e prassi della
tradizione leninista (o almeno la loro ricezione ‘classica’), ma ponevano il
problema dei movimenti e della coerente azione rivoluzionaria?
Il mancato scioglimento
di questi nodi, il persistere di confusioni, occultamenti e contraddizioni
riguardo il nesso tra organizzazione, partito e rivoluzione, la lotta tra le ‘due
‘linee, dipana il processo dialettico
che situa la vicenda di Pietro Secchia sul crinale dei rapporti tra il PCI e il
movimento del ‘68.
La diaspora tra linea nera e linea rossa sarà una costante irrisolta dei movimenti e
delle organizzazioni del proletariato che va ben al di là del ‘68 e della
peculiare storia del PCd’I (m-l) o della particolare vicenda politica e
personale di Secchia e chiama in causa la reale possibilità della
trasformazione rivoluzionaria nel cuore dell’occidente capitalistico.
Ferdinando Dubla, da "Secchia, il PCI e il '68", Datanews, 1998, pp.97-100
[1] Cfr. Lavoro Politico, n.11/12, cit., Viva il Partito Comunista d’Italia (m-l)!, pp.1/9.
Su
Pietro Secchia in questo blog:
PIETRO
SECCHIA e GLI STEREOTIPI STORICI. L'intervista a Cumpanis (2)
L’INTELLETTUALE
e IL PARTIGIANO (1)
report
iniziativa su Pietro Secchia -- Fermo
Relazione
sull’iniziativa
“Pietro Secchia. Attualità di una proposta di lotta per
la democrazia progressiva”
Fermo – 7/12/2010
Associazione politico-culturale Marx XXI°
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